
Joseph Mallord William Turner, “The Golden Bough”, 1834
Marino Niola, La magia del Ramo d’oro da Freud a Jim Morrison, “La Repubblica”, 17 novembre 2017
Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca. Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.
Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto — che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato — serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership.
La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù.
Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L‘amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasformandola in una landa arida e senza vita.
Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer. Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del secolo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata. L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.
J. FRAZER, Il ramo d’oro, cap.1, Diana e Virbio
Chi non conosce il Ramo d’oro del Turner? La scena del quadro, tutta soffusa da quella aurea luminescenza d’immaginazione con cui la divina mente del Turner impregnava e trasfigurava i più begli aspetti della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di Nemi, circondato dai boschi, che gli antichi chiamavano «lo specchio di Diana». Chi ha veduto quell’acqua raccolta nel verde seno dei colli Albani, non potrà dimenticarla mai più. I due caratteristici villaggi italiani che dormono sulle sue rive e il palazzo ugualmente italiano i cui giardini a terrazzo digradano rapidamente giù verso il lago, rompono appena l’immobilità e la solitudine della scena. Diana stessa potrebbe ancora indugiarsi sulle deserte sponde o errare per quei boschi selvaggi.
Nei tempi antichi questo paesaggio silvano era la scena di una strana e ricorrente tragedia. Sulla sponda settentrionale del lago, proprio sotto gli scoscesi dirupi su cui si annida il moderno villaggio di Nemi, si ergeva il sacro bosco e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del bosco. Il lago e il bosco erano spesso conosciuti come il lago e il bosco di Aricia. Ma la città di Aricia (l’attuale Ariccia) era situata più di tre miglia lontano, ai piedi del monte Albano, separata per mezzo di un’aspra pendice dal lago che giace in un piccolo cratere sul costone della montagna. In questo bosco sacro cresceva un albero intorno a cui, in ogni momento del giorno, e probabilmente anche a notte inoltrata, si poteva vedere aggirarsi una truce figura. Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno come se temesse a ogni istante di essere assalito da qualche nemico. Quest’uomo era un sacerdote e un omicida; e quegli da cui si guardava doveva prima o poi trucidarlo e ottenere il sacerdozio in sua vece. Era questa la regola del santuario. Un candidato al sacerdozio poteva prenderne l’ufficio uccidendo il sacerdote, e avendolo ucciso, restava in carica finché non fosse stato ucciso a sua volta da uno più forte o più astuto di lui.
Virgilio, Eneide, VI, vv.125 – 159 (traduzione di Vittorio Sermonti, Milano, Rizzoli, 2008)
[…]“Nato dal sangue di dèi,
troiano figlio di Anchise, è facile la discesa all’Averno:
notte e giorno è aperta la porta del tetro Dite;
ma tornare sui propri passi e riaffiorar sotto il cielo,
questa è l’impresa, questa la fatica. Pochi figli di dèi,
130 prediletti dall’equo Giove o assunti al cielo dal fuoco
del loro valore, l’hanno ottenuto. Nel mezzo non c’è
che bosco, e il Cocito lo circuisce di cupi meandri.
Ma se desideri, se brami tanto di guadare due volte
la palude stigia, vedere due volte il nero Tartaro,
135 e vuoi prestarti a una fatica insensata, ascolta
cosa va fatto prima. Si nasconde nel folto d’un albero
un ramo dalle foglie e dal tenero stelo d’oro,
sacro a Giunone inferna: tutto il bosco lo scherma,
e lo riparano le ombre delle buie convalli. Ma
140 non è dato discendere nei segreti della terra, prima
d’aver colto dall’albero la frasca chiomata d’oro.
L’omaggio di questo tributo pretende la bella Proserpina:
spiccato il primo, ne spunta un altro, d’oro, e la verga
si veste di foglie dello stesso metallo. Perciò tu esplora
145 nel folto e, una volta trovato, staccalo con la tua mano
come vuole il rito. Da sé verrà via docilmente
se il fato ti chiama: altrimenti, forza in grado di vincerlo
non si da, non si da durissimo ferro che possa troncarlo.
Di più, il corpo d’un tuo amico giace disanimato (ah,
150 che lo ignori…) e luttuosamente contamina tutta la flotta,
mentre tu chiedi responsi impalato sulla mia soglia.
Rendilo alle sedi dovute, compònilo nel sepolcro!
Porta vittime nere: saranno la prima espiazione.
Così finalmente vedrai i boschi di Stige ed i regni
155 impervii ai vivi”. Disse, e ammutolì serrando le labbra.
Enea, tristissimo in viso, gli occhi sgranati, abbandona
l’antro, e cammina dipanando nel chiuso del cuore
l’oscurità degli eventi. Gli si accompagna il fedele
Acate, passo passo, afflitto dagli stessi pensieri.
[…]
Si va nella vecchia foresta, cupo covile di belve;
180 crollano i pini, i lecci suonano sotto le accette,
coi cunei si spaccano tronchi di frassino e roveri
fibrosi, orni giganti rotolano dalla montagna.
Primo in quelle faticose mansioni, dotato dei medesimi
attrezzi, Enea non manca di incitare i compagni;
185 e intanto, guardando l’immenso bosco, rimugina questo
nel cuore suo triste, e gli vien fatto di pregare così:
“Ah, scoprissi adesso su un albero di così immensa
foresta il ramo d’oro!… ché la veggente di te,
Miseno, ha detto tutto il vero (fin troppo ne ha detto!)”.
190 Non ha finito di pregare, che sotto i suoi occhi, così,
una coppia di colombi venuta a volo dal cielo
si posa sul verde del prato. Allora il magnanimo eroe
riconosce gli uccelli materni, ed esultante li supplica:
“Guidatemi voi, e, se c’è una via, orientate per l’aria
195 il volo nei boschi, là dove il ramo prezioso ombreggia
la fertile terra. E tu non abbandonarmi nell’indecisione,
dea madre!”. Ciò detto trattiene il passo, scrutando
che segni diano i colombi, in che direzione si orientino.
Quelli, beccando qua e là, svolazzano via, ma non
200 tanto che a chi li segue succeda di perderli d’occhio.
Poi, nonappena raggiunte le bocche del fetido Averno,
impennano il volo, e planando per la trasparenza dell’aria,
si posano nel luogo sperato sull’albero ambiguo, di dove
s’irradiava isolata fra i rami l’aura dell’oro.
205 Come col freddo d’inverno nei boschi prolifera il vischio
di frasche strane, dacché non germoglia da seme proprio,
e i tronchi torniti avvolge di bacche d’un pallido giallo,
così si distingue sul fosco del leccio quel frascheggiare
d’oro, così la lamella crepita al vento leggero.
210 D’impeto Enea la afferra, smanioso, e, per quanto rilutti,
strappa la frasca e la porta nell’abituro della Sibilla.
Dal cap.2, Re sacerdoti
Le domande a cui ci proponiamo di rispondere sono principalmente due. Perché a Nemi il sacerdote di Diana, il re del bosco, doveva uccidere il suo predecessore? E perché, prima di far ciò, doveva strappare il ramo di un certo albero che l’opinione degli antichi identificava come il ramo d’oro di Virgilio? […]
Robert Cozens, Nemisee mit der Stadt Genzano (Lago di Nemi, 1777 c.a), London
Il critico Lionel Trilling ha scritto una volta che Il ramo d’oro dovrebbe essere il punto di partenza di ogni studio della letteratura moderna, per l’ «effetto decisivo» che ha avuto su di essa. Almeno in relazione alla letteratura di lingua inglese, questa affermazione non è esagerata – ed è stata presa alla lettera, come vedremo, da alcuni orientamenti critici. Pochi libri hanno nutrito
l’immaginario artistico del Novecento come quello di Frazer. Fin dalle sue prime edizioni, Il ramo d’oro è circolato con straordinaria intensità nel mondo letterario, che lo ha usato come un inesauribile repertorio di idee, immagini e suggestioni. In particolare, ne sono stati influenzati in modo diffuso e profondo gli scrittori e gli artisti che hanno lavorato a ridosso della prima guerra mondiale – quelli che si è soliti accomunare sotto l’etichetta di «modernisti». Per questa generazione di intellettuali – da Eliot a Joyce, da Pound a Lawrence e molti altri – Frazer è stato oggetto di un interesse pari soltanto, forse, a quello suscitato dai lavori di Freud. Sia il metodo sia le tematiche frazeriane sono al centro dei loro interessi artistici e dei loro tentativi di costruire una rappresentazione dell’uomo e della civiltà contemporanea. Un ruolo centrale che è sancito dal celebre passo delle note apposte da T.S.Eliot al poemetto The Waste Land («La terra desolata», 1922), vero e proprio manifesto del modernismo, in cui Il ramo d’oro è definito «un’opera che ha influenzato profondamente la nostra generazione».
Da M. BEARD, THE GOLDEN BOUGH, in CONFRONTING THE CLASSICS. Traditions, Adventures and Innovations, PROFILE BOOKS LTD, London 2013
‘He has changed the world – not as Mussolini has changed it, with coloured shirts and castor oil; not as Lenin has changed it, boldly emptying out the baby of the humanities with the filthy bath of Tsarism; nor as Hitler, with the fanfaronade of physical force. He has changed it by altering the chemical composition of the cultural air that all men breathe.’
The cultural revolutionary celebrated here (unlikely as it must now seem) is Sir James Frazer, extravagantly written up over half a page in the News Chronicle of 27 January 1937. The article – under the title ‘He discovered why you believe what you do’ – certainly does not stint its praises of the grand old man, then in his eighties. Later on in the piece Frazer is portrayed as a hero-explorer of time and space, ‘at home in the Polynesia of a thousand years BC or the frozen north before even the Vikings had touched its shore’. And he ends up compared (to his own advantage, once more) with one of the most romantic of British heroes: ‘this quiet sedentary student has a mind similar to the body of Sir Francis Drake, ranging distant countries and bringing back their treasures for his own kind.’