“All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa sino a un certo punto: è la protagonista d’un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato…”
Italo Calvino legge il Furioso. CLICCA QUI
Ariosto e i protagonisti della storia del Rinascimento.
Ariosto e Ferrara: itinerari.
Per sintetizzare: dall’epica classica al romanzo cavalleresco. PREZI di Carlo Mariani.
Dall’Orlando innamorato al Furioso: M.M. BOIARDO,Orlando innamorato, Libro III, canto IX, 1494):
26 Mentre che io canto, o Iddio redentore,
Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non so che loco;
Però vi lascio in questo vano amore
De Fiordespina ardente a poco a poco;
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Racontarovi il tutto per espresso.
“Le trame principali [del Furioso], ricordiamo, sono due: la prima racconta come Orlando divenne, da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per l’assenza del loro campione, rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi. Parallela a questa si snoda la seconda trama, quella dei predestinati ma sempre procrastinati amori di Ruggiero, campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale, finché il guerriero non riesce a cambiare di campo, a ricevere il battesimo e a impalmare la robusta innamorata. La trama Ruggiero-Bradamante non è meno importante di quella Orlando-Angelica, perché da quella coppia Ariosto (come già Boiardo) vuol far discendere la genealogia degli Estensi, cioè non solo giustificare il poema agli occhi dei suoi committenti, ma soprattutto legare il tempo mitico della cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e d’Italia. Le due trame principali e le loro numerose ramificazioni procedono dunque intrecciate, ma s’annodano alla loro volta intorno al tronco più propriamente epico del poema, cioè gli sviluppi della guerra tra l’imperatore Carlo Magno e il re d’Africa Agramante. Questa epopea si concentra soprattutto in un blocco di canti che trattano l’assedio di Parigi da parte dei Mori, la controffensiva cristiana, le discordia in campo d’Agramante. L’assedio di Parigi è un po’ come il centro di gravità del poema, così come la città di Parigi si presenta come suo ombelico geografico”.
I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» (1974), in ID., Perché leggere i classici, Milano 1991
Il vero “tema” del Furioso è la conoscenza. Tutti, qui, dall’inizio alla fine, inseguono qualcosa o qualcuno, e ne sono inseguiti, perché non lo godono, non lo vedono, non lo sanno, e invece vogliono saperlo, vederlo, goderlo.
C. BOLOGNA, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, Vol. II, a cura di AlbertoAsor Rosa, Einaudi,Torino 1993
J.L. BORGES, Ariosto e gli arabi (Ariosto y los árabes), in L’artefice, Milano, Rizzoli, 1963, I Meridiani, Mondadori
Nessuno può scrivere un libro. Un libro
perché esista davvero, è necessaria
l’aurora col tramonto, secoli, armi
e il vasto mare che unisce e divide.
Così pensava Ariosto, che al piacere
lento si dette, nell’ozio di vie
di neri pini e di lucenti marmi,
di tornare a sognare il già sognato.
L’aria della sua Italia era abitata
dai sogni che, in figura della guerra
che in duri secoli afflisse la terra,
insieme ordirono memoria e oblio.
Una legione persa nella valli
d’Aquitania perì in un’imboscata;
così nacque il bel sogno di una spada
e del corno sonante in Roncisvalle.
I suoi idoli e i suoi eserciti il duro
sàssone sui giardini d’Inghilterra
lanciò in pericolosa e fiera guerra
e di questo rimase un sogno: Arturo.
Dal settentrione dove un cieco sole
abbaglia il mare, giunse il sogno d’una
dormiente vergine che il suo signore
attende, dentro un circolo di fuoco.
Chissà se dalla Persia o dal Parnaso
venne quel sogno del destriero alato
che per l’aria l’incantatore armato
spinge, e sprofonda nel deserto occaso.
Quasi in groppa a quel magico cavallo,
Ariosto vide i regni della terra
solcata dalla festa della guerra
e del giovane amore avventuroso.
Come attraverso tenue bruma d’oro
vide in basso un giardino che i confini
dilata in altri segreti giardini
per l’amore di Angelica e Medoro.
Al pari degl’illusori splendori
che all’indù lascia intravedere l’oppio,
passano per il Furioso gli amori
in un delirio di caleidoscopio.
Né l’amore ignorò né l’ironia,
perciò sognò, con arguzia discreta,
il singolare castello ove tutto
è (come in questa vita) falsità.
