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Pagine d’ombra

V. Van Gogh, Autoritratto sulla strada di Tarascon, 1888 (distrutto durante la seconda Guerra Mondiale)

“…e io facea con l’ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt’ombre, andando, poner mente.
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me: e cominciarsi
a dir: ‘Colui non par corpo fittizio’.”
Dante, Purgatorio, XXVI,   vv.7-13

Non rifugiarti nell’ombra
di quel folto di verzura
come il falchetto che strapiomba
fumineo nella caldura.
È ora di lasciare il canneto
stento che pare s’addorma
e di guardare le forme
della vita che si sgretola.
Ci muoviamo in un pulviscolo
madreperlaceo che vibra
in un barbaglio che invischia
gli occhi e un poco ci sfibra.
Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde
che impigra in quest’ora di disagio
non buttiamo già in un gorgo senza fondo
le nostre vite randage.
Come quella chiostra di rupi
che sembra sfilacciarsi
in ragnatele di nubi
tali i nostri animi arsi
in cui l’illusione brucia
un fuoco pieno di cenere
si perdono nel sereno
di una certezza: la luce.

E. Montale, Non rifugiarti nell’ombra, in Ossi di seppia, 1925

Glenn Ligon, Untitled (I Sell the Shadow to Support the Substance) 2005, neon sign and paint, Courtesy of Rubell Family Collection, Miami

