“C’era di mezzo la più lunga notte della sua vita. Ma domani avrebbe saputo. Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere. Avrebbe rinunciato a tutto per quella verità, tra quella verità e l’intelligenza del creato avrebbe optato per la prima.”
Beppe Fenoglio, da “Una questione privata” cap. XIII
Il documentario di Guido Chiesa sulla vita e l’opera di Beppe Fenoglio:
“Fenoglio morì il 18 febbraio 1963; due mesi dopo usciva da Garzanti Un giorno di Fuoco. Nel settembre dello stesso anno si aveva la seconda edizione; nell’aprile 1965 l’opera apparve con il titolo mutato: Una questione privata. […], come è indubbio oramai che Una questione privata è incompiuta [(l’abbiamo pubblicata – avverte l’introduzione – per interessamento e cura degli “amici”)], altrettanto fuori discussione è l’altezza di poesia con essa raggiunta da Fenoglio.
Una questione privata è il titolo che Fenoglio usava, parlandone con la moglie, per illustrare la storia di Milton, che è una storia a sé, senza interferenze con altre dell’epopea partigiana con cui Fenoglio continuava idealmente a convivere senza staccarsene mai del tutto
[…] il “classico” Fenoglio ci ha dato, con la storia di Fulvia e di Milton, uno degli amori più disperatamente romantici della nostra narrativa, una storia classicamente raccontata per maturità di stile, ma di una passione contenuta in cerchi sempre più stretti intorno a un’immagine di donna, che è insieme affermazione di vita e desiderio di assoluto; la storia di un’ossessione che finisce col farsi destino, ostinata e patetica e struggente, come la poesia solo può esserlo.
L’alternarsi delle vicende reali con quelle solo rievocate e sognate è l’elemento determinante della straordinaria liricità e drammaticità insieme della storia di Milton: ed è anche la chiave per capirne il senso profondo, giustificazione prima ed assoluta del suo fascino.
La tecnica del flash-back che Fenoglio aveva già altre volte usata – da maestro ne La Malora – segna qui uno dei due versanti su cui si regge la storia di Milton: Milton partigiano, uomo d’azione, è circondato da cose visibili, spesso spiacevoli, grevi, pesanti, ossessive, come il fango, la pioggia e la brutalità della guerra; Milton pensiero, anima, cuore, sogni, Milton invisibile, è affacciato su quell’altro versante, pieno di musica e di luci, dolcemente e dolorosamente riflesso in un volto di donna.
Milton ha bisogno dell’amore di Fulvia per accettare la vita, ma ne ha bisogno anche per accettare la morte. L’ambiguità di questo amore è l’ambiguità della storia di Milton, e il suo senso profondo, perché offre della realtà due facce: una del sogno romantico conservato intatto, nella memoria e nel cuore; l’altra del tradimento forse perpetrato, che sconvolge la mente e il sangue.
[…], quando Milton insegue la sua verità, insegue anche il suo disperato bisogno di sapere se dietro tutto il marcio che la vita gli dispiega intorno, si può essere ancora uomini in un pensiero d’amore condiviso con abbandonata certezza. La corsa di Milton è la sua agonia, in una dimensione che non è solo quella delle colline, ma di tutta la vita, con la sua rabbia e la sua potenza di amore, ed è ritmata nel fango e nel vento, tangibile e concreta, ma è anche la più carica di simboli non terrestri che ci sia stato dato d’incontrare nelle pagine del dopoguerra.
Anche per questo, la questione privata supera i limiti della storia di Milton, e si carica di simboli universali che le fanno superare insieme le formule ufficiali del realismo nel cui ambito Fenoglio si trovò ad assolvere la sua parte di testimone di una generazione tribolata: per questo facciamo nostro, a conclusione dell’esame di un’opera che ci pare segnare il culmine dell’impegno letterario di Fenoglio, il giudizio di Italo Calvino (prefazione alla seconda edizione de Il sentiero dei nidi di ragno, 1964):
“Una questione privata è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando Furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente nella memoria fedele, e con tutti i suoi valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché”.
