Archvi dell'anno: 2013

Catullo

catullo

Tutti i carmina del Liber catulliano in lingua latina e in traduzione italiana.

Come leggere Catullo? Non come gli eruditi dalle “teste calve” di Yeats:

Bald heads forgetful of their sins, 
Old, learned, respectable bald heads
Edit and annotate the lines
That young men, tossing on their beds,
Rhymed out in love’s despair
To flatter beauty’s ignorant ear.
All shuffle there; all cough in ink;
All wear the carpet with their shoes;
All think what other people think;
All know the man their neighbour knows.
Lord, what would they say
Did their Catullus walk that way?

William Butler Yeats, The Scholars [1914-1915]

Teste calve, ormai ignare dei propri peccati,
vecchie, erudite e rispettabili teste calve
pubblicano e annotano i versi
che giovani uomini, tossendo nei loro letti,
hanno ritmato, disperati d’amore,
per lusingare l’orecchio impenetrabile della Bellezza.
Si trascinano a stento, tossiscono nell’inchiostro,
logorano il tappeto con le loro scarpe;
pensano ciò che tutti pensano;
conoscono le persone che i loro vicini conoscono.
Signore, che cosa potrebbero dire
se il loro Catullo dovesse incrociare il loro cammino?

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Esami di Stato 2013: Prima prova

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Il sito Zanichelli dedicato alla Prova Scritta di Italiano:  CLICCA QUI.
Su www. illuminations.tk (area riservata, Didattica italiano scritto) sono  a disposizione:

– il file aggiornato con i consigli per lo svolgimento della prima prova;

– un modello di SIMULAZIONE della prova d’esame  (esercitazione vivamente raccomandata).

Per ricordare: una mappa per la stesura del saggio breve.

VIDEO dedicato al saggio breve: CLICCA QUI.

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La poesia italiana del Novecento

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Autori, esperienze, movimenti letterari, PREZI a cura di Carlo Mariani. Come nasce la poesia italiana del Novecento? Quali sono gli autori che rappresentano il passaggio dalla tradizione al rinnovamento?  CLICCA QUI.

 

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Francesco Petrarca

I luoghi petrarcheschi: mappa interattiva. CLICCA QUI.

Chi fu Laura?

Laura, illustre per le sue virtù e a lungo celebrata nei miei carmi, apparve la prima volta ai miei occhi nel primo tempo della mia adolescenza, l’anno del Signore 1327, il sesto giorno d’aprile nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, a mattutino; e in quella stessa città, nello stesso mese d’aprile, lo stesso giorno 6, nella stessa ora prima del giorno dell’anno 1348 la luce della sua vita è stata sottratta alla luce del giorno mentre io per caso mi trovavo a Verona, ignaro, ahimè!, del mio destino. La funesta notizia mi raggiunse a Parma, in una lettera del mio Ludovico, nello stesso anno, la mattina del 19 di maggio. Il suo corpo castissimo e bellissimo fu messo a riposare nel cimitero dei frati minori il giorno stesso in cui ella morì, al vespro. “La sua anima – come dice Seneca di Scipione l’Africano – mi sono convinto che sia tornata in cielo, donde era venuta” (Epist. 86, 1). Ho ritenuto di scrivere questa nota ad acerbo ricordo di tale perdita, e tuttavia con una certa amara dolcezza, su questa pagina che spesso mi torna sotto gli occhi, affinché mi venga l’ammonimento, dalla frequente vista di queste parole e dalla meditazione sul rapido fuggire del tempo, che non c’è nulla in questa vita in cui io possa ormai trovare piacere e che è tempo, ora che è rotto il legame più forte, di fuggire da Babilonia: e ciò per la preveggente grazia di Dio sarà per me facile se rifletterò con virile perseveranza sulle inutili cure, sulle vane speranze e sugli eventi imprevisti del tempo passato.

Nota di mano petrarchesca del 19 maggio 1348 a margine del codice virgiliano appartenuto al poeta  e ora conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano (Virgilio ambrosiano); trad. di M. Santagata in I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 126)

RVF, CXXXII

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S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?
Se bona, onde l’effecto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?

S’a mia voglia ardo, onde ’l pianto e lamento?
S’a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilectoso male,
come puoi tanto in me, s’io no ’l consento?

Et s’io ’l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo,

sí lieve di saver, d’error sí carca
ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,
et tremo a mezza state, ardendo il verno.

Dal sito Italica: F. Rico, F. Petrarca.

“Passepartout”, a cura di P. Daverio: Petrarca antiquo.

RVF, CXXXIII

Amor m’à posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco,
et come nebbia al vento; et son già roco,
donna, mercé chiamando, et voi non cale.

Da gli occhi vostri uscío ‘l colpo mortale,
contra cui non mi val tempo né loco;
da voi sola procede, et parvi un gioco,
il sole e ‘l foco e ‘l vento ond’io son tale.

I pensier’ son saette, e ‘l viso un sole,
e ‘l desir foco; e ‘nseme con quest’arme
mi punge Amor, m’abbaglia et mi distrugge;

et l’angelico canto et le parole,
col dolce spirto ond’io non posso aitarme,
son l’aura inanzi a cui mia vita fugge.

Chi fu Laura?

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    Videolezioni di Andrea Cortellessa.

Introduzione alla vita e alle opere di Francesco Petrarca.

Il Canzoniere. 

Tutte le rime del Canzoniere: CLICCA QUI.

Lettura e commento delle liriche: “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono“; Solo e pensoso i più deserti campi“; “Chiare , fresche e dolci acque…“.