Maurizio Ferraris, Ogni ombra è illuminata, “La Repubblica”, 25 novembre 2017

Cercare un po’ d’ombra in una giornata calda sembra uno dei pochi valori positivi di questa compagna che non ci abbandona mai, almeno fino a che c’è un po’ di luce. Per il resto, è illusione, come nelle ombre cinesi che rappresentano gli inganni cui sono soggetti gli umani nella Repubblica di Platone, mancanza (della luce, e della cosa che proietta l’ombra), difetto: «siamo un’ombra profonda», diceva Giordano Bruno, e non era un complimento. La presenza dell’ombra in pittura, tuttavia, non è ovvia. Per quanto il termine skiagraphia, pittura con l’ombra, sia greco e si trovi, per esempio, in Platone, non si è riusciti mai a capire che cosa designasse esattamente: un chiaroscuro, una pittura fortemente effettistica, una sorta di stile divisionistico. Sta di fatto che la pittura greca, e in generale quella antica, usa l’ombra con parsimonia, soprattutto quando si tratta dell’ombra portata, quella che una cosa proietta fuori di sé.
Senza dimenticare poi che, in tutte le tradizioni pittoriche in cui prevale la bidimensionalità (la pittura vascolare greca, la pittura egizia, quella cinese, i fumetti), non c’è traccia neppure dell’ombra propria, quella che una cosa proietta su di sé. Però, imparare a guardare le opere partendo dall’ombra è un consiglio che mi sentirei di dare a chiunque. Avremmo infatti non dico un mondo capovolto, ma uno sguardo straniato e illuminante.
Di qui l’importanza del saggio di Ernst Gombrich Ombre. La rappresentazione dell’ombra portata nell’arte occidentale (Einaudi, con una introduzione di John Penny) che accompagnava una mostra alla National Gallery di Londra del 1995, è circoscritta al patrimonio del museo, eppure basta a illustrare le potenzialità e i capovolgimenti che vengono apportati dall’ombra. Le ombre naturali dell’alba e del tramonto nei paesaggi, quelle soprannaturali di Goya, quelle surreali di Pontormo e di de Chirico, quelle indisciplinate di Picasso. E ovviamente le ombre che prevalgono sulla luce, come avviene nei notturni, e nell’esperienza umana ordinaria sino all’invenzione della luce elettrica. Tra le funzioni essenziali dell’ombra, osserva Gombrich, la principale è proprio quella di valorizzare la luce. Restringendosi al patrimonio della National Gallery, l’analisi di Gombrich non può includere il quadro in cui questo principio è realizzato nella forma più alta, La veduta di Delft di Vermeer. Il cielo irregolarmente rannuvolato (una materia affine all’ombra) lascia passare la luce selettivamente. La città si riflette (altra quasi-ombra) nell’acqua, ed è immersa nella penombra. Su questo sfondo opaco si stagliano pochi edifici che sono colpiti in pieno dal sole e, su tutti, a destra, una piccola ala di muro giallo.
Sappiamo l’importanza che questo petit pan de mur jaune riveste nella Recherche di Proust, visto che rappresenta l’azione salvifica dell’arte. Bergotte, lo scrittore, uno dei tanti alter ego del Narratore, che muore felice notando per la prima volta quel giallo emergente dall’ombra.
L’episodio proustiano ci porta a un secondo significato dell’ombra, non solo come mancanza della luce, ma come mancanza della vita, che sta al centro dei poemi in prosa e in poesia di Jorge Luis Borges, l’Elogio dell’ombra (a cura di Tommaso Scarano, Adelphi), pubblicato a settant’anni. Borges vivrà quasi altri due decenni, ma l’ombra attraversa questi scritti in almeno due sensi. Il primo è quello della cecità: Borges era cieco in modo definitivo dal 1955.
Il possibile sottotitolo sarebbe “memorie di un cieco”, il titolo che Derrida diede al suo libro sull’autoritratto. Il cieco a cui Dio (scrive Borges in una poesia non compresa in questa raccolta) ha fatto il dono ambiguo di una massa sterminata di libri e della cecità. Dunque il cieco che tocca e annusa i libri, che li ricorda, che se li fa leggere, ma che non potrà mai più leggerseli da sé. Il secondo è quello della morte. Una lunga tradizione stoica, che si ritrova in Montaigne e a cui aderisce Borges, vuole che imparare a vivere consista nell’imparare a morire.
Ma non sfugge a nessuno l’intrinseca difficoltà di una simile impresa. Ora, Borges suggerisce che l’ombra ci insegni cosa sia la morte, e che proprio per questo va elogiata. Come spesso avviene in Borges, l’elogio sfiora a volte il concettismo, come nel ricordo di Ricardo Güiraldes, morto poco più che quarantenne nel 1927, e autore di Don Secundo Sombra (dunque l’ombra sta, per così dire, in ombra). Altre volte è del tutto esplicito, come in A un’ombra, 1940, in cui Borges prega per l’Inghilterra assediata e invoca l’ombra di De Quincey («mi senti, amico mio non visto, mi senti attraverso quelle cose insondabili che sono i mari e la morte?»).
Tutte le volte che un’ombra si allunga sulla terra, abbiamo un occasione per imparare, se non a morire, a capire che cosa significa, ed è per questo che nel poema conclusivo, che intitola la raccolta, Borges considera la cecità un addestramento alla morte: «Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora non sono tenebra». Ed è così che, in una biblioteca illeggibile, Borges propone, attraverso l’esperienza dell’ombra, la versione civile dello stoicismo militare che gli è accaduto spesso di cantare, come negli indimenticabili versi in memoria di Carlo XII di Svezia: «più solo del deserto ardi glaciale; non amasti nessuno e ora sei morto».

                                                                Peter Pan, Disney Studios, 1953

WILLIAM CHAPMAN SHARPE, What’s going on in the shadows? A visual arts timeline, 9 novembre 2017. CLICCA QUI.

Presentazione del saggio dello stesso autore  Grasping Shadows. The Dark Side of Literature, Painting, Photography, and Film, Oxford University Press, 2017