Calvino, oltre a centrare le ragioni poetiche di Una questione privata, assegna al libro un compito storico ben preciso: quello di concludere una stagione narrativa, delle più cariche di ragioni civili e umane e letterarie [la stagione della narrativa della Resistenza, o più largamente neorealistica N.d.R.]: «il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va da Il sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata».
*Tratto dalla monografia che Gina Lagorio ha dedicato a Beppe Fenoglio: Gina Lagorio, Beppe Fenoglio, Marsilio, Tascabili, Biografie,Venezia 1998 [Prima edizione: «Il Castoro», n. 37, gennaio 1970]. Per gentile concessione dell’autore.
In «un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere», il partigiano Milton «non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto non poteva morire senza sapere». Quindi, furioso, implacabile cavaliere dinanzi alla morte, corre per le colline degradanti sulla città di Alba, alla ricerca di una verità assoluta di vita: la verità su Fulvia:
Le aveva sempre pensate, le colline, come il naturale teatro del suo amore – per quel sentiero con Fulvia, con lei su quella cresta, questo gliel’avrebbe detto a quella particolare svolta con tanto mistero dietro di essa… – e gli era invece toccato di farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra. Aveva potuto sopportarlo fino a ieri, ma…
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO, Prof. Gian Luigi BECCARIA, LAUDATIO di Beppe Fenoglio, 10 marzo 2005
“Scrittura e vita per Fenoglio furono tutt’uno. Prima di cominciare a scrivere intorno al tema della Resistenza, aveva già operato una scelta, la giusta scelta per la libertà, salendo sulle colline a combattere contro i fascisti. Anche se nei suoi scritti non esprimerà giudizi diretti di condanna nei riguardi del nemico, sapeva da che parte si ha da stare. Come un cavaliere antico che ha ricevuto una investitura, e sa dove è il bene, partirà verso “le somme colline”, con la coscienza dell’ “uso legittimo” che avrebbe fatto del suo potere. Ma oggi siamo qui per ricordare che, prima di partigiano, Fenoglio era stato studente nostro. Si era formato al liceo di Alba. Un suo professore di filosofia (era Pietro Chiodi) lo ricorda così: “Io avevo ventitrè anni quando giunsi ad Alba per insegnare filosofia e storia al liceo classico. Fenoglio ne aveva allora diciotto. Per il ventotto ottobre era obbligatorio svolgere un tema ministeriale di elogio sulla marcia su Roma. Nell’ora precedente alla mia il professore di italiano aveva dettato il solito insulso tema. Quando io entrai in classe notai subito uno studente nel primo banco con le braccia incrociate che guardava annoiato il foglio bianco. Era Beppe Fenoglio. Lo invitai a scrivere, ma scuoteva la testa. Preoccupato per le conseguenze, feci chiamare il professore di italiano. Era Leonardo Cocito. Parlottarono da complici. Ma non ci fu verso. La pagina rimase bianca” (P. Chiodi, Fenoglio scrittore civile, in “La cultura”, III, 1965, poi in AA. VV., Fenoglio inedito, in “I quaderni dell’Istituto Nuovi Incontri”, 4, 1968, p. 41.)
Una questione privata aveva aperto uno squarcio illuminante sulla poetica fenogliana. Nell’introduzione del 1964 alla riedizione del Sentiero dei nidi di ragno Calvino vi vedeva un punto d’approdo della letteratura resistenziale: “Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata“; in questo “c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia”.
GIANLUIGI BECCARIA, Fenoglio, un classico del nostro secolo, in B. F., 1922-1997. Atti del convegno, a c. di P. Menzio, Milano, Mondadori, 1997
[…] Libri come La malora, come Una questione privata, come Primavera di bellezza, come Il partigiano Johnny non ne sono usciti poi molti in Italia, nel Novecento. A questi libri è delegata la dimostrazione della tenuta grandiosa che ha la letteratura alta di fronte a quanto è destinato a cancellarsi e a sgretolarsi, seguendo il vento delle mode. Fenoglio è già un classico.
