Archvi dell'anno: 2013

Beppe Fenoglio

“C’era di mezzo la più lunga notte della sua vita. Ma domani avrebbe saputo. Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere. Avrebbe rinunciato a tutto per quella verità, tra quella verità e l’intelligenza del creato avrebbe optato per la prima.”
Beppe Fenoglio, da “Una questione privata” cap. XIII

 

Il documentario di Guido Chiesa sulla vita e l’opera di Beppe Fenoglio:

“Fenoglio morì il 18 febbraio 1963; due mesi dopo usciva da Garzanti Un giorno di Fuoco. Nel settembre dello stesso anno si aveva la seconda edizione; nell’aprile 1965 l’opera apparve con il titolo mutato: Una questione privata. […], come è indubbio oramai che Una questione privata è incompiuta [(l’abbiamo pubblicata – avverte l’introduzione – per interessamento e cura degli “amici”)], altrettanto fuori discussione è l’altezza di poesia con essa raggiunta da Fenoglio.
Una questione privata è il titolo che Fenoglio usava, parlandone con la moglie, per illustrare la storia di Milton, che è una storia a sé, senza interferenze con altre dell’epopea partigiana con cui Fenoglio continuava idealmente a convivere senza staccarsene mai del tutto
[…] il “classico” Fenoglio ci ha dato, con la storia di Fulvia e di Milton, uno degli amori più disperatamente romantici della nostra narrativa, una storia classicamente raccontata per maturità di stile, ma di una passione contenuta in cerchi sempre più stretti intorno a un’immagine di donna, che è insieme affermazione di vita e desiderio di assoluto; la storia di un’ossessione che finisce col farsi destino, ostinata e patetica e struggente, come la poesia solo può esserlo.
L’alternarsi delle vicende reali con quelle solo rievocate e sognate è l’elemento determinante della straordinaria liricità e drammaticità insieme della storia di Milton: ed è anche la chiave per capirne il senso profondo, giustificazione prima ed assoluta del suo fascino.
La tecnica del flash-back che Fenoglio aveva già altre volte usata – da maestro ne La Malora – segna qui uno dei due versanti su cui si regge la storia di Milton: Milton partigiano, uomo d’azione, è circondato da cose visibili, spesso spiacevoli, grevi, pesanti, ossessive, come il fango, la pioggia e la brutalità della guerra; Milton pensiero, anima, cuore, sogni, Milton invisibile, è affacciato su quell’altro versante, pieno di musica e di luci, dolcemente e dolorosamente riflesso in un volto di donna.
Milton ha bisogno dell’amore di Fulvia per accettare la vita, ma ne ha bisogno anche per accettare la morte. L’ambiguità di questo amore è l’ambiguità della storia di Milton, e il suo senso profondo, perché offre della realtà due facce: una del sogno romantico conservato intatto, nella memoria e nel cuore; l’altra del tradimento forse perpetrato, che sconvolge la mente e il sangue.
[…], quando Milton insegue la sua verità, insegue anche il suo disperato bisogno di sapere se dietro tutto il marcio che la vita gli dispiega intorno, si può essere ancora uomini in un pensiero d’amore condiviso con abbandonata certezza. La corsa di Milton è la sua agonia, in una dimensione che non è solo quella delle colline, ma di tutta la vita, con la sua rabbia e la sua potenza di amore, ed è ritmata nel fango e nel vento, tangibile e concreta, ma è anche la più carica di simboli non terrestri che ci sia stato dato d’incontrare nelle pagine del dopoguerra.
Anche per questo, la questione privata supera i limiti della storia di Milton, e si carica di simboli universali che le fanno superare insieme le formule ufficiali del realismo nel cui ambito Fenoglio si trovò ad assolvere la sua parte di testimone di una generazione tribolata: per questo facciamo nostro, a conclusione dell’esame di un’opera che ci pare segnare il culmine dell’impegno letterario di Fenoglio, il giudizio di Italo Calvino (prefazione alla seconda edizione de Il sentiero dei nidi di ragno, 1964):
Una questione privata è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando Furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente nella memoria fedele, e con tutti i suoi valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché”.
Calvino, oltre a centrare le ragioni poetiche di Una questione privata, assegna al libro un compito storico ben preciso: quello di concludere una stagione narrativa, delle più cariche di ragioni civili e umane e letterarie [la stagione della narrativa della Resistenza, o più largamente neorealistica N.d.R.]: «il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va da Il sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata».

*Tratto dalla monografia che Gina Lagorio ha dedicato a Beppe Fenoglio: Gina Lagorio, Beppe Fenoglio, Marsilio, Tascabili, Biografie,Venezia 1998 [Prima edizione: «Il Castoro», n. 37, gennaio 1970]. Per gentile concessione dell’autore.

In «un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere», il partigiano Milton «non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto non poteva morire senza sapere». Quindi, furioso, implacabile cavaliere dinanzi alla morte, corre per le colline degradanti sulla città di Alba, alla ricerca di una verità assoluta di vita: la verità su Fulvia:
Le aveva sempre pensate, le colline, come il naturale teatro del suo amore – per quel sentiero con Fulvia, con lei su quella cresta, questo gliel’avrebbe detto a quella particolare svolta con tanto mistero dietro di essa… – e gli era invece toccato di farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra. Aveva potuto sopportarlo fino a ieri, ma…

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO, Prof. Gian Luigi BECCARIA, LAUDATIO di Beppe Fenoglio, 10 marzo 2005

“Scrittura e vita per Fenoglio furono tutt’uno. Prima di cominciare a scrivere intorno al tema della Resistenza, aveva già operato una scelta, la giusta scelta per la libertà, salendo sulle colline a combattere contro i fascisti. Anche se nei suoi scritti non esprimerà giudizi diretti di condanna nei riguardi del nemico, sapeva da che parte si ha da stare. Come un cavaliere antico che ha ricevuto una investitura, e sa dove è il bene, partirà verso “le somme colline”, con la coscienza dell’ “uso legittimo” che avrebbe fatto del suo potere. Ma oggi siamo qui per ricordare che, prima di partigiano, Fenoglio era stato studente nostro. Si era formato al liceo di Alba. Un suo professore di filosofia (era Pietro Chiodi) lo ricorda così: “Io avevo ventitrè anni quando giunsi ad Alba per insegnare filosofia e storia al liceo classico. Fenoglio ne aveva allora diciotto. Per il ventotto ottobre era obbligatorio svolgere un tema ministeriale di elogio sulla marcia su Roma. Nell’ora precedente alla mia il professore di italiano aveva dettato il solito insulso tema. Quando io entrai in classe notai subito uno studente nel primo banco con le braccia incrociate che guardava annoiato il foglio bianco. Era Beppe Fenoglio. Lo invitai a scrivere, ma scuoteva la testa. Preoccupato per le conseguenze, feci chiamare il professore di italiano. Era Leonardo Cocito. Parlottarono da complici. Ma non ci fu verso. La pagina rimase bianca” (P. Chiodi, Fenoglio scrittore civile, in “La cultura”, III, 1965, poi in AA. VV., Fenoglio inedito, in “I quaderni dell’Istituto Nuovi Incontri”, 4, 1968, p. 41.)

Una questione privata  aveva aperto uno squarcio illuminante sulla poetica fenogliana. Nell’introduzione del 1964 alla riedizione del Sentiero dei nidi di ragno Calvino vi vedeva un punto d’approdo della letteratura resistenziale: “Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata“; in questo “c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia”.