Whats in a shadow? Menace, seduction, or salvation? Immaterial but profound, shadows lurk everywhere in literature and the visual arts, signifying everything from the treachery of appearances to the unfathomable power of God. From Plato to Picasso, from Rembrandt to Welles and Warhol, from Lord of the Rings to the latest video game, shadows act as central players in the drama of Western culture.
Yet because they work silently, artistic shadows often slip unnoticed past audiences and critics. Conceived as an accessible introduction to this elusive phenomenon, Grasping Shadows is the first book that offers a general theory of how all shadows function in texts and visual media. Arguing that shadow images take shape within a common cultural field where visual and verbal meanings overlap, William Sharpe ranges widely among classic and modern works, revealing the key motifs that link apparently disparate works such as those by Fra Angelico and James Joyce, Clementina Hawarden and Kara Walker, Charles Dickens and Kumi Yamashita.
Showing how real-world shadows have shaped the meanings of shadow imagery, Grasping Shadows guides the reader through the techniques used by writers and artists to represent shadows from the Renaissance onward. The last chapter traces how shadows impact the art of the modern city, from Renoir and Zola to film noir and projection systems that capture the shadows of passers-by on streets around the globe. Extending his analysis to contemporary street art, popular songs, billboards, and shadow-theatre, Sharpe demonstrates a practical way to grasp the dark side that looms all around us.

Frank Sinatra and Sammy Davis Jr, Me and My Shadow, 1962

 «Le ombre sono misteriose e inquietanti, e al tempo stesso sono un ausilio prezioso alla conoscenza. Questo libro vi mostrerà che l’ombra non è affatto una cattiva compagna di viaggio, sebbene a prima vista non ispiri molta fiducia. Ho scelto di raccontare una storia che descrive il dialogo ininterrotto che i terrestri hanno da millenni con il cielo. Mi sono stupito nel vedere quanti personaggi, noti e meno noti, da Eratostene a Galileo, dagli astronomi arabi ai matematici moderni, dai pittori greci a Leonardo, hanno fatto dell’ombra un’amica della conoscenza. Mi sono stupito nell’osservare come un concetto a prima vista senza grandi ambizioni potesse venir sfruttato in maniera tanto astuta. Le ombre sono meraviglie della mente. Si pensa di poter dire tutto quel che le riguarda in poche righe, ma a scrutarle attentamente, guardando dritto nel loro cuore di tenebra, si rivelano infinitamente complesse.»
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Jean-Baptiste Regnault, L’origine della pittura, 1785, Olio su tela, Musée National du Château, Versailles

Butade era un vasaio di Corinto. La figlia di Butade era innamorata di un giovane, che però doveva partire e lasciarla. Per perpetuare la sua presenza, la fanciulla, di notte, mentre lui dormiva, tratteggiò il contorno della sua ombra proiettata sul muro al lume di una lanterna. Su queste linee il padre impresse l’argilla, riproducendo i tratti del volto. Nacque il primo ritratto della storia.

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 151 

Roberto Casati, L’ombra. Conferenza – Associazione Nel

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Il ramo d’oro

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Joseph Mallord William Turner, “The Golden Bough”, 1834

Marino Niola, La magia del Ramo d’oro da Freud a Jim Morrison, “La Repubblica”, 17 novembre 2017

Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca. Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.

Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.

Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto — che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato — serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership.

La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.

Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù.

Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L‘amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasformandola in una landa arida e senza vita.

Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer. Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del secolo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata. L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.

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A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.

J. FRAZER, Il ramo d’oro, cap.1, Diana e Virbio

Chi non conosce il Ramo d’oro del Turner? La scena del quadro, tutta soffusa da quella aurea luminescenza d’immaginazione con cui la divina mente del Turner impregnava e trasfigurava i più begli aspetti della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di Nemi, circondato dai boschi, che gli antichi chiamavano «lo specchio di Diana». Chi ha veduto quell’acqua raccolta nel verde seno dei colli Albani, non potrà dimenticarla mai più. I due caratteristici villaggi italiani che dormono sulle sue rive e il palazzo ugualmente italiano i cui giardini a terrazzo digradano rapidamente giù verso il lago, rompono appena l’immobilità e la solitudine della scena. Diana stessa potrebbe ancora indugiarsi sulle deserte sponde o errare per quei boschi selvaggi.
Nei tempi antichi questo paesaggio silvano era la scena di una strana e ricorrente tragedia. Sulla sponda settentrionale del lago, proprio sotto gli scoscesi dirupi su cui si annida il moderno villaggio di Nemi, si ergeva il sacro bosco e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del bosco. Il lago e il bosco erano spesso conosciuti come il lago e il bosco di Aricia. Ma la città di Aricia (l’attuale Ariccia) era situata più di tre miglia lontano, ai piedi del monte Albano, separata per mezzo di un’aspra pendice dal lago che giace in un piccolo cratere sul costone della montagna. In questo bosco sacro cresceva un albero intorno a cui, in ogni momento del giorno, e probabilmente anche a notte inoltrata, si poteva vedere aggirarsi una truce figura. Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno come se temesse a ogni istante di essere assalito da qualche nemico. Quest’uomo era un sacerdote e un omicida; e quegli da cui si guardava doveva prima o poi trucidarlo e ottenere il sacerdozio in sua vece. Era questa la regola del santuario. Un candidato al sacerdozio poteva prenderne l’ufficio uccidendo il sacerdote, e avendolo ucciso, restava in carica finché non fosse stato ucciso a sua volta da uno più forte o più astuto di lui.