Fenoglio è stato anche un esempio di quella pianta uomo di cui sono sempre più rari gli esemplari. Se n’è andato in sordina, conosciuto da pochi, una trentina d’anni fa. Ma più il tempo passa più la sua grandezza si fa assoluta. Se penso agli alti clamori che spesso si levano per molte insignificanti pagine di narrativa decostruita e minimalista in voga in questi decenni, e per contrasto al silenzio col quale quest’uomo grandissimo è scivolato via, silenzioso come le comete, trovo allora che c’è un’immediata coerenza tra il suo vivere e il suo fare letteratura: pagine di narrativa che si sono tenute fuori dei circoli, delle mode, e anche fuori, direi, di una ideologia istituzionalizzata, vulgata. Si pensi alla tanta retorica sulla Resistenza, e alla presentazione fenogliana di una Resistenza per un verso senza retorica, e per altro verso pura: non pensata e raccontata in termini immediatamente politico-ideologici, se è vero che il tema di fondo delle pagine di Fenoglio è il guerriero resistente, del passato e del presente, dall’Ettore troiano («la mia ettorica preferenza per la difensiva», come ricorderete) ai partigiani contemporanei. Potremmo forse dire, paradossalmente, che non la Resistenza storica è il tema dei suoi romanzi, ma piuttosto il tema dell’esistenza umana nella sua totalità. Quando gli portano avvolto in un lenzuolo il cadavere di un compagno, Johnny «ci vide un sigillo di eternità, come fosse un greco ucciso dai Persiani due millenni avanti».
Ma parte di queste cose le ho già dette e scritte. Dire qualche cosa di nuovo oggi su Fenoglio, almeno da parte mia, non è facile. Le ultime novità sono l’edizione Isella e la scoperta di Lorenzo Mondo, il quale meglio di me potrebbe parlare della fortuna che ha avuto e dell’emozione che ha provato nello scoprire e pubblicare quei quattro taccuini autografi: quelle umilissime carte, commoventi al solo vederle, con l’intestazione «Macelleria Fenoglio Amilcare, Piazza Rossetti, Alba», e in ogni pagina le caselle con le voci “Data”, “Carne”, “Prezzo”, “Importo”. I registri di conto del padre, un formato tascabile su cui, a penna e in bella grafia (leggibilissima, rispetto a quella che sarà l’ardua e difficile successiva), Fenoglio scrive nel 1946 i suoi primi racconti di guerra, gli Appunti partigiani.
Queste carte disseppellite a più di trent’anni dalla morte (in modo fortunoso, dopo che erano state per caso recuperate fra cartacce destinate alla discarica) costituiscono dei bellissimi, freschissimi incunaboli dello scrittore, di quello che sarà poi. Per un lettore di Fenoglio scorrere queste pagine mutile è un entusiasmante viaggio nel paese del riconoscimento. Per ogni dove personaggi, spunti, accenni brevissimi, spesso schegge, che saranno utilizzati nelle opere successive, e ampliati, e riscritti. Qualcosa non ritroveremo più, ma molto ritornerà nei Ventitre giorni della città di Alba (ci sono prelievi letterali) e in alcuni Racconti, molto nel Partigiano Johnny. Qui c’è la loro stesura più immediatamente autobiografica: il protagonista è Beppe e non ancora, anglicamente, Milton o Johnny, i nomi sono quelli veri, dalla sorella Marisa al partigiano Moretto, il fucilatore. Siamo, è vero, nel cuore dell’officina giovanile di Fenoglio. Ma è un Fenoglio godibilissimo, tutt’altro che acerbo; il racconto già scorre senza soste con l’intensa tensione narrativa che conosciamo, rapido, asciutto. Sono pagine che hanno il profumo della giovinezza, la sua spontanea grazia. Non si tratta di avvii mediocri.
Tutt’altro. La cronaca è magari più dispersiva, ma nello stile già riconosci la zampata dello scrittore a venire: per esempio le prime tracce del forte neologizzare non affidato ancora, in via preliminare, all’inglese, come sarà poi nel Partigiano.
E già siamo fuori dal neorealismo: ci sono tessere dialettali e regionali, che però non sono mai macchia di colore paesano, specificazione locale o abbassamento della lingua, bensì già dialetto come forza letteraria ed evocazione.