L’umanesimo di Petrarca.

Petrarca, RVF:  i madrigali.

CXXI

Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, et del mio mal non cura,
et tra duo ta’ nemici è sí secura.

Tu se’ armato, et ella in treccie e ‘n gonna
si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba,
ver’ me spietata, e ‘n contra te superba.

I’ son pregion; ma se pietà anchor serba
l’arco tuo saldo, et qualchuna saetta,
fa di te et di me, signor, vendetta.

Approfondimento: da Griseldaonline, G. FORNI, Piccoli gesti estremi: i quattro madrigali del Canzoniere di Petrarca, 2012

Petrarca e Laura:  iconografia. CLICCA QUI. 

FRANCESCO PETRARCA, CANZONIERE, TRIONFI
VENEZIA, VINDELINO DA SPIRA, 1470
DECORAZIONE: ANTONIO GRIFO.
BRESCIA, BIBLIOTECA CIVICA QUERINIANA

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Perché leggere, perché scrivere? Una citazione dall’epistolario di Petrarca dal film “Gli occhiali d’oro” di G. Montaldo, 1987:

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Giovanni Pascoli

                                                              Myricae

 VIDEOLEZIONI. Andrea Cortellessa spiega:

http://www.oilproject.org/lezione/la-poetica-del-fanciullino-di-pascoli-spiegazione-e-commento-1384.html

http://www.oilproject.org/lezione/lassiuolo-di-pascoli-analisi-del-testo-e-commento-1386.html

http://www.oilproject.org/lezione/gelsomino-notturno-di-pascoli-analisi-del-testo-e-commento-1388.html

http://www.oilproject.org/lezione/la-vertigine-di-giovanni-pascoli-lettura-e-commento-di-andrea-cortellessa-1390.html 

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Viburni

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Tacito, La morte di Seneca

Heiner MüllerLa morte di Seneca [1992]

Cosa pensò Seneca (e non disse)
Quando il capo della guardia di Nerone senza proferire parola
estrasse la sentenza di morte dalla sua corazza
col sigillo dell’allievo per il maestro
(aveva imparato a scrivere e ad apporre il sigillo
e il disprezzo per tutte le morti a parte
la propria:
regole d’oro di ogni arte dello Stato)
Cosa pensò Seneca (e non disse)
Quando vietò il pianto ad ospiti e schiavi
Che avevano condiviso la sua ultima cena con lui
Gli schiavi al capo del tavolo
LE LACRIME NON SONO FILOSOFICHE
DURA LEX SED LEX
E PER QUEL CHE RIGUARDA QUESTO NERONE CHE HA UCCISO
SUA MADRE E SUO FRATELLO PERCHÉ AVREBBE DOVUTO
FARE UN’ECCEZIONE CON IL SUO MAESTRO PERCHÈ
RINUNCIARE AL SANGUE DEL FILOSOFO
CHE NON GLI HA INSEGNATO A SPARGERE SANGUE
E quando fece aprirsi le vene
Quelle delle braccia dapprima e quelle di sua moglie
Che non voleva sopravvivere alla sua morte
Facendosele tagliare da uno schiavo probabilmente
Anche la spada su cui si lasciò cadere Bruto
Alla fine della sua speranza repubblicana
Dovette essere tenuta da uno schiavo
Cosa pensò Seneca (e non disse)
Mentre il sangue lasciava troppo lentamente
il suo corpo troppo vecchio e lo schiavo ubbidiente al padrone
Aprì le vene delle gambe e delle cavità poplitee
Sussurrando con corde vocali secche
I MIEI DOLORI SONO LA MIA PROPRIETÀ
PORTATE MIA MOGLIE NELLA STANZA ACCANTO E LO SCRIVANO A ME
La mano non poteva più tenere l’impugnatura dello stilo
Ma il cervello lavorava ancora La macchina
fabbricò parole e frasi e annotò i dolori
Cosa pensò Seneca (e non disse) tra le lettere del suo ultimo dettato
Immagazzinato sul divano del filosofo
E quando svuotò la tazza col veleno venuto da Atene
Perché la sua morte si faceva ancora attendere
E il veleno che aveva aiutato molti prima di lui
Riuscì a scrivere solo una nota a piè di pagina nel suo
corpo già quasi svuotato di sangue nessun testo chiaro
Cosa pensò Seneca (alla fine senza parole)
Quando andò incontro alla morte nella sauna
Mentre l’aria danzava davanti a suoi occhi
La terrazza si oscurò per il confuso battito d’ali
Non di angeli probabilmente anche la morte non è un angelo
nello scintillio di colonne al rivedere
Il suo primo filo d’erba che aveva visto
Su un prato vicino a Cordoba, alto come nessun albero

PER APPROFONDIRE

James Ker, The Deaths of Seneca, Oxford University Press, 2009

“The forced suicide of Seneca, former adviser to Nero, is one of the most tortured–and most revisited–death scenes from classical antiquity. After fruitlessly opening his veins and drinking hemlock, Seneca finally succumbed to death in a stifling steam bath, while his wife Paulina, who had attempted suicide as well, was bandaged up and revived by Nero’s men. From the first century to the present day, writers and artists have retold this scene in order to rehearse and revise Seneca’s image and writings, and to scrutinize the event of human death.
In The Deaths of Seneca, James Ker offers the first comprehensive cultural history of Seneca’s death scene, situating it in the Roman imagination and tracing its many subsequent interpretations. Ker shows first how the earliest accounts of the death scene by Tacitus and others were shaped by conventions of Greco-Roman exitus-description and Julio-Claudian dynastic history. At the book’s center is an exploration of Seneca’s own prolific writings about death–whether anticipating death in his letters, dramatizing it in the tragedies, or offering therapy for loss in the form of consolations–which offered the primary lens through which Seneca’s contemporaries would view the author’s death. These ancient approaches set the stage for prolific receptions, and Ker traces how the death scene was retold in both literary and visual versions, from St. Jerome to Heiner Müller and from medieval illuminations to Peter Paul Rubens and Jacques-Louis David. Dozens of interpreters, engaging with prior versions and with Seneca’s writings, forged new and sometimes controversial views on Seneca’s legacy and, more broadly, on mortality and suicide. The Deaths of Seneca presents a new, historically inclusive, approach to reading this major Roman author”.

Luca Giordano, La morte di Seneca, 1650–1675, Le Mans Crescent, Bolton, Greater Manchester, England

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Boccaccio e l’amore

PER APPROFONDIRE

La  letteratura nell’arte. Botticelli rappresenta la novella di Nastagio degli Onesti: F.  Poletti, Botticelli narratore.

R. Luperini, Amore, rapporto fra sessi e centralità della figura femminile in Boccaccio, Palumbo, 2006

All’amore è ispirata la maggior parte delle novelle del Decameron. Tre intere giornate (III, IV e V) sono dedicate a questo tema. L’associazione delle donne all’amore è esplicita fin dall’inizio, come è esplicita la volontà dell’autore di mettersi dalla loro parte. Le donne che amano costituiscono il pubblico privilegiato a cui si rivolge direttamente l’autore nell’introduzione (cfr. Proemio). Nell’autodifesa Boccaccio ribadisce di voler rimanere fedele alle donne, cioè alla tematica amorosa: le Muse sono donne, non più intermediarie tra l’uomo e Dio, ma tra lo scrittore e la poesia.
Le premesse teoriche di tale scelta sono enunciate sempre nell’Introduzione alla IV giornata: «gli altri e io che vi amiamo naturalmente operiamo; alle cui leggi, cioè della natura, voler contrastare troppo grandi forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del praticante si adoperano». La novella delle papere conferma questa idea dell’amore come forza irresistibile della natura. Il richiamo alla natura come fondamento dell’amore era già in Andrea Cappellano, ma Boccaccio ne sviluppa spregiudicatamente l’aspetto naturalistico: la natura diventa un concetto chiave che legittima la forza e la libertà dell’amore in tutte le sue forme sia contro la repressione religiosa e familiare, sia contro ogni astratta idealizzazione. L’amore è inoltre un bene e un valore in sé, a prescindere dagli effetti virtuosi di elevazione morale attribuitigli dalla concezione cortese e stilnovistica. Non esiste nel Decameron il conflitto tra spiritualità e sensualità, che è invece presente nella cultura del Trecento e diventa drammatico in Petrarca. Quest’idea dell’amore comporta una particolare valorizzazione del ruolo della donna e del rapporto tra i sessi. Proprio l’eros e la sessualità femminile, tradizionalmente repressi e condannati, sono rivalutati con grande spregiudicatezza da Boccaccio, fino a capovolgere i luoghi comuni della polemica misogina (dall’insaziabilità sessuale all’infedeltà e all’adulterio delle donne). Dal piano più elementare del puro istinto sessuale a quello più elevato della partecipazione passionale, l’amore non esiste senza il coinvolgimento del corpo. Lo stesso tema del suicidio, in genere estraneo alla tradizione cortese, allude all’impossibilità della sopravvivenza fisica senza l’amato. Così concepito, come fondamento biologico e istintuale della vita, esso sfugge ad ogni giudizio morale e ha comunque una sua legittimità. […]
Cade inoltre nel Decameron ogni distinzione tra amore onesto e amore per diletto: solo l’amore mercenario è condannato. Basti considerare l’atteggiamento di Boccaccio verso l’adulterio delle donne. La simpatia dell’autore è per monna Sismonda (VII, 8) che applica il suo ingegno a tradire il marito perché «sì come i mercatanti fanno andava molto da torno e poco con lei dimorava». Alatiel passa nel giro di quattro anni tra le mani di otto uomini e poi «restituita al padre per pulcella» va finalmente sposa al re del Garbo: Alatiel, priva di parola, semplice corpo la cui passività e disponibilità sono riscattate dal piacere della sua partecipazione erotica, diventa un puro simbolo della fascinazione sensuale irresistibile e fatale (II, 7). […] È monna Filippa (VI, 7) ad esprimere nel modo più radicale le ragioni delle donne difendendo l’adulterio, davanti al tribunale di Prato, come diritto alla piena soddisfazione erotica e alla libertà di disporre del proprio corpo: anzi essa giunge a contestare la validità della legge che condannava a morte la donna adultera perché fatta dagli uomini contro le donne e senza il loro consenso.
L’amore fa sentire la sua forza anche nei conventi (cfr. La novella della badessa e le brache), né c’è da meravigliarsene: «assai sono di quegli uomini e di quelle femmine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come a una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e indosso messole la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta dei femminili appetiti se non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca». Anche i contadini sono capaci di amore: in fatti si ingannano quelli che credono «che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto ai lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d’intelletto e d’avedimento grossissimi» (III, 1).
Con ciò il Boccaccio supera decisamente i limiti della concezione cortese dell’amore: l’amore diventa una forza eversiva che tende a una potenziale democrazia tra i sessi e tra i diversi ceti sociali. Tuttavia, pur attraversando le barriere sociali, l’istinto erotico non arriva a mettere in discussione l’ordine borghese, ma solo i suoi aspetti autoritari e repressivi: la soluzione è l’integrazione sociale (cfr.  a novella di Federigo degli Alberighi) o la rinuncia (cfr.  la novella dello stalliere del re Agilulfo). Così, pur legittimando l’adulterio, Boccaccio non va contro il matrimonio: l’amore spesso si conclude borghesemente con il matrimonio anche nelle novelle d’ambiente cortese, come in quella di Federigo degli Alberighi. In Boccaccio le donne per la prima volta nella nostra letteratura acquistano dignità di personaggi e una pluralità di esistenze concrete e differenziate secondo l’appartenenza ai vari ceti sociali. La donna non solo è oggetto, ma anche soggetto di desiderio, né ha timore di esprimere i propri desideri erotici: è lei, da Fiammetta (in L’elegia di Madonna Fiammetta) a Ghismunda, a prendere spesso l’iniziativa amorosa.
La donna infine parla: secolarmente esclusa dall’uso pubblico della parola, essa, almeno una volta, con monna Filippa (VI, 7), se ne appropria e, in tribunale, davanti a un pubblico maschile difende vittoriosamente i diritti delle donne non solo all’amore, ma anche a fare le leggi. Anche monna Bartolomea tiene testa al marito giudice e Ghismunda al padre. Non è così per l’umile Simona, che paga con la vita la sua inca pacità di farsi capire dai giudici (IV, 7) o per Lisabetta da Messina, costretta al silenzio dal dispotismo fraterno (cfr. la novella di Llisabetta da Messina). La donna è anche capace di coraggio, dà prova di ingegno e di virtù, ma la sfera della sua azione è sempre ed esclusivamente limitata all’ambito erotico. Anche in un personaggio come quello di Giletta di Narbona, indubbiamente dotata di virtù maschili (conosce l’arte medica, sa amministrare le terre, viaggia da sola a cavallo alla ricerca dell’amato), il movente delle azioni è l’amore (III, 9). Appare in Boccaccio la consapevolezza di quanto questo ruolo esclusivamente erotico, considerato un dato naturale («a questo siam nate») condanni la donna alla marginalità sociale; legata al sesso e alla maternità la donna è amata finché giovane e bella, ma poi è considerata buona a nulla. «Degli uomini non avviene così: essi nascono buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto più vecchi che giovani» (V, 10). Ma questa interessante osservazione resta senza sviluppi ulteriori. Anche nel l’Introduzione al Decameron l’autore mostra una particolare attenzione alle condizioni di inferiorità e di costrizione familiare in cui vivono le donne agiate, pure loro subordinate all’autorità dei padri, dei mariti, dei fratelli, spesso rappresentati nelle novelle in ruoli oppressivi e crudeli.
La donna del Decameron non è più la donna-angelo: è la donna borghese, che unisce la naturalità del popolo alla nobiltà d’animo cortese, l’amore all’intelligenza e all’ingegno. Il modello più alto è Ghismunda, in cui Boccaccio cerca di affermare polemicamente un nuovo positivo ruolo femminile: Ghismunda trasgredisce insieme l’autorità del padre e del principe, contrapponendo al genitore, incline a seguire più la «volgare opinione che la verità», un ideale di vita basato su valori nuovi, sulla libertà dei sensi e dell’intelletto. Certo la fine tragica, o comunque la sconfitta delle eroine dell’amore (significativa è a questo proposito anche la vicenda della protagonista dell’Elegia di Madonna Fiammetta), mettono in luce il limite storico cui è destinata a scontrarsi l’iniziativa femminile. La ribellione consapevole di Ghismunda o la scelta amorosa di Ellisabetta o di Fiammetta si scontrano con una condizione storica inesorabile in cui la donna è condannata alla passività e a subire, comunque, l’iniziativa maschile. Il Decameron si chiude con l’esempio di Griselda (simbolo di una femminilità agli antipodi di quella di Ghismunda e in contrasto con quella delle altre figure femminili dell’opera) totalmente passiva e sottomessa alla «matta bestialità» della sopraffazione maschile. Ma anche qui lo stravolgimento e la disumanizzazione dei rapporti personali e familiari sono talmente esasperati da conferire all’atteggiamento di Griselda il valore di un’alternativa morale.
La posizione di Boccaccio, dopo il Decameron, cambia bruscamente: l’abbandono della tematica ero tica segna nel Corbaccio il rifiuto e la negazione della donna e una violenta ripresa di temi misogini. Questo mutamento è stato spiegato come un cambiamento di poetica. Tuttavia è anche un segno della precarietà di tale apertura al mondo femminile. Anche nel Decameron, infatti, la figura della donna per un verso dipende dalla proiezione dell’eros maschile, per un altro è mero veicolo di una ideologia letteraria. La concezione aperta e spregiudicata della vita che si afferma nel Decameron permette al Boccaccio la rappresentazione di una fenomenologia amorosa estremamente varia e viva, in cui la donna gioca un ruolo importante; ma, caduto l’interesse per l’eros e per la poetica che ad esso si ispirava, la donna, il corpo, il sesso diventano di nuovo una forza negativa da esorcizzare e condannare.

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Invito a Teatro

Assieme a John Osborne e Harold Pinter, Arnold Wesker fu uno degli Angry Young Men, i “Giovani arrabbiati” che animarono la scena teatrale britannica negli anni Cinquanta del secolo scorso.