Come a ogni poeta, la fortuna
o il destino gli diè una sorte rara;
andava per le strade di Ferrara
e al tempo stesso andava per la luna.
Quel che resta dei sogni, l’indistinto
limo che il Nilo dei sogni abbandona,
con questo fu tessuta la matassa
di quel suo risplendente labirinto.
Di quel grande diamante dove un uomo
può ben perdersi avventuratamente
in circoli di musica indolente,
dimenticando il suo corpo e il suo nome.
Europa intera si perdette. In grazia
di quell’ingenua e maliziosa arte,
poté piangere Milton Brandimarte
morente e di Darinda l’afflizione.
Europa si perdette, ma altri doni
diè il vasto sogno alla famosa gente
che abita i deserti dell’Oriente
e la notte gremita di leoni.
Di un re che dona, allo spuntar del giorno,
la sua regina d’una notte all’avida
scimitarra, ci narra il dilettoso
libro che ancora affascina le ore.
Ali di notte improvvisa, crudeli
artigli da cui pende un elefante,
monti magnetici che con l’amante
loro abbraccio frantumano i velieri,
la terra retta da un toro ed il toro
da un pesce; arcani abracadabra, magici
talismani, parole misteriose
che nel sasso spalancano antri d’oro;
questo sognò la saracena gente
che segue la bandiera d’Agramante;
questo, che vaghi volti con turbante
sognarono, poi invase l’Occidente.
L’Orlando è adesso una ridente terra
che apre le sue disabitate miglia
di oziose e innocenti meraviglie
che sono un sogno che nessuno sogna.
Dalle islamiche arti tramutato
in sola erudizione, in mera storia,
sta solo, nel suo sogno. (Ché la gloria
è una delle forme dell’oblio.)
Poi vetro fatto pallido l’incerta
luce d’un altra sera tocca il libro
e nuovamente arde e si consuma
l’oro che ne abbellisce la coperta.
Nella deserta sala il silenzioso
volume viaggia nel tempo. Le aurore
restano indietro e le notturne ore
e la mia vita, delirio affannoso.
Ariosto è colui che ha insegnato a gestire il tempo narrativo nella modernità, costruendo un racconto capace di rappresentare la simultaneità di varie storie sulla scena del mondo. Rendere conto della contemporaneità degli eventi e della varietà delle situazioni sarà possibile, nel romanzo moderno, solo grazie alla lezione dell’antico maestro ferrarese.
S. Jossa, Ariosto oggi, “Le parole e le cose”, 19 marzo 2013
I libri non si consigliano, sono come le fidanzate, si incontrano, scatta la scintilla, ci si innamora. Se consigliassi a qualcuno che non conosco di leggere Ariosto non farei cosa saggia, perché è difficile, illeggibile, non ci si capisce niente, mi tornerebbe indietro con punto interrogativo nello sguardo. Non ha senso leggere oggi Orlando furioso, a meno che non capiti qualcosa che ti fa innamorare, come è capitato a me, molti anni dopo averlo sentito appena nominare a scuola.
Negli anni del liceo io scappavo come un cavallo e Ariosto lo sfiorai appena, era un nome in una canzone di Venditti, lo guardai passare come Angelica in fuga nella prima scena. Pochi professori si lanciano all’inseguimento , perché è troppa la roba da fare nel programma per fermarsi a lungo nel poema che non si ferma mai, che comincia già iniziato (come un film di 007) e finisce senza finire (come un film di 007, ma di quelli di oggi, con un sacco di azione e di effetti speciali). Così che io l’ho scoperto a quasi 40 anni, grazie a un mio amico che non finirò mai di ringraziare per avermela presentata, la lingua di Ariosto, la sua fantasia.
Leggi questa, mi disse, ed era la pagina in cui Astolfo va sulla luna “altri fiumi altri laghi altre campagne…”. Lascio ai letterati le analisi e le informazioni, e li ringrazio da lettore, io sono qui attaccato alla transenna con la fascia in testa a fare il fan di Ludovico Ariosto e del suo innumerevole spettacolo di energia e azione, dove le parole schizzano come sangue finto in un film di Tarantino. Il ritmo, la velocità, la precisione delle scene, il montaggio, le zoomate repentine, la scenografia, la fantasia della lingua, la precisione dell’ottava rima, l’invenzione continua, la sensualità, le battaglie, il divertimento, la mancanza di giudizio. Il puro entertainment, l’elettricità, la luce.