Fenoglio qui come dopo, ancora fino al Partigiano Johnny, ha sempre avuto col reale un rapporto non realistico, non mimetico; sono sempre state più forti, in lui, le ragioni della letteratura, nel senso che una delle componenti che caratterizza la sua scrittura molteplice è davvero la preminenza del discorso mentale e delle mediazioni letterarie su quello della immediata verosimiglianza descrittiva. Lo si vede dalla determinazione sua a foggiare la lingua in obbedienza alle ragioni letterarie piuttosto che a quelle dell’efficacia mimetica e della fedeltà rappresentativa; la tendenza, insomma, a istituire sempre un altro senso e un altro piano del discorso. Fenoglio è una sorta di scrittore che ha posto il diaframma della distanza tra il narrare di un presente, di avvenimenti “reali”, e la lontananza, la separatezza, l’invenzione di una scrittura e di una rappresentazione assolutizzanti. Basterebbe pensare alla Malora, romanzo dove Fenoglio ci lascia numerose tracce ascrivibili alla cultura orale, dove ci dà una versione importante dei contenuti antropologici del mondo contadino. In questo romanzo Fenoglio propone un testo straordinario, totalmente intonato sulle cadenze della tradizione orale, in cui molti sono i modi propri della lingua parlata, dagli incisi che mimano la linea accidentata del parlato ai molti tratti informali: e nella Malora, per questa via stilistica che è una scelta di un tono narrato secondo parlato, Fenoglio ci dà un testo di straordinaria omogeneità linguistica. Eppure la mimesi, nella Malora, raggiunge effetti non di naturalismo ma di arcaicità e di assolutezza: di arcaica semplicità ed essenzialità.
Parlavo della Malora come esempio di quel carattere della scrittura fenogliana che sempre pone, come fanno del resto gli scrittori grandi, un diaframma della distanza tra il “reale” e la sua rappresentazione. Ma per continuare la dimostrazione seguendo altre vie, basterebbe pensare (ma sempre si arriva allo stesso risultato) alle sue Langhe, al paesaggio. Vasto, immobile, pietrificato paesaggio primevo, che nel Partigiano gli appare «apocalitticamente ondoso», come dice. Sono onde di colline di un mare da tempi della creazione, solidificatesi d’incanto, come ad un cenno: colline lunari, desertiche, grandi dune vertiginose e possenti su cui l’umano fruscia silenziosamente e grandiosamente veleggia, sotto il grande vento superiore, in una dimensione esaltante, eroica. Colline non pettinate dai vigneti e feconde, ma luoghi dove la natura ha violenze primigenie, notti infernali, vortici di vento che fischiano: il vento-fiumana che incessante soffia, l’eterno vento collinare, il vento nero di notti totali, demoniache e sinistre.
Ma spesso anche il silenzio è una dominante, come nella Questione privata. In questo romanzo il privato silenzio della ricerca, il silenzio di una natura vuota, è rotto soltanto da rari segni umani, soltanto da qualche lontano guaito di cani. Ci sono uccelli che pigolano nella nebbia, rigagnoli sepolti in fondo alle valli, suoni di campane che non hanno eco; perché ogni suono ed ogni vuoto, anche nella Questione privata, non hanno valore naturalistico ma simbolico, sono segni, anch’essi, di difficoltà.
Natura e simbolo, natura e vicende umane sono intrinsecamente intrecciati nelle pagine di Fenoglio. Le vicende di guerra del Partigiano Johnny, con il perpetuo alternarsi di battaglie, di eventi rovinosi, di toghe vertiginose e di paci improvvise, trovano regolarmente il loro commento nell’alternarsi, sulle colline, di violenze e di paci sul/nel paesaggio, nella natura: flagelli di piogge e temporali, e silenzi improvvisi e stregati che preparano insidie, fatali eventi rovinosi. E ci sono pagine che rimandano a bibliche immagini del diluvio universale, come nel Partigiano 2, cap. VIII: «Il sole non brillò più, seguì un’era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso (“la gente smise d’aver paura dei fascisti e prese ad aver paura del fiume”) e macerò le stesse pietre della città». Caos e Eden si alternano anche sulla terra e nei cieli, che ora si torcono nella gestazione di temporali, ora si liberano in calmi laghi d’aria.