Risultati immagini per una questione privata beppe fenoglio
GIANLUIGI BECCARIA, Fenoglio, un classico del nostro secolo, in B. F., 1922-1997. Atti del convegno, a c. di P. Menzio, Milano, Mondadori, 1997

[…] Libri come La malora, come Una questione privata, come Primavera di bellezza, come Il partigiano Johnny non ne sono usciti poi molti in Italia, nel Novecento. A questi libri è delegata la dimostrazione della tenuta grandiosa che ha la letteratura alta di fronte a quanto è destinato a cancellarsi e a sgretolarsi, seguendo il vento delle mode. Fenoglio è già un classico.
Fenoglio è stato anche un esempio di quella pianta uomo di cui sono sempre più rari gli esemplari. Se n’è andato in sordina, conosciuto da pochi, una trentina d’anni fa. Ma più il tempo passa più la sua grandezza si fa assoluta. Se penso agli alti clamori che spesso si levano per molte insignificanti pagine di narrativa decostruita e minimalista in voga in questi decenni, e per contrasto al silenzio col quale quest’uomo grandissimo è scivolato via, silenzioso come le comete, trovo allora che c’è un’immediata coerenza tra il suo vivere e il suo fare letteratura: pagine di narrativa che si sono tenute fuori dei circoli, delle mode, e anche fuori, direi, di una ideologia istituzionalizzata, vulgata. Si pensi alla tanta retorica sulla Resistenza, e alla presentazione fenogliana di una Resistenza per un verso senza retorica, e per altro verso pura: non pensata e raccontata in termini immediatamente politico-ideologici, se è vero che il tema di fondo delle pagine di Fenoglio è il guerriero resistente, del passato e del presente, dall’Ettore troiano («la mia ettorica preferenza per la difensiva», come ricorderete) ai partigiani contemporanei. Potremmo forse dire, paradossalmente, che non la Resistenza storica è il tema dei suoi romanzi, ma piuttosto il tema dell’esistenza umana nella sua totalità. Quando gli portano avvolto in un lenzuolo il cadavere di un compagno, Johnny «ci vide un sigillo di eternità, come fosse un greco ucciso dai Persiani due millenni avanti».
Ma parte di queste cose le ho già dette e scritte. Dire qualche cosa di nuovo oggi su Fenoglio, almeno da parte mia, non è facile. Le ultime novità sono l’edizione Isella e la scoperta di Lorenzo Mondo, il quale meglio di me potrebbe parlare della fortuna che ha avuto e dell’emozione che ha provato nello scoprire e pubblicare quei quattro taccuini autografi: quelle umilissime carte, commoventi al solo vederle, con l’intestazione «Macelleria Fenoglio Amilcare, Piazza Rossetti, Alba», e in ogni pagina le caselle con le voci “Data”, “Carne”, “Prezzo”, “Importo”. I registri di conto del padre, un formato tascabile su cui, a penna e in bella grafia (leggibilissima, rispetto a quella che sarà l’ardua e difficile successiva), Fenoglio scrive nel 1946 i suoi primi racconti di guerra, gli Appunti partigiani.
Queste carte disseppellite a più di trent’anni dalla morte (in modo fortunoso, dopo che erano state per caso recuperate fra cartacce destinate alla discarica) costituiscono dei bellissimi, freschissimi incunaboli dello scrittore, di quello che sarà poi. Per un lettore di Fenoglio scorrere queste pagine mutile è un entusiasmante viaggio nel paese del riconoscimento. Per ogni dove personaggi, spunti, accenni brevissimi, spesso schegge, che saranno utilizzati nelle opere successive, e ampliati, e riscritti. Qualcosa non ritroveremo più, ma molto ritornerà nei Ventitre giorni della città di Alba (ci sono prelievi letterali) e in alcuni Racconti, molto nel Partigiano Johnny. Qui c’è la loro stesura più immediatamente autobiografica: il protagonista è Beppe e non ancora, anglicamente, Milton o Johnny, i nomi sono quelli veri, dalla sorella Marisa al partigiano Moretto, il fucilatore. Siamo, è vero, nel cuore dell’officina giovanile di Fenoglio. Ma è un Fenoglio godibilissimo, tutt’altro che acerbo; il racconto già scorre senza soste con l’intensa tensione narrativa che conosciamo, rapido, asciutto. Sono pagine che hanno il profumo della giovinezza, la sua spontanea grazia. Non si tratta di avvii mediocri.
Tutt’altro. La cronaca è magari più dispersiva, ma nello stile già riconosci la zampata dello scrittore a venire: per esempio le prime tracce del forte neologizzare non affidato ancora, in via preliminare, all’inglese, come sarà poi nel Partigiano.
E già siamo fuori dal neorealismo: ci sono tessere dialettali e regionali, che però non sono mai macchia di colore paesano, specificazione locale o abbassamento della lingua, bensì già dialetto come forza letteraria ed evocazione.
Fenoglio qui come dopo, ancora fino al Partigiano Johnny, ha sempre avuto col reale un rapporto non realistico, non mimetico; sono sempre state più forti, in lui, le ragioni della letteratura, nel senso che una delle componenti che caratterizza la sua scrittura molteplice è davvero la preminenza del discorso mentale e delle mediazioni letterarie su quello della immediata verosimiglianza descrittiva. Lo si vede dalla determinazione sua a foggiare la lingua in obbedienza alle ragioni letterarie piuttosto che a quelle dell’efficacia mimetica e della fedeltà rappresentativa; la tendenza, insomma, a istituire sempre un altro senso e un altro piano del discorso. Fenoglio è una sorta di scrittore che ha posto il diaframma della distanza tra il narrare di un presente, di avvenimenti “reali”, e la lontananza, la separatezza, l’invenzione di una scrittura e di una rappresentazione assolutizzanti. Basterebbe pensare alla Malora, romanzo dove Fenoglio ci lascia numerose tracce ascrivibili alla cultura orale, dove ci dà una versione importante dei contenuti antropologici del mondo contadino. In questo romanzo Fenoglio propone un testo straordinario, totalmente intonato sulle cadenze della tradizione orale, in cui molti sono i modi propri della lingua parlata, dagli incisi che mimano la linea accidentata del parlato ai molti tratti informali: e nella Malora, per questa via stilistica che è una scelta di un tono narrato secondo parlato, Fenoglio ci dà un testo di straordinaria omogeneità linguistica. Eppure la mimesi, nella Malora, raggiunge effetti non di naturalismo ma di arcaicità e di assolutezza: di arcaica semplicità ed essenzialità.
Parlavo della Malora come esempio di quel carattere della scrittura fenogliana che sempre pone, come fanno del resto gli scrittori grandi, un diaframma della distanza tra il “reale” e la sua rappresentazione. Ma per continuare la dimostrazione seguendo altre vie, basterebbe pensare (ma sempre si arriva allo stesso risultato) alle sue Langhe, al paesaggio. Vasto, immobile, pietrificato paesaggio primevo, che nel Partigiano gli appare «apocalitticamente ondoso», come dice. Sono onde di colline di un mare da tempi della creazione, solidificatesi d’incanto, come ad un cenno: colline lunari, desertiche, grandi dune vertiginose e possenti su cui l’umano fruscia silenziosamente e grandiosamente veleggia, sotto il grande vento superiore, in una dimensione esaltante, eroica. Colline non pettinate dai vigneti e feconde, ma luoghi dove la natura ha violenze primigenie, notti infernali, vortici di vento che fischiano: il vento-fiumana che incessante soffia, l’eterno vento collinare, il vento nero di notti totali, demoniache e sinistre.
Ma spesso anche il silenzio è una dominante, come nella Questione privata. In questo romanzo il privato silenzio della ricerca, il silenzio di una natura vuota, è rotto soltanto da rari segni umani, soltanto da qualche lontano guaito di cani. Ci sono uccelli che pigolano nella nebbia, rigagnoli sepolti in fondo alle valli, suoni di campane che non hanno eco; perché ogni suono ed ogni vuoto, anche nella Questione privata, non hanno valore naturalistico ma simbolico, sono segni, anch’essi, di difficoltà.
Natura e simbolo, natura e vicende umane sono intrinsecamente intrecciati nelle pagine di Fenoglio. Le vicende di guerra del Partigiano Johnny, con il perpetuo alternarsi di battaglie, di eventi rovinosi, di toghe vertiginose e di paci improvvise, trovano regolarmente il loro commento nell’alternarsi, sulle colline, di violenze e di paci sul/nel paesaggio, nella natura: flagelli di piogge e temporali, e silenzi improvvisi e stregati che preparano insidie, fatali eventi rovinosi. E ci sono pagine che rimandano a bibliche immagini del diluvio universale, come nel Partigiano 2, cap. VIII: «Il sole non brillò più, seguì un’era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso (“la gente smise d’aver paura dei fascisti e prese ad aver paura del fiume”) e macerò le stesse pietre della città». Caos e Eden si alternano anche sulla terra e nei cieli, che ora si torcono nella gestazione di temporali, ora si liberano in calmi laghi d’aria.
Altro carattere inimitabile, inarrivabile, della pagina di Fenoglio: la capacità di scrivere romanzi filmici e tutti d’azione, da Una questione privata a Primavera di Bellezza al Partigiano Johnny. In particolare Una questione privata è interamente dominata dal movimento e dall’azione: in un suo recente lavoro in corso di stampa, Marinella Pregliasco ha puntualmente mostrato come tutto, in questo romanzo, sia apparizione e sparizione, narrazione filmica di avvenimenti con campo-controcampo, stacchi, tagli, piani dall’alto a zoomare in basso, su dettagli di uomini o di natura. Anche la lingua è una lingua filmata, tutta azione, in totale assenza di vibrazioni patetiche. In essa poco è concesso al piacere della descrizione, all’uso lirico; il paesaggio stesso, cui si dedicano rapidi eccezionali momenti, ha un carattere soltanto funzionale per l’azione, tanto è stilizzato, raccorciato al massimo. Così, nel Partigiano, abbiamo la natura che commenta e che partecipa al pathos degli eventi, ma non è mai oggetto di meditazione a sé, di contemplazione individuale. Essa non vive a sé stante, con connotazioni sentimentali che un personaggio vi immette, come specchio d’anima; al contrario, si anima nella conflittualità tra gli elementi primi della costituzione fisica del mondo (acqua, aria, terra), che conferiscono a quell’epos partigiano un’inconfondibile forza primigenia. Sono indimenticabili quei cosmogonici caos d’acqua e di fango; quel vento animato, che ha mani poderose, un vento personificato; e il fiume che è belva, drago-mostro, che si rizza in piedi come un Dio del mito, o è manso come un agnello; e i paesi bruciati, col fumo che sale dai ciglioni come serpente, e torreggia in pilastri alteri; e Castino che brucia, ridotto a un atro tempio di deità infere. L’elemento naturale, descrittivo, trascende con una forza straordinaria la dimensione della mera descrizione cronachistica, per trasfigurarsi nel simbolo; la pioggia stessa è sempre castigo, pena celeste, flagello. Un’interpretazione morale e metafisica pervade il reale. Basterebbe leggere certe descrizioni della notte e del buio, con incubi spettrali (ricorderete: «La notte precipitava: sul paese era un inconsutile nero, ma sulla città rompevano quel velo slabbrate occhiaie e gorghi di luce spettrale»). O basterebbe pensare ai tramonti, alle ombre incombenti della sera: a quei tramonti che celano insidia, che sono come un naufragio del sole, il precipitare della notte e la perdita del giorno, lo sfarsi del creato nella notte. Oppure basterebbe pensare alle nebbie, alle brume e ai vapori di questo peculiare regno delle nebbie, come Fenoglio chiama le colline: la nebbia che inghiotte, annega e divora uomini e cose, quell’oceano di nebbia che così spesso invade le pagine del Partigiano o di Una questione privata. È una nebbia che convoglia sensi di agguato, di insidia e sepoltura («Svegliandosi, ebbe un’immediata, socchiusa sensazione di nevicata, ma poi vide la nebbia. Ma tale una nebbia quale aveva mai visto sulle più favorevoli colline: una nebbia universale, un oceano di latte frappato, che restringeva i confini del mondo a quelli dell’aia […]. Là dove la nebbia era meno compatta, poteva a stento vedere i suoi piedi veleggiare sognosamente su un lontano mare di terra ed erbe gelate»).
[…] Ho detto prima che di tutto il Novecento, se ci sono dei classici destinati a restare, a durare, questo è certo Fenoglio. Uno dei massimi, che ci viene incontro già con un tratto grande, monumentale, perentorio come il suo modo di scrivere. Ha vissuto un momento straordinario, la Resistenza, lo ha visto, e a quello ha dato la parola. Una parola che ha sublimato la cronaca, l’ha liberata dalla casualità; e si è subito rivolta alle cose fondamentali, ai problemi estremi, ai nuclei essenziali: il destino, l’amore, il tradimento, la morte, la violenza, il bene, il male, la libertà, la pace. Fenoglio si è rivolto all’uomo di tutti i tempi, «perché» – ha scritto – «partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità».

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Il 10 maggio 1933: il “rogo nazista di Berlino”

“80 anni fa gli studenti tedeschi bruciarono 25.000 volumi di libri “non tedeschi”, e già da qualche giorno abbiamo chiesto ai nostri ascoltatori quale libro adottare per ricordare quanto successo, perché «là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini», come scrisse Heinrich Heine, anch’egli fra i bruciati”. LEGGI TUTTO…

Paco Ignacio Taibo II, Così le parole finirono al rogo come le streghe, “La Repubblica”, 7 maggio 2015

BRUCIANO. Duecentotrentadue gradi Celsius, la temperatura alla quale la carta si incenerisce, si consuma nel fuoco, e la cenere si volatilizza nella notte. La data rimarrà fissata nella memoria: 10 maggio 1933. Originariamente progettate per essere celebrate simultaneamente in ventisei città, alcune delle cerimonie furono impedite dalla pioggia, ma a Berlino, a Monaco, ad Amburgo, a Francoforte, i libri bruciarono.
Alla fine di gennaio i nazisti avevano preso il potere e s’era conclusa l’esperienza della Repubblica di Weimar, un mese più tardi bruciava il Reichstag e iniziava la caccia ai socialisti e ai comunisti, agli anarchici e ai sindacalisti. Per le cerimonie dei roghi dei libri si mise in moto il rituale. Tutti i parafernali del nazismo: bande musicali, fiaccolate, carri di buoi pieni di volumi, convocati per il grande atto purificatore della giovinezza contro l’intellettualismo ebraico: un grande rogo pubblico di libri. Le foto mostreranno membri delle Sa, poliziotti, studenti sorridenti, felici, intenti a radunare libri da gettare nei falò. La festa della barbarie.
A Berlino, nella Opernplatz, non brucia la carta, bruciano le parole. Bruciano i libri con le poesie di Bertolt Brecht, ma soprattutto bruciano i versi, le magnifiche parole: Non lasciatevi sedurre, non esiste alcun ritorno. Il giorno è alle porte, c’è già il vento della notte. Non verrà un altro domani. Non lasciatevi convincere che la vita è poco.
Interviene il ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, pura energia maligna, elegante, sottile, istrionico. La sua voce cresce negli altoparlanti, raschia un po’: «Uomini e donne di Germania, l’era dell’intellettualismo ebraico sta giungendo alla fine. Da queste ceneri rinascerà la fenice di una nuova era. Oh, secolo! Oh, scienza! È un piacere essere vivo! ». Di quale scienza parla? Della scienza primitiva di bruciare nei roghi?
Bruciano le meravigliose geometrie dorate e umane di Gustav Klimt. Bruciano i brillanti testi di Sigmund Freud sull’isteria e i sogni. Chi bruciava i suoi libri avrebbe finito per bruciare sei milioni di ebrei come lui. Bruciano nei falò i testi di Einstein, i racconti di Sholem Asch, i testi del ceco Max Brod, i romanzi dei fratelli Mann, persino la relativamente innocente Vicky Baum viene incenerita. Si bruciano i geniali romanzi sociali di Jack London, Theodore Dreiser, John Dos Passos, forse in quel momento il miglior scrittore del primo scorcio di ventesimo secolo. In cima alla lista c’era il capolavoro di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale . Bruciano i romanzi storici di León Feuchtwanger, bruciano i grandi romanzi antimilitaristi di Barbusse, Il fuoco, persino l’Hemingway di Al di là del fiume e tra gli alberi. Imperdonabile, il pacifismo, per i boia del fuoco. Bruciano le riproduzioni delle fantasmagorie di Marc Chagall e i quadri di Paul Klee. Bruciano, è chiaro, le riproduzioni del neorealismo terribile e drastico di George Grosz e Otto Dix.
Bruciano i libri del futuro premio Nobel Anna Seghers. Nel falò si immolano i libri di Heinrich Heine. Senza rendersene conto, Goebbels e i suoi ragazzi avevano creato la lista fondamentale della cultura della metà del ventesimo secolo, stavano costruendo le raccomandazioni che avremmo seguito da adolescenti ansiosi pochi decenni più tardi: i libri, i quadri, gli articoli di filosofi e scienziati, le poesie. I nazisti non si rendevano conto che la temperatura alla quale brucia un libro non è solo la temperatura del fuoco sulla carta, è anche quella del fuoco dello sguardo sulla parola. Racconto questa storia per ricordare. Per non dimenticare. E l’ultima cosa che voglio ricordare è che il primo libro pubblicato in Germania dopo la sconfitta del nazismo fu Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque.
(Traduzione di Giovanni Dozzini)

Bertolt Brecht, Il rogo dei libri:

Quando il regime ordinò che fossero arsi in pubblico
i libri di contenuto malefico, e per ogni dove
i buoi furono costretti a trascinare
ai roghi carri di libri, un poeta
(uno di quelli al bando, uno dei migliori)
scoprì sgomento, studiando l’elenco degli inceneriti,
che i suoi libri erano stati dimenticati.
Corse al suo scrittoio, alato d’ira,
e scrisse ai potenti una lettera:
«Bruciatemi», vergò di getto, «bruciatemi!
Non fatemi questo torto! Non lasciatemi fuori!
Non ho forse sempre testimoniato la verità, nei miei libri?
E ora voi mi trattate come fossi un mentitore!
Vi comando: bruciatemi!»

Anna Foa, Nei roghi dei libri brucia anche l’anima di un popolo

La cultura tedesca bruciò nella notte del 10 maggio 1933. Hitler era diventato cancelliere il 30 gennaio di quell’anno, nel marzo l’incendio del Reichstag aveva aperto la strada ad arresti e repressioni di ogni genere. Erano state da poco varate le prime leggi antiebraiche, e da pochi giorni erano stati sciolti tutti i partiti di opposizione. Il 10 maggio organizzati dalle associazioni studentesche naziste sotto l’accorta regia del ministro della propaganda nazista Goebbels, oltre cinquantamila libri furono pubblicamente arsi in piazza, a Berlino e in molte altre città tedesche. Erano le opere degli scrittori ebrei e di quelli, pur non ebrei, influenzati dalla cultura ebraica, le opere degli intellettuali della Repubblica di Weimar, di giornalisti, scienziati.

Erano i libri che i nazisti definivano ‘ non tedeschi’. E data l’indubbia egemonia della cultura tedesca in quegli anni, era la cultura europea tutta che bruciava in quei roghi, un’Europa impotente a difendere le opere dei suoi scrittori dei suoi filosofi, dei suoi scienziati come poi sarebbe stata a lungo impotente a difendere i suoi cittadini. La liturgia della cerimonia fu accurata, come tutte le ritualità inventate dal nazismo per affascinare e trarre a sé le masse. Nelle foto del tempo, sono i roghi stessi a dominare la scena, e la violenza dell’atto.
Ma qualche descrizione ci mostra la folla, ottusa e istupidita, che leva il braccio nel saluto nazista, canta gli inni, mangia salsicce, inneggia agli studenti in divisa bruna che ad ogni libro gettato nel rogo ne proclamano la condanna a gran voce: « Contro la sopravvalutazione dei bassi istinti a detrimento dello spirito e in nome della nobiltà dell’anima umana, io consegno alle fiamme gli scritti di Sigmund Freud», e via di questo passo, con Einstein e Marx, Werfel, Thomas ed Heinrich Mann, Stefan e Arnold Zweig, Schnitzler e Musil, Heine e Brecht, Remarque e Feutchwanger, Benjamin e Liebermann, per non citare che i più famosi. Arnold Zweig ci racconta delle carrette che trasportavano i libri, delle cataste ordinate prussianamente, della pioggia che minacciava di spegnere le fiamme. Egli decise quella notte di emigrare e scelse la Palestina. Non erano molti gli scrittori presenti tra la folla al rogo dei loro libri. Molti erano già emigrati in quei brevi mesi che avevano seguito l’avvento del nazismo. La sorte degli intellettuali austriaci doveva attendere l’Anschluss del 1938 per diventare drammatica. Allora, i nazisti austriaci avrebbero devastato lo studio del vecchio Freud, che sarebbe stato lasciato libero di emigrare solo dopo essere stato riscattato a peso d’oro dalla principessa Marie Bonaparte, sua allieva.
A Berlino, invece, non ci furono dilazioni. Max Liebermann, il grande pittore impressionista, presidente dell’Accademia prussiana di Belle arti, morì prima di essere arrestato, ma la sua vedova si suicidò per sottrarsi all’arresto. Theodor Wolff, Hannah Arendt, Walter Benjamin e molti altri fuggirono a Parigi o negli Stati Uniti. Parigi diventò il centro dell’emigrazione degli intellettuali ebrei tedeschi, fino a quando l’invasione nazista non impose anche lì la sua legge di morte.
Benjamin si suicidò alla frontiera con la Spagna, alla soglia della salvezza.
Molti altri si tolsero la vita, in Germania o nell’emigrazione, come ricorda in un suo scritto americano Hannah Arendt. Il cuore della cultura europea, Berlino, aveva perduto la sua anima, ma il trasferimento di quest’anima in altre terre, in altri mondi, fu tutt’altro che indolore. Gli ebrei tedeschi si sentivano profondamente tedeschi, e fino a quando Hitler non impose loro di essere soltanto ebrei si sentivano più tedeschi che ebrei. La nostalgia, oltre al dolore e allo spaesamento, fu devastante. Ma oltre agli ebrei, c’erano gli intellettuali non ebrei accusati di essere ‘ decadenti’, degenerati.
A tutti costoro, primo fra tutti Thomas Mann, il regime nazista tolse la cittadinanza.
Così gli autori dei libri bruciati il 10 maggio 1933 condivisero la sorte, o almeno il dolore, di quell’esecuzione.
Realizzando una profezia, fatta nel 1817, in occasione di un altro rogo fatto da studenti tedeschi, da un altro degli autori bruciati sul rogo, Heinrich Heine: «Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini». Heine era morto molto prima di tutto questo, esule a Parigi nel 1848, quando l’amore della nazione era ancora difesa della volontà di essere liberi e non desiderio di sopraffazione. Con il rogo delle sue opere, Hitler saldava il presente al rifiuto del passato glorioso della grande cultura tedesca, tagliava tutti i ponti con la storia tedesca. Come diceva Goebbels nella notte del rogo: «Fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un’impresa forte, grande e simbolica, un’impresa che proverà al mondo intero che le basi intellettuali della repubblica di Novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito».
“Avvenire”, 9 agosto 2009

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Ubique naufragium est…

Un momento, l’equipaggio della lancia rimase impietrito. Poi si voltarono.
«La nave, gran Dio, dov’è la nave?»
Presto, attraverso veli d’acqua foschi e confusi, ne videro il fantasma obliquo che svaniva, come tra i vapori della Fata Morgana, solo le vette degli alberi fuori dell’acqua; e inchiodati ai posatoi un tempo così alti, per pazzia, fedeltà o destino, i ramponieri pagani affondavano sempre scrutando sul mare.
E ora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria, e tutti quegli uomini, e ogni remo galleggiante, e ogni palo di lancia, e torcendo in giro in un solo vortice ogni cosa viva o senz’anima, trascinarono a fondo anche il più piccolo avanzo del Pequod.

H. Melville, Moby Dick

NAUFRAGIO. Da Robinson Crusoe al Titanic la grande metafora dell’Occidente, 19 gennaio 2012

Se gli esseri umani sono “gettati a vivere” involontariamente sulla terra, niente li racconta più esattamente di un naufragio. «Gettato in quell’isola desolata» è Robinson. Un barilotto, un chiodo, un’accetta, dei chicchi di grano, uno spago – da lì riparte la storia della civilizzazione. Nessuna metafora è più forte, né il terremoto – il mare è un terremoto intermittente ma perenne – né l’eruzione del vulcano né il diluvio – l’arca di Noé è la prima scialuppa salvata dal naufragio universale. Il naufragio è insieme spoliazione e destituzione di tutto, e possibile promessa di nuovo inizio. Il naufragio viene prima del naufrago: il naufrago è il risultato, uno dei relitti depositati dalla risacca. I marinai temono la bonaccia quanto e più della bufera, ma il naufragio esemplare ha bisogno della furia della natura. Il romanticismo non può far a meno di tempesta e naufragio. Invece un naufragio in acqua ferma, in una notte dolce, in vista della riva, è la più imbarazzante delle sventure: un proverbio di Sorrento, culla di marinai, dice che incagliare la nave nella sabbia è brutto, ma incagliarla negli scogli è orribile. L’enorme nave coricata sul fianco – «la carcassa ubriaca d’ acqua» – assomiglia più all’ agonia di un capodoglio disorientato che a un naufragio. Ma anche la Concordia ha messo alla prova la tempra degli umani.
Il naufragio va assieme all’abnegazione – annegare, è una parola sola – e alla viltà: fino al cannibalismo, alla zattera della Medusa. I naufraghi si dibattono in un inferno: Delacroix dipinge la barca di Dante alla quale i dannati si aggrappano, mordendo il bordo coi denti, respingendosi a calci l’ un l’ altro. La superstizione dei marinai di oggi è la risacca del capriccio degli dei e del castigo di Dio. L’Odissea è un manuale di naufragi. […]
Allegria di naufragi, intitolò, fra molti ripensamenti, Ungaretti, e non aveva in mente l’ eccitazione lucreziana che danno le catastrofi, ma piuttosto la decisione del superstite di riprendere il viaggio. Ci sono storie di ricominciamenti impressionanti, come quella del patrizio veneziano Pietro Querini. Salpò da Candia nel 1431 con un carico vario e un equipaggio di 68 uomini. Oltre il capo Finisterre vennero spinti dalla tempesta al largo dell’ Irlanda, lì la nave affondò e si imbarcarono in due scialuppe. Una si perse, l’ altra andò alla deriva per mesi, alcuni bevvero il mare e impazzirono, altri bevvero la propria urina. Approdarono a uno scoglio delle isole Lofoten, nel nord della Norvegia. Dei 48 imbarcati restavano 16. Gli isolani di Røst li trovarono e li ospitarono per quattro mesi. Viene da lì la consuetudine veneta e italiana con lo stoccafisso, e anche la battuta sulle sembianze latine degli abitanti di Røst. Nel 1432 Querini e i suoi tornarono fortunosamente a Venezia, e un anno dopo Querini ripartì alla volta delle Lofoten, e di lì verso l’ estremo nord, dove si persero la sua vita e le sue tracce.

Un naufragio di giardinetto pubblico sta a custodia della nostra lingua: «E il naufragar m’ è dolce in questo mare»; la traduzione di Sainte-Beuve lo muta in tutt’ altro suono e cosa, e accentua all’ estremo la seduzione: «Et sur ces mers sans fin j’ aime jusqu’ au naufrage». Amare da morire, amare da naufragare. La fiction ha soppiantato da tempo le storie di naufragi marini con quelli di astronavi nello spazio, i cui detriti ingombrano il cielo: aveva cominciato Verne col naufragio della mongolfiera. Sul fondale degli oceani giacciono, secondo la stima delle Nazioni Unite, più di 3 milioni di bastimenti naufragati. E storie e leggende di tesori sepolti. Le assicurazioni nacquero da lì, dalla necessità di coprire le spedizioni navali. Nasce da lì, forse, anche il nome fortunato di racket. Wrack è in inglese la nave naufragata, il relitto. Andar al raque è l’ espressione castigliana per il recupero, e anche il saccheggio, di relitti. Non so che cosa è venuto prima. In fondo alla Terra del fuoco c’è il più grande cimitero di navi del mondo, i naufragi provocati dalle onde e quelli commissionati dagli armatori. Quando il vapore prese il sopravvento, i velieri non furono semplicemente disarmati; i loro capitani coraggiosi furono mandati a naufragare in quelle tempeste favolose, per far incassare il premio dell’assicurazione. Guai, ogni volta che si riscrive una riga attorno alla nave alta come un palazzo di venti piani, ai suoi passeggeri internazionali e alla sua ciurma extracomunitaria, a dimenticare i naufragi che, senza neanche meritare questo nome magnanimo, seminano di ossa senza nome il mare fra Africa ed Europa, e i pescatori che, a costo di malevolenze e denunce, ne soccorrono gli scampati. Fra la premura che dedichiamo ai migranti e quella riservata alla Concordia c’ è una sproporzione più grande che fa i loro miserabili barconi e la nave colossale del Giglio. E questo ha molte spiegazioni comprensibili, ma nessuna cancella del tutto una differenza che ha a che fare col valore di mercato delle vite, che è un sinonimo leggero del razzismo.
ADRIANO SOFRI

Davide Rondoni, Noi, Ulisse e i naufragi… Letteratura in un mare di avventure, “Il Sole 24 ore”, 12 settembre 2010

A Rimbaud, Il battello ebbro

[…]
Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
l’acre amore m’ha gonfiato di stordenti torpori.
Oh, che esploda la mia chiglia! Che io vada a infrangermi nel mare!

Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso
un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia
un fragile battello come una farfalla di maggio.

Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,
di filare nelle scia dei portatori di cotone,
né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi,
e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni.

(tr. it. di D. Bellezza)

T. S. Eliot, Death by water
Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell
And the profit and loss.
A current under sea
Picked his bones in whispers. As he rose and fell
He passed the stages of his age and youth
Entering the whirpool.
Gentile or Jew
O you who turn the wheel and look to windward,
Consider Phlebas, who was once handsome and tall  
as you.

La morte per acqua
Fleba, il Fenicio, morto da quindici giorni,
Dimenticò il grido del gabbiano,e il flutto profondo del mare
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.
Gentile o Giudeo
O tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento,
Pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto al pari
di te.

PER APPROFONDIRE:

Naufragi e visioni. Festival dedicato alla metafora del naufragio: http://cnaf.ch/naufragi-e-visioni/

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Il calendario è aggiornato

Il calendario degli impegni per i prossimi giorni è aggiornato! Vai alla pagina corrispondente: https://illuminationschool.wordpress.com/calendario/

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Il pendolo di Focault

Da “Il Pendolo di Foucault” di Umberto Eco, Bompiani,1988

“Fu allora che vidi il Pendolo. La sfera, mobile all’estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà. Io sapevo – ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell’incanto di quel placido respiro – che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero pi greco, che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili – così che il tempo di quel vagare di una sfera dall’uno all’altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di pi greco, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio. Ancora sapevo che sulla verticale del punto di sospensione, alla base, un dispositivo. magnetico, comunicando il suo richiamo a un cilindro nascosto nel cuore della sfera, garantiva la costanza del moto, artificio disposto a contrastare le resistenze della materia, ma che non si opponeva alla legge del Pendolo, anzi le permetteva di manifestarsi, perché nel vuoto qualsiasi punto materiale pesante, sospeso all’estremità di un filo inestensibile e senza peso, che non subisse la resistenza dell’aria, e non facesse attrito col suo punto d’appoggio, avrebbe oscillato in modo regolare per l’eternità. La sfera di rame emanava pallidi riflessi cangianti, battuta com’era dagli ultimi raggi di sole che penetravano dalle vetrate. Se, come un tempo, avesse sfiorato con la sua punta uno strato di sabbia umida disteso sopra il pavimento del coro, avrebbe disegnato a ogni oscillazione un solco leggero sul suolo, e il solco, mutando infinitesimalmente di direzione ad ogni istante, si sarebbe allargato sempre più in forma di breccia, di vallo, lasciando indovinare una simmetria raggiata – come lo scheletro di un mandala, la struttura invisibile di un pentaculum, una stella, una mistica rosa. No, piuttosto una vicenda, registrata sulla distesa di un deserto, di tracce lasciate da infinite erratiche carovane. Una storia di lente e millenarie migrazioni, forse così si erano mossi gli atlantidi del continente di Mu, in ostinato e possessivo vagabondaggio, dalla Tasmania alla Groenlandia, dal Capricorno al Cancro, dall’Isola del Principe Edoardo alle Svalbard. La punta ripeteva, narrava di nuovo in un tempo assai contratto, quello che essi avevano fatto dall’una all’altra glaciazione, e forse facevano ancora, ormai corrieri dei Signori – forse nel percorso tra le Samoa e la Nuova Zemlia la punta sfiorava, nella sua posizione di equilibrio, Agarttha, il Centro del Mondo. E intuivo che un unico piano univa Avalon, l’iperborea, al deserto australe che ospita l’enigma di Ayers Rock. In quel momento, alle quattro del pomeriggio del 23 giugno, il Pendolo smorzava la propria velocità a un’estremità del piano d’oscillazione, per ricadere indolente verso il centro, acquistar velocità a metà del suo percorso, sciabolare confidente nell’occulto quadrato delle forze che ne segnava il destino. Se fossi rimasto a lungo, resistente al passare delle ore, a fissare quella testa d’uccello, quell’apice di lancia, quel cimiero rovesciato, mentre disegnava nel vuoto le proprie diagonali, sfiorando i punti opposti della sua astigmatica circonferenza, sarei stato vittima di un’illusione fabulatoria, perché il Pendolo mi avrebbe fatto credere che il piano di oscillazione avesse compiuto una completa rotazione, tornando al punto di partenza, in trentadue ore, descrivendo un’ellisse appiattita – l’ellisse ruotando intorno al proprio centro con una velocità angolare uniforme, proporzionale al seno della latitudine. Come avrebbe ruotato se il punto fosse stato fissato al sommo della cupola del Tempio di Salomone? Forse i Cavalieri avevano provato anche laggiù. Forse il calcolo, il significato finale, non sarebbe cambiato. Forse la chiesa abbaziale di Saint-Martin-des-Champs era il vero Tempio. Comunque l’esperienza sarebbe stata perfetta solo al Polo, unico luogo in cui il punto di sospensione sta sul prolungamento dell’asse di rotazione terrestre, e dove il Pendolo realizzerebbe il suo ciclo apparente in ventiquattro ore. Ma non era questa deviazione dalla Legge, che peraltro la Legge prevedeva, non era questa violazione di una misura aurea che rendeva meno mirabile il prodigio. Io sapevo che la terra stava ruotando, e io con essa, e Saint-Martin-des-Champs e tutta Parigi con me, e insieme ruotavamo sotto il Pendolo che in realtà non cambiava mai la direzione del proprio piano, perché lassù, da dove esso pendeva, e lungo l’infinito prolungamento ideale del filo, in alto verso le più lontane galassie, stava, immobile per l’eternità, il Punto Fermo. La terra ruotava, ma il luogo ove il filo era ancorato era l’unico punto fisso dell’universo. Dunque non era tanto alla terra che si rivolgeva il mio sguardo, ma lassù, dove si celebrava il mistero dell’immobilità assoluta. Il Pendolo mi stava dicendo che, tutto muovendo, il globo, il sistema solare, le nebulose, i buchi neri e i figli tutti della grande emanazione cosmica, dai primi eoni alla materia più vischiosa, un solo punto rimaneva, perno, chiavarda, aggancio ideale, lasciando che l’universo muovesse intorno a sé. E io partecipavo ora di quell’esperienza suprema, io che pure mi muovevo con tutto e col tutto, ma potevo vedere Quello, il Non Movente, la Rocca, la Garanzia, la caligine luminosissima che non è corpo, non ha figura forma peso quantità o qualità, e non vede, non sente, né cade sotto la sensibilità, non è in un luogo, in un tempo o in uno spazio, non è anima, intelligenza, immaginazione, opinione, numero, ordine, misura, sostanza, eternità, non è né tenebra né luce, non è errore e non è verità.”

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Gabriele d’Annunzio

Il Vittoriale degli Italiani. VIDEO.

Correva l’anno: G. D’Annunzio. PARTE I. PARTE II. PARTE III. PARTE IV.

10-11 febbraio 1918: la Beffa di Buccari. VIDEO

9 agosto 1918: il volo su ViennaVIDEO.

Gianni Riotta, Cent’anni fa il Vate volava su Vienna, “La Stampa” 9 agosto 2018

Lanciando volantini sulla capitale nemica dimostrava le capacità ignorate dell’aviazione

Il 9 agosto del 1918 il maggiore Gabriele d’Annunzio volava, con la sua squadriglia aerea 87, Serenissima, sulla capitale nemica Vienna, non per bombardarla, ma per lanciare volantini inneggianti all’Italia. Due mesi prima, il 4 giugno, il colonnello Giulio Douhet, che di D’Annunzio era amico e con lui condivideva la fede nell’aviazione, lasciava l’esercito, sdegnato per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere la guerra aerea, che gli era costata perfino una condanna al carcere militare.
Il maggiore poeta D’Annunzio e il colonnello stratega Dohuet, l’autore de Il piacere, 1889, e il futuro autore del manuale militare di aviazione, Il dominio dell’aria, 1921, avevano redatto, terzo firmatario l’ingegner Gianni Caproni, un memorandum per il generale Carlo Porro, datato 3 luglio 1917. Chiedevano ai burocrati, come il vetusto generale Cadorna, di fondare un’aviazione indipendente, per ottenere «il dominio dell’aria».
Pionieri
Né il «Vate», come i fedelissimi appellavano D’Annunzio, né Douhet vengono ascoltati, ma non mollano. E D’Annunzio, malgrado l’incidente del gennaio ’16, che l’ha reso guercio, decide che se l’aviazione non può vincere la guerra con i bombardamenti strategici prescritti da Douhet, almeno potrà servire a un’audace azione di propaganda. Sorvolare l’orgogliosa Vienna, non per seminare bombe, ma, con «sprezzatura» cara agli Arditi, volantini con messaggi di resa per gli austriaci. D’Annunzio amava il volo da quando aveva visto uno dei primi show aerei a Brescia, nel 1909, tra gli spettatori anche lo scrittore Franz Kafka, e per aver volato col pioniere Wilbur Wright. Il suo innato senso di comunicazione estetica, lo porta subito a due raid con volantini, agosto e settembre 1915, su Trento e Trieste in mano agli austriaci.
Il poeta malvisto
Se un’idea lo anima diventa slogan, stavolta «Donec ad metam: Vienna!», lo stato maggiore non può sbatterlo in carcere con Douhet, ma lo considera uno scocciatore, e quando concede il permesso per il raid, lo fa senza entusiasmo. Ricorda lo scrittore Giordano Bruno Guerri, biografo di D’Annunzio e presidente del Vittoriale, casa-museo del poeta: «ll Comando Supremo glielo impedì, nonostante i mille chilometri percorsi in una sorvolata dimostrativa sulle Alpi per esibire la propria resistenza alla fatica. Temevano un fallimento, o addirittura la prigionia o la morte del poeta-soldato. Dopo le sue insistenze, il Comando Supremo e il Governo decisero di autorizzarlo all’impresa, di un’audacia mai tentata prima».
La clausola è però ferrea, se maltempo, caccia nemici o guasti, avessero indebolito la squadriglia di undici Ansaldo Sva (sigla dei progettisti Savoja, Verduzio, Ansaldo), il raid sarebbe stato cancellato. D’Annunzio, sempre «d’annunziano», fa giurare invece ai piloti di andare avanti a ogni costo. Il 2 agosto 1918 la squadriglia è fermata dalla nebbia. L’8, dal vento. Gli equipaggi erano esposti a intemperie e gelo, soli strumenti bussole e mappe, si volava a vista, accecati da una nuvola.

Due volantini diversi
D’Annunzio ha a bordo 50.000 volantini in italiano, sul sito Ebay se ne vende ancora qualcuno, redatti da lui in prosa magniloquente: «In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza… l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge. Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza…Il rombo della giovane ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo mattutino…o Viennesi. Viva l’Italia! »

Con maggiore realismo politico, il comando fa tradurre in tedesco un altro volantino, 350.000 copie, autore il critico Ugo Ojetti, che si conclude con un appello agli alleati, «Viva l’Italia, viva l’Intesa!» e il 10 agosto, in un dispaccio di prima pagina, il New York Times, cita proprio Ojetti, pur elogiando l’impresa di D’Annunzio, «oltre 1600 chilometri percorsi, 800 su territorio nemico» . Il raid avrà echi straordinari, la folla di Vienna ha visto i velivoli (parola coniata da D’Annunzio) volteggiare a 800 metri, con il poeta che cerca il museo con l’immagine di Santa Caterina d’Alessandria e ordina al copilota Natale Palli di incrociare indietro. La Frankfurter Zeitung lamenterà che la contraerea tedesca non abbia intercettato gli Ansaldo, l’Arbeiter Zeitung accuserà di codardia gli intellettuali «Dove sono i nostri D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato d’essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano…Anche tra noi si contano…quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l’aviatore!».
L’elogio del nemico è sempre il migliore. Ma l’Italia, pioniera del volo nell’industria, nel disegno, nella strategia, non darà seguito al raid di Vienna. D’Annunzio finirà, dopo l’occupazione di Fiume, isolato, Douhet non avrà il tempo di completare il progetto per una grande aviazione. E durante la Seconda guerra mondiale le nostre città scopriranno, con dolore, la differenza tra volantini poetici e bombe vere, tra poesia decadente e strategia efficiente, tra bel gesto e industria di massa.

«Ma da dove attingo parole per descrivere tutta l’incomprensione, lo stupore, il ribrezzo e disprezzo che provo al cospetto del poeta-politico di razza latina, del guerrafondaio tipo Gabriele D’Annunzio? Possibile che un retore e demagogo di questo stampo non rimanga mai solo e stia sempre affacciato al ‘balcone’? Non conosce solitudine, non gli vengono mai dubbi nei propri confronti, ignora la preoccupazione e il tormento per l’anima e per l’opera sua, ignora l’ironia a proposito della gloria, la vergogna dinanzi alla ‘venerazione’? E dire che a casa sua, almeno per un po’ di tempo, è stato preso sul serio, questo buffone d’artista, questo pallone gonfiato avido di ebbrezza! […] Chissà, forse un atteggiamento così passivo era possibile solo in un paese rimasto fanciullo, un paese in cui tutto il criticismo demo-politico non impedisce che gli facciano difetto proprio ogni critica e scetticismo in grande stile, un paese insomma che non ha mai avuto una profonda esperienza critica né sul piano razionale né su quello morale e tanto meno su quello dell’arte. Hanno preso sul serio D’Annunzio, la scimmia di Wagner, quell’ambizioso maestro di orge verbali…».

Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico [1918], Adelphi, Milano 1997, pp. 573-574

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Plauto

Miles gloriosus: PRIMA PARTE; SECONDA PARTE.

Efeso, Asia Minore

DRAMATIS PERSONAE

PYRGOPOLINICES, miles
ARTOTROGUS, parasitus
PALAESTRIO, servos (= servus)
PERIPLECTOMENUS, senex
SCELEDRUS, servos
PHILOCOMASIUM, mulier
PLEUSICLES, adulescens
LUCRIO, puer
MILPHIDIPPA, ancilla
SERVI PYRGOPOLINICIS
ACROTELEUTIUM, meretrix
PUER PERIPLECTOMENI
CARIO, coquos (= coquus)
LORARII

PERSONAGGI

Pirgopolinice, soldato
Artotrogo, parassita
Palestrione, servo (del soldato, già di Plèusicle)
Periplectòmeno, vecchio
Scèledro, servo (del soldato)
Filocomasio, cortigiana (amante di Plèusicle)
Plèusicle, giovane
Lucrione, schiavetto
Milfidippa, ancella (di Acrotelèuzio)
Schiavi di Pirgopolinice
Acrotelèuzio, cortigiana
Schiavetto di Periplectòmeno
Carione, cuoco
Schiavi fustigatori

ARGUMENTUM II

Meretricem ingenuam deperibat mutuo
Atheniensis iuvenis. Naupact<um> is domo
legatus abiit; miles in eandem incidit,
deportat Ephesum invitam. Servos Attici
ut nuntiaret domino factum navigat;
capitur, donatur illi captus militi.
Ad erum ut veniret Ephesum scribit. Advolat
adulescens atque in proximo devortitur
apud hospitem paternum. Medium parietem
perfodit servos, commeatus clanculum
qua foret amantum; geminam fingit mulier<is>
sororem adesse. Mox ei dominus aedium
suam clientem sollicitandum ad militem
subornât. Capitur ille; sperat nuptias
dimittit concubinam et moechus vapulat.

SECONDO SOMMARIO
Un giovane ateniese amava appassionatamente una cortigiana nata libera e ne era ricambiato. Un bel giorno dovette andarsene via da casa per un’ambasceria a Naupatto; allora un soldato piomba sulla ragazza e se la porta ad Efeso contro la sua volontà. Un servo del giovane ateniese si mette in mare per annunziare l’accaduto al padrone; ma è preso e regalato, dopo la cattura, proprio al soldato. Scrive al padrone che venga ad Efeso. Il giovanotto si precipita e va ad alloggiare nella casa accanto, presso un ospite di suo padre. Il servo buca la parete divisoria per offrire ai due amanti un passaggio clandestino per incontrarsi e inventa che è arrivata una sorella gemella della donna. Poi il padrone della casa vicina gli fornisce una sua cliente per far perdere la testa al soldato. Questi si fa adescare; carezza il progetto d’un matrimonio, licenzia la sua concubina e finisce per farsi strigliare come adultero.

ATTO PRIMO, w. 1-78

PIRGOPOLINICE (soldato), ARTOTROGO (parassita)

PIRGOPOLINICE (uscendo di casa, rivolto ai servi, nell’interno) Mi raccomando, fate sì che il mio scudo sia rifulgente di una luce più viva di quella dei raggi del sole quando il cielo è sereno; cosicché, quando venga il momento, ingaggiata la battaglia, abbagli la vista dei nemici sul campo . Quanto a questa spada , io vo-glio consolarla, perché non si lamenti e non si perda d’animo per il fatto che da tempo ormai la porto in giro lasciandola in ozio, mentre lei, poverina,  smania dal desiderio di far polpette dei nemici. Ma dov’è Artotrogo?
ARTOTROGO È qui, accanto a un uomo forte e fortunato e di bellezza regale. Un guerriero, poi… Marte non oserebbe parlare né paragonare le sue prodezze alle tue.
PIRGOPOLINICE Non è a lui che ho salvato la vita nelle pianure gorgoglionee, là dove comandante in capo era Bumbomàchide Clutomestoridisàrchide , nipote di Nettuno?
ARTOTROGO Me ne ricordo; vuoi dire quello con le armi d’oro, le cui legioni tu disperdesti con un soffio, come il vento fa con le foglie o con la paglia dei tetti.
PIRGOPOLINICE Una cosa da niente, in fede mia.
ARTOTROGO Niente davvero, per Ercole, in confronto alle altre imprese che dirò (a parte) e che tu non hai mai compiuto, (al pubblico) Se qualcuno ha mai visto un uomo più bugiardo o più vanaglorioso di questo, mi abbia pure in sua proprietà, mi impegno a diventare suo schiavo. C’è una cosa però: a casa sua si mangia un pasticcio d’olive buono da matti.
PIRGOPOLINICE Dove sei ?
ARTOTROGO Eccomi. Perdinci, come per esempio in India a quell’elefante, co-me gli hai rotto un braccio con un pugno!
PIRGOPOLINICE Come? Un braccio?
ARTOTROGO Volevo dire la coscia.
PIRGOPOLINICE E dire che l’avevo colpito sbadatamente.
ARTOTROGO Perdinci, se ce l’avessi messa tutta, il braccio sarebbe passato attraverso la pelle, le viscere e la bocca di quell’elefante!
PIRGOPOLINICE Ma non ho voglia adesso di parlare di queste cose.
ARTOTROGO Per Ercole, non vale certo la pena che tu mi racconti le tue prodezze, dato che le conosco bene, (a parte) È la pancia che mi procura tutte que-ste disgrazie: perché i denti non mi crescano, devo sorbirmi con le orecchie e devo assecondare tutte le frottole che costui s’inventerà.
PIRGOPOLINICE Che cosa volevo dire?
ARTOTROGO Ah sì, io lo so già che cosa vuoi dire: certo per Ercole, così è stato, me lo ricordo benissimo.
Pirgopolinice Che cosa?

Artotrogo Qualsiasi cosa,

Pirgopolinice Hai…
ARTOTROGO Vuoi chiedermi le tavolette. Eccole, e anche lo stilo.
PIRGOPOLINICE Fa piacere come tu sai cogliere al volo le mie intenzioni.
ARTOTROGO È mio dovere conoscere a fondo il tuo carattere e preoccuparmi di fiutare in anticipo i tuoi desideri.
PIRGOPOLINICE Ti ricordi qualcosa?
ARTOTROGO Mi ricordo sì: centocinquanta in Cilicia, cento in Scitolatronia, trenta di Sardi , sessanta Macedoni: sono gli uomini che tu hai ucciso in un solo giorno.
PIRGOPOLINICE Quanto fa in tutto?
ARTOTROGO Settemila.
PIRGOPOLINICE Sì, così dev’essere: sei bravo tu a fare i conti.
ARTOTROGO Eppure non li ho messi per iscritto; ma me li ricordo lo stesso.
PIRGOPOLINICE Perdiana, hai una memoria eccellente.
ARTOTROGO Sono i buoni bocconi a rafforzarmela.
PIRGOPOLINICE Finché continuerai a comportarti così, avrai da mangiare tutti i giorni: ti farò sempre partecipare alla mia mensa.
ARTOTROGO E allora, in Cappadocia, quella volta che tu, se non avessi avuto la spada smussata, avresti ucciso con un solo colpo cinquecento uomini tutti insieme?
PIRGOPOLINICE Ma erano dei fantaccini da quattro soldi; perciò li ho lasciati in vita.
ARTOTROGO Perché dovrei ripeterti quello che sanno tutti i mortali, e cioè che tu, Pirgopolinice, sei unico al mondo per valore, prestanza e imprese invincibilissime? Tutte le donne sono innamorate di te, e non hanno torto, visto che sei così bello. Come per esempio quelle che ieri mi hanno tirato per il mantello.
PIRGOPOLINICE Che cosa ti hanno detto?
ARTOTROGO Continuavano a farmi domande: «Ma è Achille quell’uomo?», mi dice una. «No, dico io, è suo fratello». Allora l’altra mi fa: «Perciò è così bello, per Castore, e così distinto! Guarda come gli sta bene quella pettinatura! Ah, sono davvero fortunate le donne che vanno a letto con lui!».
PIRGOPOLINICE Dicevano proprio così?
ARTOTROGO Certo; e figurati che entrambe mi hanno scongiurato di farti passare oggi da quella parte, come in processione !
PIRGOPOLINICE È una gran disgrazia essere troppo bello!
ARTOTROGO Eh, sì; sono così noiose; pregano, sollecitano,  supplicano di poterti vedere; chiedono che io ti presenti a loro, tanto che non riesco più a occuparmi dei tuoi affari.
PIRGOPOLINICE Adesso è ora di andare in piazza, perché io paghi il salario ai soldati che ho arruolato ieri. Il re Seleuco mi ha pregato con grande insistenza perché gli trovassi e gli arruolassi dei soldati. Ho deciso di dedicare al re questa giornata.
ARTOTROGO Su, allora andiamo,
PIRGOPOLINICE Guardie, seguitemi.  (ESCONO)

Plauto in Shakespeare: Falstaff

“William Shakespeare, affrontato il tema dell’ascesa al trono e dello stato mentale di Enrico IV già nel Riccardo II, opera in cui emergono anche le insoddisfazioni del re verso il figlio principe Harry, il futuro Enrico V, segue il travagliato regno di Henry Bolingbroke e le ribellioni che lo insidiano nell’ Enrico IV (prima parte, 1598), dove per la prima volta applica in modo esteso al dramma storico le strutture della commedia. Nel brano scelto sir John Falstaff attacca duramente Poins e il principe Harry per avere abbandonato lui e i tre compagni durante l’imboscata, senza riconoscere in essi i suoi assalitori mascherati, e con Peto addirittura racconta loro di essere stato vittima di un gruppo numeroso di briganti e di averli fieramente contrastati. La millanteria di Falstaff è qui tutta racchiusa nel suo sfogo di fantasticherie mendaci, corrispondenti alla vanagloriosa enumerazione dei nemici abbattuti da Pirgopolinice nel Miles gloriosus.”

Enrico IV (atto II, scena IV)

GADSHILL We four set upon some dozen.
FALSTAFF Sixteen at least, my lord.
GADSHILL And bound them. […]
GADSHILL As we were sharing, some six or seven fresh men set upon us.
FALSTAFF And unbound the rest, and then came in the other.
PRINCE What, fought you with them all?
FALSTAFF All? I know not what you call all, but if I fought not with fifty of them, I am a bunch of radish. […]
PRINCE Pray God you have not murd’red some of them.
FALSTAFF Nay, that’s past praying for: I have pepper d two of them; two I am sure I have paid – two rogues in buckram suits. I tell thee what, Hal, if I tell thee a lie, spit in my face, call me a horse… here I lay, and thus I bore my point. Four rogues in buckram let drive at me.
PRINCE What, four? Thou saidst but two even now.
FALSTAFF Four, Hal; I told thee four.
POINS Ay, ay, he said four.

GADSHILL Noi quattro piombammo addosso a circa una dozzina…
FALSTAFF – Sedici almeno, signor mio.
GADSHILLE li legammo.
GADSHILL Mentre stavamo dividendo, un sette o otto uomini freschi ci piombarono addosso
FALSTAFF Slegarono gli altri, e poi ne vennero ancora.
PRINCE E che, avete combattuto contro tutti?
FALSTAFF Tutti? Non so cosa vogliate dir con tutti, ma se io non ho combattuto con cinquanta di loro, sono un mazzo di radici. […]
PRINCE Pregate Iddio di non averne ucciso qualcuno.
FALSTAFF Che! Oramai le preghiere non giovan più. Ne ho cucinati due… due bricconi in abito di bucherarne [tessuto pregiato]. Io ti dico il vero, Rigo; se ti dico una bugia, sputami in faccia, chiamami rozza… io stavo così, e tenevo la punta in questo modo: quattro bricconi in bucherarne mi piombarono addosso.
PRINCE Come, quattro? Tu hai detto or ora soltanto due!
FALSTAFF Quattro, Rigo; ti ho detto quattro.
POINS Sì, SÌ, ha detto quattro.

FALSTAFF These four came all afront, and mainly trust at me. I made me no more ado but took all their seven points in my targets, thus.
PRINCE Seven? Why; there were but four even now.
FALSTAFF In buckram.
POINS Ay four in buckram suits.
FALSTAFF Seven, by these hilts, or I am a villain else.
PRINCE (aside to Poins) Prithee, let him alone; we shall have more anon.
FALSTAFF Dost thou hear me, Hal?
PRINCE Ay, and mark thee too, Jack.
FALSTAFF Do so, for it is worth the listening to. These nine in buckram that I told thee of…
PRINCE SO, two more already.
FALSTAFF Their points being broken…
POINS Down fell I their hose .
FALSTAFF Began to give me ground; but I followed me close, came in foot and hand, and with a thought seven of the eleven I paid.
PRINCE O monstrous! Eleven buckram men grown out of two!

FALSTAFF Questi quattro venivano di fronte e puntavano con gran vigore contro di me. Io non mi scomposi per questo, ma presi le loro sette punte sul mio scudo, così.
PRINCE Sette? Ma se or ora non ce n’erano che quattro?
FALSTAFF In bucherarne.
POINS Sì, quattro in abiti di bucherarne.
FALSTAFF Sette, per quest’elsa! o io sono uno scellerato.
PRINCE (a Poins) Ti prego, lascialo dire… Tra poco ce ne saranno di più.
FALSTAFF Mi stai a sentire, Rigo?
PRINCE Sì, e sono anche tutto orecchi, Gianni.
FALSTAFF Fai bene… Questi nove in bucherarne, dei quali ti parlavo…
PRINCE Bene, già due di più.
FALSTAFF Essendosi spezzate le loro punte…
POINS Giù caddero le loro brache.
FALSTAFF Cominciarono a cedermi terreno; ma io li incalzai da presso, li attaccai a corpo e, rapido come il pensiero, sette degli undici ne servii.
PRINCE O mostruoso! Undici uomini in bucherarne scaturiti fuori da due!
(trad. M. Praz)

Plauto  e W. A. Mozart, Don Giovanni [1787]. Libretto di Lorenzo da Ponte

L’aria del Catalogo:

Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
un catalogo egli è che ho fatt’io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V’han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V’han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età.
Nella bionda egli ha l’usanza
Di lodar la gentilezza,
Nella bruna la costanza,
Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta,
Vuol d’estate la magrotta;
È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca – se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella;
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.

 

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Il teatro romano: origini e forme

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Fabula Fabulae: il sito curato dalla prof. Orrù e dai suoi studenti, dedicato alla commedia latina. CLICCA QUI.

Nubicuculia:  il sito curato dalla prof. Orrù e dai suoi studenti, dedicato alla commedia greca. CLICCA QUI.

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