Il Poema si svolge in un adesso assoluto, in un mezzogiorno continuo di un mondo sconfinato eppure percorribile a salti come fosse un campetto di pallone in periferia, dove non cala mai la sera e il metallo delle armature lampeggia e fa socchiudere gli occhi, come in un film dei transformer, ma con la maestria poetica di un signore che ha dedicato una vita a scolpire le parole e poi a lubrificarle. Un incrocio tra Michelangelo e un ingegnere aeronautico. L’ottava rima è la madre del free style improvvisato, eppure Ariosto ci ha messo trent’anni a cesellare le rime, perché questa poema è tutto e il suo contrario, è jazz e partitura, coreografia e delirio, attrazione e cura.
Orlando furioso sta alla letteratura come la scoperta dell’America (che è contemporanea al poema) sta alla geografia (fisica e politica, risorse del sottosuolo, muschi e licheni, guerre di conquista). Colombo pensava di aver trovato una scorciatoia per le Indie, ma era appena sbarcato in un mondo nuovo, che da allora è sempre rimasto nuovo. Gli eredi di Ariosto non sono solo gli scrittori ma i registi, gli inventori, i ballerini di liscio, i programmatori di software, i disegnatori di fumetti, i viaggiatori, i cuochi, gli amanti, i pazzi, i calciatori, i maghi, le contorsioniste, le rockstar e gli astronauti.
Perché adoro Orlando furioso? Non so rispondere, è amore, è furia, attrazione irragionevole e gratitudine. Se leggo una pagina a caso poi alzo gli occhi dal libro ed è tutto diverso, come se avessi preso una pozione magica, e succede ogni volta, non lo so perché, ditemelo voi, io continuo a leggere.
http://www.youtube.com/watch?v=jcwqIYb9cKM
Chiara Fenoglio, Il cavaliere resistente. Gli errori (deliberati) e il meraviglioso: così Ariosto creò una realtà parallela, “Corriere della Sera”, 8 ottobre 2016
Italo Calvino (il più ariostesco, insieme a Borges, tra gli autori novecenteschi) era solito dire che l’Orlando Furioso contiene tutto il mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol essere mondo: nel rispecchiamento e nella rifrazione, come nel labirinto per Borges, Calvino fonda il rapporto tra «mondo scritto» e «mondo non scritto». La metafora del libro della natura ha peraltro una lunga tradizione, dall’idea medievale che il cosmo sia il libro attraverso cui Dio ci parla, a quella rinascimentale portata a compimento da Montaigne che vi vede lo specchio da scrutare per conoscere se stessi. Un mondo che nel capolavoro ariostesco, di cui si celebrano i 500 anni dalla prima edizione, si configura nell’immagine della corte estense.
E proprio alla corte di Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, è in corso la mostra Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? che celebra l’immaginario e la visionarietà del poeta ponendo in dialogo la sua opera con dipinti, sculture, libri, armi e oggetti rari capaci di restituire l’universo culturale e artistico in cui Ariosto si muoveva, come avviene con il corno d’avorio dell’XI secolo, in cui è tradizionalmente riconosciuto l’olifante suonato da Orlando a Roncisvalle.
Si tratta di una mostra policentrica, proprio come il Furioso, poema del movimento, della dilatazione e della dispersione, e insieme poema della visione e dell’illusione, della trasfigurazione onirica della realtà: se per Caldèron de la Barca la vita è sogno, per Ariosto il sogno consente di descrivere la realtà proprio in forza della sua inconsistenza. Il poema è «finzion d’incanto» che fa apparire «rosso il giallo», ma in assenza del quale tuttavia nessuna esperienza del mondo sarebbe possibile. Nel Furioso ogni forma, ogni corpo, ogni parola emerge «con l’evidenza della cosa reale» ma, come ha osservato Vittorio Sereni, sfugge a chi tenti di ghermirla «rivelando la propria aerea sostanza».
Il favoloso è lì, solido ed evidente nei nostri sogni, ma scompare come un fantasma appena riapriamo gli occhi. Dunque in questo breve battito di ciglia, l’immaginario si proietta sulla realtà e fornisce una misura al mondo: ogni immagine, come ogni ottava, è lo spazio che Ariosto attraversa per organizzare il caos, contenere la pura estensione della materia nei confini ordinati del poema, emblema di un mondo e di una società ideali.
L’incanto naturalmente è fallace, nasconde i «felici errori» che Leopardi addebita ad Ariosto, le belle favole, gli «strani pensieri» in cui il poeta si rifugia, e che costituiscono dal punto di vista del moderno una regressione nel mito e nel meraviglioso: ma sono anche, secondo questo Leopardi, un errore liberamente assunto da Ariosto, per proteggerci dai guasti e dai mostri della storia. Così nella Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù di Mantegna, ammirata da Ariosto nello studiolo d’Isabella d’Este, ritroviamo le stravaganze che Ruggiero incontra nel regno di Armida nel canto VI: da Astolfo mutato in mirto, alla «strana torma» di alcuni esseri che «dal collo in giù d’uomini han forma, /con viso altri di simie, altri di gatti; /stampano alcun’ con piè caprigni l’orma; /alcuni son centauri agili et atti; /son gioveni impudenti e vecchi stolti, /chi nudi e chi di strane pelli involti». Analogamente, per le descrizioni delle battaglie Ariosto attinge al vasto repertorio di combattimenti e di cavalieri medievali, di tradizione francese e non solo, che dal San Giorgio di Paolo Uccello giungono fino al Gattamelata di Giorgione. L’immagine di Angelica è compresa e plasmata a partire da due modelli femminili assai diversi: la Venere botticelliana i cui capelli si intorcono come i nodi d’amore e la Giuditta guerriera di Marco Zoppo.

Andrea Mantegna, Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù
Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi moderni (in anticipo di cent’anni su Cervantes, con cui la mostra si chiude), il Furioso connette il tempo mitico dei «cavallieri antiqui» alle vicende a lui contemporanee, alle guerre tra Francesco I e Carlo V per l’egemonia nel nord Italia, ma soprattutto connette il tempo perduto del sogno alla realtà.
E lo fa con un linguaggio naturale, una discorsività alta capace di giocare con gli «accessori inessenziali del linguaggio» già descritti da De Sanctis. Grazie a questo stile, plasmato sulle regole di Pietro Bembo, Ariosto crea il «puro e dolce idioma nostro, /levato fuor del volgar uso tetro», grazie al quale il Furioso è giunto fino a noi, fino alla riproposizione teatrale di Sanguineti-Ronconi, alle riletture di Calvino e di Celati.
Il poema dell’armonia descritto da Croce è diventato il poema della mobilità e dell’intrico, scomposto e ricomposto, come la fortuna scompone e ricompone le vicende umane, con infinita varietà del possibile: il vero protagonista di questo poema del vagabondaggio, è quel teatro del mondo che aveva trovato nella corte rinascimentale la sua incarnazione più vitale.
Giocando con Orlando, liberamente tratto da Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, con Stefano Accorsi e Marco Baliani, adattamento teatrale e regia di Marco Baliani. Scene di Mimmo Paladino.
MELANIA MAZZUCCO, Ariosto, l’uomo che inventò il fantasy, “Il Venerdì di Repubblica”, 16 settembre 2016
Ogni italiano ha sentito nominare il gran poema di Ludovico Ariosto, l’Orlando furioso, di cui quest’anno ricorre il 500° anniversario. Molti ne hanno letto svogliatamente qualche brano nell’antologia scolastica – per lo più la scena della pazzia del conte che, tradito dalla bella Angelica, si spoglia nudo e si accanisce a sfasciare alberi e piante. Pochissimi, però, lo hanno letto davvero – si intende: dall’inizio alla fine. Né sono stati invogliati a farlo.
Perfino quando la Rai divulgava a puntate e in bianco e nero i capolavori della letteratura italiana e mondiale (dai Promessi sposi ai Fratelli Karamazov fino al Mulino del Po) nessuno ne azzardò una riduzione. Trama improbabile e dispersiva? Troppi personaggi? Troppa violenza esagerata? Troppo fantastico? La versione televisiva del celebrato spettacolo di Luca Ronconi passò sul piccolo schermo solo nel 1975. Ma anche il nostro cinema non ha mai creduto nell’intrattenimento colto e insieme popolare: gli spettatori italiani che avevano affollato le sale per Excalibur non colsero il richiamo del film fantastico-cavalleresco di Giacomo Battiato, I Paladini, imperniato sulla vicenda di Ruggero e Bradamante (1983). Da allora, salvo un’opera-movie statunitense da Vivaldi con Marilyn Horne nel ruolo di Orlando, più nulla. I cavalieri di re Carlo e i loro omologhi saraceni spariscono, inghiottiti nelle elitarie contrade dell’accademia.
È un’eclissi che grida vendetta. Per secoli l’Orlando furioso è stato uno dei pochi libri italiani che tutti avevano letto – non per dovere o studio ma per diletto, cioè per il motivo principale per cui in fondo si dovrebbe dedicare una parte del proprio tempo alla lettura. Le edizioni, le traduzioni in tutte le lingue, e le ristampe (anche pirata) non si contano. Come i seguiti, i rifacimenti, le continuazioni delle avventure di un singolo personaggio, marginale nell’opera magna ma eletto a protagonista nell’opera derivata (oggi nella narrativa globale si preferiscono i termini inglesi sequel, remake, spin off) – che qualsiasi poetastro si sentiva autorizzato a comporre. Perfino l’onomastica italiana ne fu mutata, e città e campagne, corti e bordelli conobbero un profluvio di Doralice, Olimpia, Isabella, Ginevra. Né si contano i quadri ispirati ai personaggi del poema (per lo più femmine nude in pericolo), che i pittori di tutta Europa dipinsero dalla sua pubblicazione e fino alla fine dell’Ottocento.
Il mondo dell’Orlando furioso – un patrimonio inesauribile di personaggi, avventure, sogni, follie – ha accomunato per secoli ricchi e poveri, dotti e illetterati, aristocratici e calzolai. Nelle contrade più remote pastori e pecorai sapevano recitarlo a memoria, e improvvisare varianti della storia per il diletto dei viandanti. Ancora negli anni Settanta tutti sapevano chi fossero Atlante, Medoro, Fiordiligi. In meno di tre decenni, ogni ricordo si è perduto. I duelli di Rinaldo, Mandricardo, Bradamante, Marfisa e infiniti altri, i viaggi, le magie, gli incantesimi, le ricerche insensate, le folli fughe, non hanno lasciato impronte nel nostro immaginario collettivo di italiani – in cui galleggiano, nel migliore dei casi, frantumi sparsi di versi. Ridotti a citazioni ironiche («ecco il giudicio uman come spesso erra!»), o parole entrate nell’uso comune («gradasso», «rodomonte») di cui si è dimenticata la fonte. Le invenzioni di Ariosto hanno fecondato il genere fantastico (oggi si preferisce dire fantasy), e perfino lo splatter e il pulp – ma pochi tra quanti esaltano i sanguinolenti duelli delle serie tv oggi in gran voga ricordano l’archetipo da cui sgorga il piacere inverosimile dell’avventura.
Sicché meritati e dovuti appaiono i molti eventi, le presentazioni, i reading e le mostre che sono stati organizzati in tutta Italia per celebrare i 500 anni dell’Orlando. Il culmine sarà giustamente a Ferrara, città nella quale tutto ebbe inizio: con la mostra che inaugurerà a Palazzo Diamanti il 24 settembre. L’intuizione dei curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura è feconda, perché capovolge la prospettiva. La mostra, scandita in sezioni tematiche, non inseguirà la fortuna del poema nella storia della cultura italiana ed europea, ma risalirà a ritroso fino alla sua origine. A specchio del libro, sarà un viaggio imprevedibile nel mondo reale e immaginario dello scrittore. A raccontare la genesi della sua opera saranno oggetti, manoscritti, disegni, quadri. Vedremo Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi. I personaggi della corte estense, i suoi amici e protettori, le battaglie combattute dai condottieri suoi contemporanei, gli strumenti musicali, i tarocchi… La sfida è affascinante e va vissuta come un gioco.
Ognuno provi a chiedersi cosa vede quando chiude gli occhi e pensa: Orlando furioso, e compili il suo elenco. Il mio? La Durindana, i cavalli Brigliadoro e Rabicano, l’anello fatato e la lancia magica di Bradamante, le armature lucenti, gli elmi, le ampolle col senno perduto degli uomini, le navi sbattute dalle tempeste… Li troverò alla mostra?
In massima parte sì. Mi incanterà l’olifante d’avorio, prezioso reperto dell’XI secolo, che il paladino Orlando suonò (troppo tardi) a Roncisvalle, prima di essere disfatto dai Mori (in verità dai Baschi, ma il conflitto cristiano-musulmano è più intrigante per l’epica popolare e su esso si fonda la narrativa romanza). Mi incanteranno la spada di Boabdil, ultimo re moro di Spagna (nonché capostipite del narratore del torrenziale romanzo di Salman Rushdie, L’ultimo sospiro del moro), le armature da giostra, le selle, i cimieri. E la straordinaria sfera dell’obelisco di Sisto V: oggetto enigmatico e suggestivo che si riteneva contenesse le ceneri di Giulio Cesare (forse a questa pensava Ariosto quando inventò le ampolle del senno perduto, ma non sapeva ancora che la sfera era vuota: l’apertura avvenne dopo la sua morte). Il raffinato disegno a penna di Marco Zoppo, Busto di donna guerriera, custodito nella collezione del British Museum, che pare proprio il ritratto di Bradamante, o di Marfisa. Ma siccome fu schizzato decenni prima della composizione del poema, fa domandare chi ne sia stata l’altera modella – se una donna davvero esistita, oppure un fantasma sognato dall’artista.
E poi i manoscritti e i libri magnifici di fine Quattrocento, identici a quelli che ci ostiniamo a leggere ancora in epoca digitale (poiché il libro di carta è un oggetto imperfettibile, e perfino prima dell’invenzione dei caratteri a stampa aveva già trovato la sua forma finale). Quei libri preziosi come reliquie contengono, in varie lingue, le storie dei cavalieri di Re Artù, Lancillotto, Galvano, la maga Melusina – che Ariosto lesse con diletto e cui con disinvoltura attinse, perché in letteratura niente viene dal niente, e lui pescò le sue storie nel mare magno di quelle scritte da altri (dalle chansons de geste dei paladini di Carlo Magno al ciclo bretone della Tavola Rotonda, dai miti classici, per lo più nella variante sorridente, incredula e fantastica di Ovidio, fino alle favole e al folclore popolare), combinandole tra loro in un modo, un tono, e una lingua che erano solo suoi.
E perciò – tra i molti capolavori pittorici esposti (da Mantegna a Tiziano) – mi soffermerò ad ammirare la Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo. Dipinta a Firenze intorno al 1510, illustra il mito greco con inverosimiglianza grottesca e bizzarra tenerezza. Nel suo eroe volante, Perseo, nel mostro che minaccia la fanciulla e nella lattea nudità di costei risplende la stessa irreale, lunare poesia che bagna le contrade ariostesche e i suoi improbabili eroi. Affinità di spiriti congeniali, forse. Ma mi piace pensare che Piero di Cosimo fece in tempo, qualche anno dopo, a leggere l’Orlando furioso e a scoprire che qualcuno avrebbe potuto recuperare sulla Luna il suo senno perduto: maestro negletto, furioso e misantropo come Orlando (e infatti giudicato pazzo dai suoi contemporanei) si spense nel 1522.
Ma soprattutto mi incanterà la Carta del navecare, datata 1502: di anonimo portoghese, è uno dei tesori della Biblioteca Estense (dunque la videro i mecenati di Ariosto e Ariosto stesso). Chinatevi a leggere i nomi dei luoghi, degli oceani, dei fiumi. Anche l’universo ariostesco pullula di nomi di luoghi lontani, esotici e però reali, capaci di far sognare i lettori. Il Catai, la Soria, la selva d’Ardenna, il Barbante… Essi svolgono la stessa funzione dei toponimi indiani e malesi disseminati nei romanzi di Salgari. Nell’insieme, formano una geografia fantastica come la mappa del tesoro, inventano un mondo privo di confini – in cui tutto è lontano e insieme vicino, tutto si assomiglia e tutto è diverso, tutto è vero e insieme inesistente. I capitani e i marinai che prendevano il mare nel XVI secolo cercavano su quella carta la rotta capace di condurre la loro nave nel porto del desiderio. Mi piace pensare che la Carta diafana sarà per tutti noi visitatori un invito a cercare nel labirinto delle pagine di Ariosto la rotta capace di appagare il nostro desiderio di evasione, divertimento, sogno – e che sarà soltanto nostra.