Altro carattere inimitabile, inarrivabile, della pagina di Fenoglio: la capacità di scrivere romanzi filmici e tutti d’azione, da Una questione privata a Primavera di Bellezza al Partigiano Johnny. In particolare Una questione privata è interamente dominata dal movimento e dall’azione: in un suo recente lavoro in corso di stampa, Marinella Pregliasco ha puntualmente mostrato come tutto, in questo romanzo, sia apparizione e sparizione, narrazione filmica di avvenimenti con campo-controcampo, stacchi, tagli, piani dall’alto a zoomare in basso, su dettagli di uomini o di natura. Anche la lingua è una lingua filmata, tutta azione, in totale assenza di vibrazioni patetiche. In essa poco è concesso al piacere della descrizione, all’uso lirico; il paesaggio stesso, cui si dedicano rapidi eccezionali momenti, ha un carattere soltanto funzionale per l’azione, tanto è stilizzato, raccorciato al massimo. Così, nel Partigiano, abbiamo la natura che commenta e che partecipa al pathos degli eventi, ma non è mai oggetto di meditazione a sé, di contemplazione individuale. Essa non vive a sé stante, con connotazioni sentimentali che un personaggio vi immette, come specchio d’anima; al contrario, si anima nella conflittualità tra gli elementi primi della costituzione fisica del mondo (acqua, aria, terra), che conferiscono a quell’epos partigiano un’inconfondibile forza primigenia. Sono indimenticabili quei cosmogonici caos d’acqua e di fango; quel vento animato, che ha mani poderose, un vento personificato; e il fiume che è belva, drago-mostro, che si rizza in piedi come un Dio del mito, o è manso come un agnello; e i paesi bruciati, col fumo che sale dai ciglioni come serpente, e torreggia in pilastri alteri; e Castino che brucia, ridotto a un atro tempio di deità infere. L’elemento naturale, descrittivo, trascende con una forza straordinaria la dimensione della mera descrizione cronachistica, per trasfigurarsi nel simbolo; la pioggia stessa è sempre castigo, pena celeste, flagello. Un’interpretazione morale e metafisica pervade il reale. Basterebbe leggere certe descrizioni della notte e del buio, con incubi spettrali (ricorderete: «La notte precipitava: sul paese era un inconsutile nero, ma sulla città rompevano quel velo slabbrate occhiaie e gorghi di luce spettrale»). O basterebbe pensare ai tramonti, alle ombre incombenti della sera: a quei tramonti che celano insidia, che sono come un naufragio del sole, il precipitare della notte e la perdita del giorno, lo sfarsi del creato nella notte. Oppure basterebbe pensare alle nebbie, alle brume e ai vapori di questo peculiare regno delle nebbie, come Fenoglio chiama le colline: la nebbia che inghiotte, annega e divora uomini e cose, quell’oceano di nebbia che così spesso invade le pagine del Partigiano o di Una questione privata. È una nebbia che convoglia sensi di agguato, di insidia e sepoltura («Svegliandosi, ebbe un’immediata, socchiusa sensazione di nevicata, ma poi vide la nebbia. Ma tale una nebbia quale aveva mai visto sulle più favorevoli colline: una nebbia universale, un oceano di latte frappato, che restringeva i confini del mondo a quelli dell’aia […]. Là dove la nebbia era meno compatta, poteva a stento vedere i suoi piedi veleggiare sognosamente su un lontano mare di terra ed erbe gelate»).
[…] Ho detto prima che di tutto il Novecento, se ci sono dei classici destinati a restare, a durare, questo è certo Fenoglio. Uno dei massimi, che ci viene incontro già con un tratto grande, monumentale, perentorio come il suo modo di scrivere. Ha vissuto un momento straordinario, la Resistenza, lo ha visto, e a quello ha dato la parola. Una parola che ha sublimato la cronaca, l’ha liberata dalla casualità; e si è subito rivolta alle cose fondamentali, ai problemi estremi, ai nuclei essenziali: il destino, l’amore, il tradimento, la morte, la violenza, il bene, il male, la libertà, la pace. Fenoglio si è rivolto all’uomo di tutti i tempi, «perché» – ha scritto – «partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità».