Il dandismo, in Panebianco-Pisoni, Testi e scenari, Zanichelli, vol. 5, p. 328
L’origine del termine dandy risale alle truppe inglesi in America durante la rivoluzione del 1770. Indicava, negativamente, un individuo abbigliato in modo eccentrico ed elegante. Diffusosi poi sulla scia di lord G. B. Brummell come puro fatto estetico, assunse in seguito un significato ideologico con C. Baudelaire, O. Wilde e G. D’Annunzio.
Charles Baudelaire
G. Courbet, Ritratto di Charles Baudelaire , olio su tela, datato 1847.
Il dandismo per Baudelaire non consisteva solo in una posa esteriore, nel modo di abbigliarsi o nel circondarsi di oggetti raffinati, ma aveva piuttosto una natura filosofica oltre che una forza contestatrice nel disegnare il progetto di vita dell’esteta.
«Il dandismo non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell’eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi, desiderosi sopra tutto di distinzione, la perfezione della toeletta consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior modo di distinguersi. Che cos’è dunque questa passione che, divenuta dottrina, ha avuto degli adepti dominatori, questa istituzione non scritta che ha formato una casta così orgogliosa? È prima di tutto il bisogno ardente di crearsi un’originalità, contenuto nei limiti esteriori delle convenienze. È una specie di culto di se stesso, che può sopravvivere alla ricerca della felicità che si trova negli altri, nella donna, per esempio, che può sopravvivere anche a tutto ciò che si chiama illusione. È il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati. Un dandy può essere uno scettico, può essere un uomo sofferente, ma, in quest’ultimo caso, egli sorriderà come il lacedemone morsicato dalla volpe. Si vede adunque che, in certi aspetti, il dandismo confina con lo spiritualismo e con lo stoicismo. Ma un dandy non potrà mai essere un uomo volgare. S’egli commettesse un delitto non perderebbe nulla della sua reputazione; ma se questo delitto fosse provocato da un motivo banale, il disonore sarebbe irreparabile.»
Joris-Karl Huysmans
Il conte di Montesquiou è stato il modello per il personaggio di Des Esseintes, protagonista di “Controcorrente” di Huysmans.
La figura del dandy e i comportamenti tipici dell’esteta si condensano, alcuni decenni più tardi, in Des Esseintes, protagonista del romanzo Controcorrente (1884), del francese Joris-Karl Huysmans (1848-1907). Animato dal desiderio di vivere “controcorrente” rispetto alla società borghese, questi si ritira in aristocratica solitudine in una villa, dove si circonda di oggetti rari e preziosi, in cui si mescolano il sacro e il profano. Huysmans delinea il suo eroe come un malato, affetto da una nevrosi che lo condurrà a un triste epilogo, a dovere cioè ritornare tra quei «tangheri indegni» borghesi che aveva disprezzato.
Oscar Wilde
Se Huysmans visse un’esistenza tranquilla e appartata, non fu lo stesso per l’irlandese Oscar Wilde (1854-1900), un eccentrico dandy che, alla stregua di Byron, concepiva la vita come un’opera d’arte: «ambedue fanno sconfinare l’arte nella vita pratica e concepiscono l’opera d’arte come un atto pratico. Così il corteo letterario inglese del XIX secolo può immaginarsi aperto da un dandy, il Byron, e chiuso da un altro dandy, il Wilde» (Praz,1967). Il dandismo di Wilde fu però diverso sia da quello di Baudelaire, sia da quello di Huysmans: del primo non aveva il sostrato ideologico, del secondo non condivideva l’isolamento. Al contrario, dietro l’anticonformismo del dandy Wilde celava una forte desiderio di successo e di affermazione della propria produzione letteraria.
Gabriele D’Annunzio
Al dandismo di Wilde è molto vicino quello di Gabriele D’Annunzio: in quest’ultimo prese la forma di un’ideologia antidemocratica, contraria all’ascesa politica delle masse, il «grigio diluvio democratico», come venne definita nel romanzo Il piacere. In D’Annunzio il dandy si mescola al poeta-vate e demagogo, che disprezza le masse ma nel contempo se ne serve, per autocompiacersi. Molto abile nel promuovere la propria produzione letteraria, alla ricerca continua del successo sia per un tornaconto economico sia per il piacere della gratificazione, D’Annunzio diede in pasto al pubblico anche la propria vita “inimitabile”: scelse pittori e incisori per decorare le sue opere, si autopromosse con gesti plateali, riempì le gazzette mondane delle vicende che lo videro protagonista.
James Joyce, OSCAR WILDE. Articolo di James Joyce apparso sul “Piccolo della Sera” di Trieste (24 marzo 1909) e scritto in italiano dall’autore stesso.
Oscar Wilde
Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti ch’egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontespizio della sua prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva nobilitarsi scolpiva forse in modo simbolico, il segno delle sue pretese vane e la sorte che già l’attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscar, nipote del re Fingal e figlio unigenito di Ossian nella amorfa odissea celtica, ucciso dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O’Flahertie, truce tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medievali, ed il cui nome, incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce all’antica litania dei santi fra le pesti, l’ira di Dio e lo spirito di fornicazione “dai feroci O’Flahertie, libera nos Domine”. Simile a quell’Oscar egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la morte civile mentre sedeva a mensa coronato di finti pampini e discorrendo di Platone: simile a quella tribù selvatica doveva spezzare le lance della sua facondia paradossale contro la schiera delle convenzioni utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei giusti recitare il suo nome assieme a quello dello spirito immondo.
Il Wilde nacque cinquantacinque anni fa. Suo padre era un valente scienziato, ed è stato chiamato il padre dell’otologia moderna: sua madre partecipò al movimento rivoluzionario letterario del ’48, collaborando all’organo nazionale sotto lo pseudonimo di Speranza con le sue poesie e con articoli incitanti il popolo alla presa del castello di Dublino. Ci sono delle circostanze riguardanti la gravidanza di Lady Wilde e l’infanzia del figlio che, al parer di alcuni, spiegano in parte la triste mania (se cosi è lecito chiamarla) che lo trasse più tardi alla rovina, ed è certo almeno che il fanciullo crebbe in un ambiente di sregolatezze e di prodigalità.
La vita pubblica di Oscar Wilde si aperse all’Università di Oxford ove, all’epoca della sua immatricolazione, un solenne professore di nome Ruskin, conduceva uno stuolo di efèbi anglosassoni verso la terra promessa della società avvenire, dietro una carriola.
Il temperamento suscettibile di sua madre riviveva nel giovane; ed egli risolse di mettere in pratica, cominciando da se stesso, una teoria di bellezza in parte derivata dai libri di Pater e di Ruskin ed in parte originale. Sfidando le beffe del pubblico proclamò e praticò la riforma estetica del vestito e della casa.
Tenne dei cicli di conferenze negli Stati Uniti e nelle province inglesi e diventò il portavoce della scuola estetica, mentre intorno a lui andava formandosi la leggenda fantastica dell’apostolo del bello. Il suo nome evocava alla mente del pubblico un’idea vaga di sfumature delicate, di vita illeggiadrita di fiori: il culto del girasole, il suo fiore prediletto, si propagò fra gli oziosi ed il popolo minuto udì narrare del suo famoso bastone d’avorio candido luccicante di turchesi e della acconciatura neroniana dei suoi capelli.
Il fondo di questo quadro smagliante era più misero di ciò che i borghesi immaginavano. Medaglie, trofei della gioventù accademica, salivano di quando in quando il sacro monte che ha il nome di pietà; e la giovane moglie dell’epigrammatico dovette qualche volta farsi prestare da una vicina il danaro per un paio di scarpe. Il Wilde si vide costretto ad accettare il posto di direttore di un giornale molto insulso; e solo colla rappresentazione delle sue commedie brillanti egli entrò nella breve fase penultima della sua vita: il lusso e la ricchezza. Il “Ventaglio di Lady Windermere” prese Londra d’assalto. Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw, diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi. Diventò un arbitro d’eleganze nella metropoli e la sua rendita annua, provento dei suoi scritti, raggiunse quasi il mezzo milione di franchi. Sparse il suo oro fra una sequela di amici indegni. Ogni mattina acquistò due fiori costosi, uno per sé, l’altro per il suo cocchiere; e persino il giorno del suo processo clamoroso si fece condurre al tribunale nella sua carrozza a due cavalli col cocchiere vestito di gala e collo staffiere incipriato.
La sua caduta fu salutata da un urlo di gioia puritana. Alla notizia della sua condanna la folla popolare, radunata dinanzi al tribunale, si mise a ballare una pavana sulla strada melmosa. I redattori dei giornali furono ammessi all’ispettorato ed, attraverso la finestrina della sua cella, poterono pascersi dello spettacolo della sua vergogna. Strisce bianche coprirono il suo nome sugli albi teatrali; i suoi amici lo abbandonarono; i suoi manoscritti furono rubati mentre egli, in prigione, scontava la pena inflittagli di due anni di lavori forzati. Sua madre morì sotto un nome d’infamia: sua moglie morì. Fu dichiarato in istato di fallimento, i suoi effetti furono venduti all’asta, i suoi figli gli furono tolti. Quando uscì di carcere i teppisti sobillati dal nobile marchese Queensberry l’aspettavano in agguato. Fu cacciato, come una lepre dai cani, da albergo in albergo. Un oste dopo l’altro lo respinse dalla porta, rifiutandogli cibo ed alloggio, e al cader della notte giunse finalmente sotto le finestre di suo fratello piangendo e balbettando come un fanciullo.
L’epilogo volse rapidamente alla sua fine e non vale la pena di seguire l’infelice dalla suburra napoletana al povero albergo nel quartiere latino, ove morì di meningite nell’ultimo mese dell’ultimo anno del secolo decimonono. Non vale la pena di pedinarlo come fecero le spie parigine: morì da cattolico romano, aggiungendo allo sfacelo della sua vita civile la propria smentita della sua fiera dottrina. Dopo aver schernito gli idoli del foro, piegò il ginocchio, essendo compassionevole e triste chi fu un giorno cantore della divinità della gioia: e chiuse il capitolo della ribellione del suo spirito con un atto di dedizione spirituale.
Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l’atavismo e la forma epilettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio.
La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra; ed è ben noto che l’autorità inglese fece il possibile per indurlo a fuggire prima di spiccare contro di lui un mandato di cattura. A Londra sola, dichiarò un impiegato del ministero dell’interno, durante il processo, più di ventimila persone sono sotto la sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero fintantoché non provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici furono lette dinanzi alla Corte ed il loro autore venne denunziato come un degenerato, ossessionato da pervertimenti erotici. “Il tempo guerreggia contro di te; è geloso dei tuoi gigli e delle tue rose.” “Amo vederti errare per le vallate violacee, fulgido colla tua chioma color miele.” Ma la verità è che Wilde, lungi dall’essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d’Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale ed universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza. L’incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura.
Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore.
Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L’autodifesa di Oscar Wilde nello “Scots Observer” deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Dorian Gray nessun lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l’ha commesso.
Qui tocchiamo il centro motore dell’arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l’arguzia, l’impulso generoso, l’intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l’evo d’oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell’umile, è questa verità inerente nell’anima del cattolicesimo: che l’uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato.
Nell’ultimo suo libro “De Profundis”, si inchina davanti ad un Cristo gnostico, risorto dalle pagine apocrife della “Casa dei melograni” ed allora la sua vera anima, tremula, timida e rattristata, traluce attraverso il manto di Eliogabalo. La sua leggenda fantastica, l’opera sua, una variazione polifonica sui rapporti fra l’arte e la natura anziché una rivelazione della sua psiche, i libri dorati, scintillanti di quelle frasi epigrammatiche che lo resero, agli occhi di alcuno, il più arguto parlatore del secolo scorso, sono ormai un bottino diviso.
Un versetto del libro di Giobbe è inciso sulla sua pietra sepolcrale nel povero cimitero di Bagneux. Loda la sua facondia, “eloquium suum”, il gran manto leggendario che è ormai un bottino diviso. Il futuro potrà forse scolpire là un altro verso, meno altiero, più pietoso: “Partiti sunt sibi vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortes.”
James Joyce
I TESTI:
J. – K. Huysmans, Controcorrente [1884]. Traduzione italiana di C. Sbarbaro
Tutto sta saper fare, saper concentrare l’attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l’allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata.
L’artificio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio. Per dirla con le sue parole, la natura ha fatto il suo tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e cieli la pazienza e l’aspettativa dei raffinati.
A ben pensarci, che trivialità d’operaia specializzata, la sua! d’operaia che non vede al di là di ciò che sa fare! che grettezza di piccola bottegaia, che tiene un solo articolo ad esclusione di tutti gli altri! Il suo, che monotono emporio di alberi e prati! che banale spaccio di mari e montagne!
Non c’è d’altronde una sola delle sue trovate – e prendi pure la più sottile o la più imponente che il genio dell’uomo non possa emulare; nessuna foresta di Fontaineblealu, nessun chiaro di luna che scenari inondati da fasci di luce elettrica non creino; nessuna cascata che l’idraulica non sappia imitare da farla scambiare per vera; nessuna roccia che la cartapesta non rifaccia; nessun fiore che un po’ di cartavelina a colori e la delicatezza di certi taffettà non imitino alla perfezione. [….]
Quel giorno Des Esseintes tolse dallo scaffale l’impareggiabile volume [le opere di Baudelaire]. Se lo palpeggiava religiosamente; si rileggeva poesie che, in quella semplice ma inestimabile cornice, gli parevano più inebrianti del solito.
Per questo scrittore Des Esseintes nutriva una ammirazione sconfinata. Dell’anima, sino a Baudelaire, i letterati s’erano a suo avviso limitati ad esplorare la superficie; e se si erano avventurati nel suo sottosuolo ciò era avvenuto per le parti di facile accesso e in luce. […] Baudelaire era andato più in là. Si era calato sino in fondo all’inesauribile miniera, cacciato per cunicoli abbandonati o ignorati, s’era spinto in quei recessi dell’anima in cui si ramificano le mostruose vegetazioni del pensiero.
Colà, ai confini oltre i quali soggiornano le aberrazioni e le malattie, il tetano mistico, la quartana della lussuria, le tifoidee e i vomiti del crimine, aveva trovato, a covare sotto la tetra campana del tedio, la spaventosa menopausa dei sentimenti e delle idee.
Egli ci aveva rivelato la psicologia morbosa dello spirito che ha toccato l’ottobre delle sensazioni; narrato i sintomi dell’anima che il dolore s’accaparra, che lo spleen privilegia; additato la progressiva tabe che mina la sensibilità allorché gli entusiasmi si raffreddano, le fedi della gioventù inaridiscono; allorché all’intelletto, schiacciato da un destino assurdo, più non resta che l’arido ricordo dei mali sopportati, dei rifiuti subiti, degli oltraggi sofferti.
In ogni sua fase aveva seguito il lamentevole autunno di cui è vittima la creatura umana, facile ad inasprirsi, abile a frodare se stessa; l’uomo che costringe i suoi pensieri a corbellarsi a vicenda per meglio patire; che si guasta in anticipo ogni possibile gioia a forza di esaminarla da ogni parte e di anatomizzarla.
Poi in quell’anima dalla sensibilità così esasperata portata dalla riflessione a respingere con ferocia una abnegazione tanto più imbarazzante quanto più calorosa, a guardarsi dagli amorevoli oltraggi di un affetto dettato da carità, egli vedeva poco a poco sorgere spaventose quelle passioni in ritardo, quei maturi amori in cui uno si abbandona ancora mentre già l’altro si tiene in guardia; in cui la stanchezza dell’uno chiede all’altro carezze filiali che seducono per la loro apparente novità, candido affetto materno che riposi per la sua dolcezza e lasci in pari tempo gustare i piccanti rimorsi di un vago incesto.
In magnifiche pagine aveva esposto questi ibridi amori, esasperati dall’impossibilità in cui sono di appagarsi; le pericolose menzogne degli stupefacenti e dei tossici cui l’infermo ricorre per addormentare la sofferenza e domare la noia.
G. D’Annunzio, Il Piacere, 1889
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte. […]
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.»
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi.»
Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.»
Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.»
Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».
O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray [1891]. Trad. italiana di Ugo Dettore
Per lui la vita stessa era la prima, la più grande delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che un’introduzione. La moda, che rende universali per un momento le cose più fantastiche, e l’eleganza che, nel suo genere, è un tentativo di affermare l’assoluta modernità della bellezza, avevano naturalmente per lui un loro fascino. Il suo modo di vestire, gli originali atteggiamenti che ogni tanto ostentava avevano una notevole influenza sulla gioventù raffinata che appariva ai balli di Mayfair o si affacciava alle finestre del club di Pall Mall. Quei giovani lo imitavano in tutto quel che faceva e cercavano di ripetere il fascino distratto delle sue eleganti, e per lui non troppo impegnative, affettazioni.
Perché, pur prontissimo ad accettare la posizione che gli era stata immediatamente offerta al suo entrare nella maggiore età, e benché sentisse un vero, sottile piacere all’idea di poter essere, nella Londra del suo tempo, quel che era stato nella Roma di Nerone l’autore del Satyricon, tuttavia egli desiderava in cuor suo di essere qualche cosa più di un semplice arbiter elegantiarum a cui chieder consiglio sul modo di portare un gioiello, o di annodarsi la cravatta o di tenere in mano il bastone. Egli cercava di elaborare un nuovo sistema di vita con una sua propria filosofia ragionata e principi organici, e che trovasse nella spiritualizzazione dei sensi la sua più alta attuazione. […]
Sì, un nuovo edonismo, come aveva preannunciato Lord Enrico sarebbe sorto per ricreare la vita e salvarla da quell’arido e rozzo puritanismo che ha avuto ai nostri giorni un singolare risveglio. Certo avrebbe dovuto sostenersi all’intelletto, ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi che implicassero la rinuncia a una qualunque appassionata esperienza. Il suo scopo, infatti, doveva essere l’esperienza stessa e non i suoi frutti, dolci o amari che fossero. Sarebbe rimasto egualmente estraneo all’ascetismo, che mortifica i sensi ed alla depravazione volgare che li ottunde; ma avrebbe insegnato all’uomo a concentrarsi tutto negli attimi di una vita che è essa stessa un attimo.