Nato a Londra nel 1932, da una famiglia ebrea emigrata dall’Europa orientale, politicamente e culturalmente impegnato nella difesa dei valori civili e umanitari, Wesker è autore di 44 opere teatrali, tradotte in 18 lingue e rappresentate in tutto il mondo. The need to care: “essere interessati a ciò che ci circonda, preoccuparsi per le persone e per il mondo”, comprendere ciò che accade nel nostro tempo e accanto a noi: da questa necessità muove tutta l’opera di Wesker.
Tra le commedie di maggiore rilievo, oltre a The Kitchen (La cucina, scritta nel 1957 e rappresentata per la prima volta a Londra nel 1959), si ricorda The Wesker trilogy (Trilogia dei Wesker, 1958-60), storia di una famiglia ebraica di immigrati.  Membro della Royal Society of Literature, Wesker vive ora nel Galles.
The kitchen nasce da un’esperienza autobiografica dell’autore, che lavorò come cuoco a Parigi nel 1956. Questa la prima novità del “teatro proletario” dell’angry man Wesker: il teatro si fa in cucina, tra fornelli, piatti, rumori infernali e bidoni della spazzatura. The Kitchen rappresenta la frenetica giornata di lavoro di trenta cuochi, cameriere, sguatteri e aiutanti di cucina, chiusi in una multietnica, alienante, babelica e infernale cucina che, come una trappola per topi, fa emergere frustrazioni, odii, rivalità, sogni e desideri di fuga. Qui il cibo non è gusto o piacere, ma junk food, cibo-quantità che sfama centinaia di anonimi e invisibili clienti di un ristorante di infima qualità, in un ritmico andirivieni di piatti e pietanze – polli, bistecche, merluzzi, rombi, cotolette e insalate… La tormentata relazione tra il cuoco tedesco Peter e la cameriera inglese Monique è l’esile filo conduttore della vicenda drammatica, che in realtà è corale e rabbiosa rappresentazione di conflitti: conflitti di classe, di lingue, di culture, di aspirazioni. Nella cucina-mondo di Wesker il crescendo di litigi, corteggiamenti, rimproveri, piccoli imbrogli e tensioni esplode nel finale, nel gesto rabbioso e distruttivo di Peter.
What more to give a man? He works, he eats, I give him money. This is life, isn’t it?… tell me, what, what is there more? Che dare di più a un uomo? Lavora, mangia, lo pago. La vita è questa, no? Che altro c’è? Che altro ci può essere?” La domanda finale della Marango, la proprietaria del “Tivoli”, chiede a noi di dare – se possibile – una risposta: che altro è la vita, che altro c’è nella vita, oltre al lavoro, al cibo, ai soldi?

S. F.

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Per esercitarsi

Test di ammissione alle Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano: comprensione verbale.

Clicca QUI per il download (venti brani di varia natura seguiti da cinque quesiti a risposta multipla.  Ai testi sono allegate le soluzioni e i nomi degli autori, di cui il candidato deve prendere visione soltanto dopo aver concluso la prova. La finalità di questo tipo di esercizi è quella di accertare le capacità di comprensione di un testo, estraendo da esso le opinioni o le informazioni proposte dall’autore, indipendentemente dalle conoscenze che lo studente possiede sull’argomento trattato. Il test di comprensione verbale presenta delle difficoltà dovute sia all’intrinseca complessità dei brani sia al dispendio di tempo che richiede la loro lettura e analisi (il tempo concesso per la lettura del brano e la risoluzione dei cinque quesiti è 15 minuti).

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Dandysmo

Il dandismo, in Panebianco-Pisoni, Testi e scenari, Zanichelli, vol. 5, p. 328

L’origine del termine dandy risale alle truppe inglesi in America durante la rivoluzione del 1770. Indicava, negativamente, un individuo abbigliato in modo eccentrico ed elegante. Diffusosi poi sulla scia di lord G. B. Brummell come puro fatto estetico, assunse in seguito un significato ideologico con C. Baudelaire, O. Wilde e G. D’Annunzio.

Charles Baudelaire

G. Courbet, Ritratto di Charles Baudelaire , olio su tela, datato 1847.

Il dandismo per Baudelaire non consisteva solo in una posa esteriore, nel modo di abbigliarsi o nel circondarsi di oggetti raffinati, ma aveva piuttosto una natura filosofica oltre che una forza contestatrice nel disegnare il progetto di vita dell’esteta.
«Il dandismo non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell’eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi, desiderosi sopra tutto di distinzione, la perfezione della toeletta consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior modo di distinguersi. Che cos’è dunque questa passione che, divenuta dottrina, ha avuto degli adepti dominatori, questa istituzione non scritta che ha formato una casta così orgogliosa? È prima di tutto il bisogno ardente di crearsi un’originalità, contenuto nei limiti esteriori delle convenienze. È una specie di culto di se stesso, che può sopravvivere alla ricerca della felicità che si trova negli altri, nella donna, per esempio, che può sopravvivere anche a tutto ciò che si chiama illusione. È il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati. Un dandy può essere uno scettico, può essere un uomo sofferente, ma, in quest’ultimo caso, egli sorriderà come il lacedemone morsicato dalla volpe. Si vede adunque che, in certi aspetti, il dandismo confina con lo spiritualismo e con lo stoicismo. Ma un dandy non potrà mai essere un uomo volgare. S’egli commettesse un delitto non perderebbe nulla della sua reputazione; ma se questo delitto fosse provocato da un motivo banale, il disonore sarebbe irreparabile.»

Joris-Karl Huysmans

Il conte di Montesquiou è stato il modello per il personaggio di Des Esseintes, protagonista di “Controcorrente” di Huysmans.

La figura del dandy e i comportamenti tipici dell’esteta si condensano, alcuni decenni più tardi, in Des Esseintes, protagonista del romanzo Controcorrente (1884), del francese Joris-Karl Huysmans (1848-1907). Animato dal desiderio di vivere “controcorrente” rispetto alla società borghese, questi si ritira in aristocratica solitudine in una villa, dove si circonda di oggetti rari e preziosi, in cui si mescolano il sacro e il profano. Huysmans delinea il suo eroe come un malato, affetto da una nevrosi che lo condurrà a un triste epilogo, a dovere cioè ritornare tra quei «tangheri indegni» borghesi che aveva disprezzato.

Oscar Wilde
Se Huysmans visse un’esistenza tranquilla e appartata, non fu lo stesso per l’irlandese Oscar Wilde (1854-1900), un eccentrico dandy che, alla stregua di Byron, concepiva la vita come un’opera d’arte: «ambedue fanno sconfinare l’arte nella vita pratica e concepiscono l’opera d’arte come un atto pratico. Così il corteo letterario inglese del XIX secolo può immaginarsi aperto da un dandy, il Byron, e chiuso da un altro dandy, il Wilde» (Praz,1967). Il dandismo di Wilde fu però diverso sia da quello di Baudelaire, sia da quello di Huysmans: del primo non aveva il sostrato ideologico, del secondo non condivideva l’isolamento. Al contrario, dietro l’anticonformismo del dandy Wilde celava una forte desiderio di successo e di affermazione della propria produzione letteraria.

Gabriele D’Annunzio

Al dandismo di Wilde è molto vicino quello di Gabriele D’Annunzio: in quest’ultimo prese la forma di un’ideologia antidemocratica, contraria all’ascesa politica delle masse, il «grigio diluvio democratico», come venne definita nel romanzo Il piacere. In D’Annunzio il dandy si mescola al poeta-vate e demagogo, che disprezza le masse ma nel contempo se ne serve, per autocompiacersi. Molto abile nel promuovere la propria produzione letteraria, alla ricerca continua del successo sia per un tornaconto economico sia per il piacere della gratificazione, D’Annunzio diede in pasto al pubblico anche la propria vita “inimitabile”: scelse pittori e incisori per decorare le sue opere, si autopromosse con gesti plateali, riempì le gazzette mondane delle vicende che lo videro protagonista. 

James Joyce, OSCAR WILDEArticolo di James Joyce apparso sul “Piccolo della Sera” di Trieste (24 marzo 1909) e scritto in italiano dall’autore stesso.

Oscar Wilde

Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti ch’egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontespizio della sua prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva nobilitarsi scolpiva forse in modo simbolico, il segno delle sue pretese vane e la sorte che già l’attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscar, nipote del re Fingal e figlio unigenito di Ossian nella amorfa odissea celtica, ucciso dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O’Flahertie, truce tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medievali, ed il cui nome, incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce all’antica litania dei santi fra le pesti, l’ira di Dio e lo spirito di fornicazione “dai feroci O’Flahertie, libera nos Domine”. Simile a quell’Oscar egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la morte civile mentre sedeva a mensa coronato di finti pampini e discorrendo di Platone: simile a quella tribù selvatica doveva spezzare le lance della sua facondia paradossale contro la schiera delle convenzioni utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei giusti recitare il suo nome assieme a quello dello spirito immondo.
Il Wilde nacque cinquantacinque anni fa. Suo padre era un valente scienziato, ed è stato chiamato il padre dell’otologia moderna: sua madre partecipò al movimento rivoluzionario letterario del ’48, collaborando all’organo nazionale sotto lo pseudonimo di Speranza con le sue poesie e con articoli incitanti il popolo alla presa del castello di Dublino. Ci sono delle circostanze riguardanti la gravidanza di Lady Wilde e l’infanzia del figlio che, al parer di alcuni, spiegano in parte la triste mania (se cosi è lecito chiamarla) che lo trasse più tardi alla rovina, ed è certo almeno che il fanciullo crebbe in un ambiente di sregolatezze e di prodigalità.
La vita pubblica di Oscar Wilde si aperse all’Università di Oxford ove, all’epoca della sua immatricolazione, un solenne professore di nome Ruskin, conduceva uno stuolo di efèbi anglosassoni verso la terra promessa della società avvenire, dietro una carriola.
Il temperamento suscettibile di sua madre riviveva nel giovane; ed egli risolse di mettere in pratica, cominciando da se stesso, una teoria di bellezza in parte derivata dai libri di Pater e di Ruskin ed in parte originale. Sfidando le beffe del pubblico proclamò e praticò la riforma estetica del vestito e della casa.
Tenne dei cicli di conferenze negli Stati Uniti e nelle province inglesi e diventò il portavoce della scuola estetica, mentre intorno a lui andava formandosi la leggenda fantastica dell’apostolo del bello. Il suo nome evocava alla mente del pubblico un’idea vaga di sfumature delicate, di vita illeggiadrita di fiori: il culto del girasole, il suo fiore prediletto, si propagò fra gli oziosi ed il popolo minuto udì narrare del suo famoso bastone d’avorio candido luccicante di turchesi e della acconciatura neroniana dei suoi capelli.
Il fondo di questo quadro smagliante era più misero di ciò che i borghesi immaginavano. Medaglie, trofei della gioventù accademica, salivano di quando in quando il sacro monte che ha il nome di pietà; e la giovane moglie dell’epigrammatico dovette qualche volta farsi prestare da una vicina il danaro per un paio di scarpe. Il Wilde si vide costretto ad accettare il posto di direttore di un giornale molto insulso; e solo colla rappresentazione delle sue commedie brillanti egli entrò nella breve fase penultima della sua vita: il lusso e la ricchezza. Il “Ventaglio di Lady Windermere” prese Londra d’assalto. Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw, diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi. Diventò un arbitro d’eleganze nella metropoli e la sua rendita annua, provento dei suoi scritti, raggiunse quasi il mezzo milione di franchi. Sparse il suo oro fra una sequela di amici indegni. Ogni mattina acquistò due fiori costosi, uno per sé, l’altro per il suo cocchiere; e persino il giorno del suo processo clamoroso si fece condurre al tribunale nella sua carrozza a due cavalli col cocchiere vestito di gala e collo staffiere incipriato.
La sua caduta fu salutata da un urlo di gioia puritana. Alla notizia della sua condanna la folla popolare, radunata dinanzi al tribunale, si mise a ballare una pavana sulla strada melmosa. I redattori dei giornali furono ammessi all’ispettorato ed, attraverso la finestrina della sua cella, poterono pascersi dello spettacolo della sua vergogna. Strisce bianche coprirono il suo nome sugli albi teatrali; i suoi amici lo abbandonarono; i suoi manoscritti furono rubati mentre egli, in prigione, scontava la pena inflittagli di due anni di lavori forzati. Sua madre morì sotto un nome d’infamia: sua moglie morì. Fu dichiarato in istato di fallimento, i suoi effetti furono venduti all’asta, i suoi figli gli furono tolti. Quando uscì di carcere i teppisti sobillati dal nobile marchese Queensberry l’aspettavano in agguato. Fu cacciato, come una lepre dai cani, da albergo in albergo. Un oste dopo l’altro lo respinse dalla porta, rifiutandogli cibo ed alloggio, e al cader della notte giunse finalmente sotto le finestre di suo fratello piangendo e balbettando come un fanciullo.
L’epilogo volse rapidamente alla sua fine e non vale la pena di seguire l’infelice dalla suburra napoletana al povero albergo nel quartiere latino, ove morì di meningite nell’ultimo mese dell’ultimo anno del secolo decimonono. Non vale la pena di pedinarlo come fecero le spie parigine: morì da cattolico romano, aggiungendo allo sfacelo della sua vita civile la propria smentita della sua fiera dottrina. Dopo aver schernito gli idoli del foro, piegò il ginocchio, essendo compassionevole e triste chi fu un giorno cantore della divinità della gioia: e chiuse il capitolo della ribellione del suo spirito con un atto di dedizione spirituale.
Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l’atavismo e la forma epilettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio.

La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra; ed è ben noto che l’autorità inglese fece il possibile per indurlo a fuggire prima di spiccare contro di lui un mandato di cattura. A Londra sola, dichiarò un impiegato del ministero dell’interno, durante il processo, più di ventimila persone sono sotto la sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero fintantoché non provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici furono lette dinanzi alla Corte ed il loro autore venne denunziato come un degenerato, ossessionato da pervertimenti erotici. “Il tempo guerreggia contro di te; è geloso dei tuoi gigli e delle tue rose.” “Amo vederti errare per le vallate violacee, fulgido colla tua chioma color miele.” Ma la verità è che Wilde, lungi dall’essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d’Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale ed universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza. L’incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura.
Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore.
Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L’autodifesa di Oscar Wilde nello “Scots Observer” deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Dorian Gray nessun lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l’ha commesso.
Qui tocchiamo il centro motore dell’arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l’arguzia, l’impulso generoso, l’intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l’evo d’oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell’umile, è questa verità inerente nell’anima del cattolicesimo: che l’uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato.
Nell’ultimo suo libro “De Profundis”, si inchina davanti ad un Cristo gnostico, risorto dalle pagine apocrife della “Casa dei melograni” ed allora la sua vera anima, tremula, timida e rattristata, traluce attraverso il manto di Eliogabalo. La sua leggenda fantastica, l’opera sua, una variazione polifonica sui rapporti fra l’arte e la natura anziché una rivelazione della sua psiche, i libri dorati, scintillanti di quelle frasi epigrammatiche che lo resero, agli occhi di alcuno, il più arguto parlatore del secolo scorso, sono ormai un bottino diviso.
Un versetto del libro di Giobbe è inciso sulla sua pietra sepolcrale nel povero cimitero di Bagneux. Loda la sua facondia, “eloquium suum”, il gran manto leggendario che è ormai un bottino diviso. Il futuro potrà forse scolpire là un altro verso, meno altiero, più pietoso: “Partiti sunt sibi vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortes.”

James Joyce

 I TESTI: 

J. – K. Huysmans, Controcorrente [1884]. Traduzione italiana di C. Sbarbaro

Tutto sta saper fare, saper concentrare l’attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l’allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata.
L’artificio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio. Per dirla con le sue parole, la natura ha fatto il suo tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e cieli la pazienza e l’aspettativa dei raffinati.
A ben pensarci, che trivialità d’operaia specializzata, la sua! d’operaia che non vede al di là di ciò che sa fare! che grettezza di piccola bottegaia, che tiene un solo articolo ad esclusione di tutti gli altri! Il suo, che monotono emporio di alberi e prati! che banale spaccio di mari e montagne!
Non c’è d’altronde una sola delle sue trovate – e prendi pure la più sottile o la più imponente che il genio dell’uomo non possa emulare; nessuna foresta di Fontaineblealu, nessun chiaro di luna che scenari inondati da fasci di luce elettrica non creino; nessuna cascata che l’idraulica non sappia imitare da farla scambiare per vera; nessuna roccia che la cartapesta non rifaccia; nessun fiore che un po’ di cartavelina a colori e la delicatezza di certi taffettà non imitino alla perfezione. [….]
Quel giorno Des Esseintes tolse dallo scaffale l’impareggiabile volume [le opere di Baudelaire]. Se lo palpeggiava religiosamente; si rileggeva poesie che, in quella semplice ma inestimabile cornice, gli parevano più inebrianti del solito.
Per questo scrittore Des Esseintes nutriva una ammirazione sconfinata. Dell’anima, sino a Baudelaire, i letterati s’erano a suo avviso limitati ad esplorare la superficie; e se si erano avventurati nel suo sottosuolo ciò era avvenuto per le parti di facile accesso e in luce. […] Baudelaire era andato più in là. Si era calato sino in fondo all’inesauribile miniera, cacciato per cunicoli abbandonati o ignorati, s’era spinto in quei recessi dell’anima in cui si ramificano le mostruose vegetazioni del pensiero.
Colà, ai confini oltre i quali soggiornano le aberrazioni e le malattie, il tetano mistico, la quartana della lussuria, le tifoidee e i vomiti del crimine, aveva trovato, a covare sotto la tetra campana del tedio, la spaventosa menopausa dei sentimenti e delle idee.
Egli ci aveva rivelato la psicologia morbosa dello spirito che ha toccato l’ottobre delle sensazioni; narrato i sintomi dell’anima che il dolore s’accaparra, che lo spleen privilegia; additato la progressiva tabe che mina la sensibilità allorché gli entusiasmi si raffreddano, le fedi della gioventù inaridiscono; allorché all’intelletto, schiacciato da un destino assurdo, più non resta che l’arido ricordo dei mali sopportati, dei rifiuti subiti, degli oltraggi sofferti.
In ogni sua fase aveva seguito il lamentevole autunno di cui è vittima la creatura umana, facile ad inasprirsi, abile a frodare se stessa; l’uomo che costringe i suoi pensieri a corbellarsi a vicenda per meglio patire; che si guasta in anticipo ogni possibile gioia a forza di esaminarla da ogni parte e di anatomizzarla.
Poi in quell’anima dalla sensibilità così esasperata portata dalla riflessione a respingere con ferocia una abnegazione tanto più imbarazzante quanto più calorosa, a guardarsi dagli amorevoli oltraggi di un affetto dettato da carità, egli vedeva poco a poco sorgere spaventose quelle passioni in ritardo, quei maturi amori in cui uno si abbandona ancora mentre già l’altro si tiene in guardia; in cui la stanchezza dell’uno chiede all’altro carezze filiali che seducono per la loro apparente novità, candido affetto materno che riposi per la sua dolcezza e lasci in pari tempo gustare i piccanti rimorsi di un vago incesto.
In magnifiche pagine aveva esposto questi ibridi amori, esasperati dall’impossibilità in cui sono di appagarsi; le pericolose menzogne degli stupefacenti e dei tossici cui l’infermo ricorre per addormentare la sofferenza e domare la noia.

G. D’Annunzio, Il Piacere, 1889
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte. […]
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.»
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi.»
Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.»
Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.»
Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».

O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray [1891]. Trad. italiana di Ugo Dettore
Per lui la vita stessa era la prima, la più grande delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che un’introduzione. La moda, che rende universali per un momento le cose più fantastiche, e l’eleganza che, nel suo genere, è un tentativo di affermare l’assoluta modernità della bellezza, avevano naturalmente per lui un loro fascino. Il suo modo di vestire, gli originali atteggiamenti che ogni tanto ostentava avevano una notevole influenza sulla gioventù raffinata che appariva ai balli di Mayfair o si affacciava alle finestre del club di Pall Mall. Quei giovani lo imitavano in tutto quel che faceva e cercavano di ripetere il fascino distratto delle sue eleganti, e per lui non troppo impegnative, affettazioni.
Perché, pur prontissimo ad accettare la posizione che gli era stata immediatamente offerta al suo entrare nella maggiore età, e benché sentisse un vero, sottile piacere all’idea di poter essere, nella Londra del suo tempo, quel che era stato nella Roma di Nerone l’autore del Satyricon, tuttavia egli desiderava in cuor suo di essere qualche cosa più di un semplice arbiter elegantiarum a cui chieder consiglio sul modo di portare un gioiello, o di annodarsi la cravatta o di tenere in mano il bastone. Egli cercava di elaborare un nuovo sistema di vita con una sua propria filosofia ragionata e principi organici, e che trovasse nella spiritualizzazione dei sensi la sua più alta attuazione. […]
Sì, un nuovo edonismo, come aveva preannunciato Lord Enrico sarebbe sorto per ricreare la vita e salvarla da quell’arido e rozzo puritanismo che ha avuto ai nostri giorni un singolare risveglio. Certo avrebbe dovuto sostenersi all’intelletto, ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi che implicassero la rinuncia a una qualunque appassionata esperienza. Il suo scopo, infatti, doveva essere l’esperienza stessa e non i suoi frutti, dolci o amari che fossero. Sarebbe rimasto egualmente estraneo all’ascetismo, che mortifica i sensi ed alla depravazione volgare che li ottunde; ma avrebbe insegnato all’uomo a concentrarsi tutto negli attimi di una vita che è essa stessa un attimo.

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