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Virgilio, Eneide, VI, vv.125 – 159 (traduzione di Vittorio Sermonti, Milano, Rizzoli, 2008)

[…]“Nato dal sangue di dèi,
troiano figlio di Anchise, è facile la discesa all’Averno:
notte e giorno è aperta la porta del tetro Dite;
ma tornare sui propri passi e riaffiorar sotto il cielo,
questa è l’impresa, questa la fatica. Pochi figli di dèi,
130 prediletti dall’equo Giove o assunti al cielo dal fuoco
del loro valore, l’hanno ottenuto. Nel mezzo non c’è
che bosco, e il Cocito lo circuisce di cupi meandri.
Ma se desideri, se brami tanto di guadare due volte
la palude stigia, vedere due volte il nero Tartaro,
135 e vuoi prestarti a una fatica insensata, ascolta
cosa va fatto prima. Si nasconde nel folto d’un albero
un ramo dalle foglie e dal tenero stelo d’oro,
sacro a Giunone inferna: tutto il bosco lo scherma,
e lo riparano le ombre delle buie convalli. Ma
140 non è dato discendere nei segreti della terra, prima
d’aver colto dall’albero la frasca chiomata d’oro.
L’omaggio di questo tributo pretende la bella Proserpina:
spiccato il primo, ne spunta un altro, d’oro, e la verga
si veste di foglie dello stesso metallo. Perciò tu esplora
145 nel folto e, una volta trovato, staccalo con la tua mano
come vuole il rito. Da sé verrà via docilmente
se il fato ti chiama: altrimenti, forza in grado di vincerlo
non si da, non si da durissimo ferro che possa troncarlo.
Di più, il corpo d’un tuo amico giace disanimato (ah,
150 che lo ignori…) e luttuosamente contamina tutta la flotta,
mentre tu chiedi responsi impalato sulla mia soglia.
Rendilo alle sedi dovute, compònilo nel sepolcro!
Porta vittime nere: saranno la prima espiazione.
Così finalmente vedrai i boschi di Stige ed i regni
155 impervii ai vivi”. Disse, e ammutolì serrando le labbra.
Enea, tristissimo in viso, gli occhi sgranati, abbandona
l’antro, e cammina dipanando nel chiuso del cuore
l’oscurità degli eventi. Gli si accompagna il fedele
Acate, passo passo, afflitto dagli stessi pensieri.
[…]
Si va nella vecchia foresta, cupo covile di belve;
180 crollano i pini, i lecci suonano sotto le accette,
coi cunei si spaccano tronchi di frassino e roveri
fibrosi, orni giganti rotolano dalla montagna.
Primo in quelle faticose mansioni, dotato dei medesimi
attrezzi, Enea non manca di incitare i compagni;
185 e intanto, guardando l’immenso bosco, rimugina questo
nel cuore suo triste, e gli vien fatto di pregare così:
“Ah, scoprissi adesso su un albero di così immensa
foresta il ramo d’oro!… ché la veggente di te,
Miseno, ha detto tutto il vero (fin troppo ne ha detto!)”.
190 Non ha finito di pregare, che sotto i suoi occhi, così,
una coppia di colombi venuta a volo dal cielo
si posa sul verde del prato. Allora il magnanimo eroe
riconosce gli uccelli materni, ed esultante li supplica:
“Guidatemi voi, e, se c’è una via, orientate per l’aria
195 il volo nei boschi, là dove il ramo prezioso ombreggia
la fertile terra. E tu non abbandonarmi nell’indecisione,
dea madre!”. Ciò detto trattiene il passo, scrutando
che segni diano i colombi, in che direzione si orientino.
Quelli, beccando qua e là, svolazzano via, ma non
200 tanto che a chi li segue succeda di perderli d’occhio.
Poi, nonappena raggiunte le bocche del fetido Averno,
impennano il volo, e planando per la trasparenza dell’aria,
si posano nel luogo sperato sull’albero ambiguo, di dove
s’irradiava isolata fra i rami l’aura dell’oro.
205 Come col freddo d’inverno nei boschi prolifera il vischio
di frasche strane, dacché non germoglia da seme proprio,
e i tronchi torniti avvolge di bacche d’un pallido giallo,
così si distingue sul fosco del leccio quel frascheggiare
d’oro, così la lamella crepita al vento leggero.
210 D’impeto Enea la afferra, smanioso, e, per quanto rilutti,
strappa la frasca e la porta nell’abituro della Sibilla.

Dal cap.2, Re sacerdoti

Le domande a cui ci proponiamo di rispondere sono principalmente due. Perché a Nemi il sacerdote di Diana, il re del bosco, doveva uccidere il suo predecessore? E perché, prima di far ciò, doveva strappare il ramo di un certo albero che l’opinione degli antichi identificava come il ramo d’oro di Virgilio? […]

Robert Cozens, Nemisee mit der Stadt Genzano (Lago di Nemi, 1777 c.a), London

Fabio Dei, J. G. Frazer e le quattro edizioni del Golden Bough, (tratto e riadattato da La discesa agli inferi. J.G. Frazer e la cultura del Novecento, ed. Argo, 1998), Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, 2004

Il critico Lionel Trilling ha scritto una volta che Il ramo d’oro dovrebbe essere il punto di partenza di ogni studio della letteratura moderna, per l’ «effetto decisivo» che ha avuto su di essa. Almeno in relazione alla letteratura di lingua inglese, questa affermazione non è esagerata – ed è stata presa alla lettera, come vedremo, da alcuni orientamenti critici. Pochi libri hanno nutrito
l’immaginario artistico del Novecento come quello di Frazer. Fin dalle sue prime edizioni, Il ramo d’oro è circolato con straordinaria intensità nel mondo letterario, che lo ha usato come un inesauribile repertorio di idee, immagini e suggestioni. In particolare, ne sono stati influenzati in modo diffuso e profondo gli scrittori e gli artisti che hanno lavorato a ridosso della prima guerra mondiale – quelli che si è soliti accomunare sotto l’etichetta di «modernisti». Per questa generazione di intellettuali – da Eliot a Joyce, da Pound a Lawrence e molti altri – Frazer è stato oggetto di un interesse pari soltanto, forse, a quello suscitato dai lavori di Freud. Sia il metodo sia le tematiche frazeriane sono al centro dei loro interessi artistici e dei loro tentativi di costruire una rappresentazione dell’uomo e della civiltà contemporanea. Un ruolo centrale che è sancito dal celebre passo delle note apposte da T.S.Eliot al poemetto The Waste Land («La terra desolata», 1922), vero e proprio manifesto del modernismo, in cui Il ramo d’oro è definito «un’opera che ha influenzato profondamente la nostra generazione».

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Da M. BEARD, THE GOLDEN BOUGH, in CONFRONTING THE CLASSICS. Traditions, Adventures and Innovations, PROFILE BOOKS LTD, London 2013

‘He has changed the world – not as Mussolini has changed it, with coloured shirts and castor oil; not as Lenin has changed it, boldly emptying out the baby of the humanities with the filthy bath of Tsarism; nor as Hitler, with the fanfaronade of physical force. He has changed it by altering the chemical composition of the cultural air that all men breathe.’
The cultural revolutionary celebrated here (unlikely as it must now seem) is Sir James Frazer, extravagantly written up over half a page in the News Chronicle of 27 January 1937. The article – under the title ‘He discovered why you believe what you do’ – certainly does not stint its praises of the grand old man, then in his eighties. Later on in the piece Frazer is portrayed as a hero-explorer of time and space, ‘at home in the Polynesia of a thousand years BC or the frozen north before even the Vikings had touched its shore’. And he ends up compared (to his own advantage, once more) with one of the most romantic of British heroes: ‘this quiet sedentary student has a mind similar to the body of Sir Francis Drake, ranging distant countries and bringing back their treasures for his own kind.’

The Golden Bough: Detail

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About T.S. Eliot

“Tradition … cannot be inherited… It involves, in the first place, the historical sense […] and the historical sense involves a perception, not only of the pastness of the past, but of its presence; the historical sense compels a man to write not merely with his own generation in his bones, but with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of his own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order. This historical sense, which is a sense of the timeless as well as of the temporal and of the timeless and of the temporal together, is what makes a writer traditional.”

“There is a great deal, in the writing of poetry, that must be conscious and deliberate. In fact, the bad poet is usually unconscious where he ought to be conscious, and conscious where he ought to be unconscious. Both errors tend to make him ‘personal’. Poetry is not a turning loose of emotion, but an escape from emotion; it is not the expression of personality, but an escape from personality. But, of course, only those who have personality and emotions know what it is to want to escape from these things.”

“The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an ‘objective correlative’; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked.”

T. S. ELIOT, Tradition and the Individual Talent, 1919

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T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale, poi in Il bosco sacro, 1920

Bisogna in ogni caso insistere sul fatto che il poeta deve sviluppare o acquisire la coscienza del passato e continuare a svilupparla per tutta la sua carriera. Ciò facendo, il poeta procede a una continua rinuncia al proprio essere presente, in cambio di qualcosa di più prezioso. La carriera di un artista è un continuo autosacrificio, una continua estinzione della personalità.
Resta da definire questo processo di spersonalizzazione e il suo rapporto con la coscienza di appartenere a una tradizione. In questo processo di spersonalizzazione si può dire che l’arte si avvicina alla condizione della scienza. Vi inviterò perciò a considerare questo esempio suggestivo: la reazione cioè che si verifica quando si introduce un pezzetto di sottile filo di platino in un ambiente contenente ossigeno e biossido di zolfo. […] L’esempio era quello del catalizzatore. Quando i due gas che ho menzionato vengono mescolati alla presenza di un filamento di platino, essi formano dell’acido solforico. La combinazione si verifica solo in presenza del platino, e ciononostante nell’acido che si è formato non c’è traccia di platino, né il filamento risulta toccato dal processo; è rimasto inerte, neutrale, immutato. La mente del poeta è il filo di platino. Essa può agire parzialmente o esclusivamente sull’esperienza personale di quell’uomo, eppure, quanto più perfetto è l’artista, tanto più rigorosamente separati resteranno in lui l’uomo che soffre e la mente che crea, tanto più perfettamente la mente assimilerà e trasmuterà le passioni che sono il suo materiale. [… ]

T. S. Eliot, Amleto e i suoi problemi [1919], poi in Il bosco sacro, 1920
“Il solo modo di esprimere emozioni in forma d’arte è di scoprire un «correlativo oggettivo»; in altri termini una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula di quella emozione particolare; tali che quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensibile, siano dati, venga immediatamente evocata l’emozione”.

ELIOT legge The Waste Land, 1922

THE HOLLOW MEN, 1925

A penny for the Old Guy

I

We are the hollow men
We are the stuffed men
Leaning together
Headpiece filled with straw. Alas!
Our dried voices, when
We whisper together
Are quiet and meaningless
As wind in dry grass
Or rats’ feet over broken glass
In our dry cellar

Shape without form, shade without colour,
Paralysed force, gesture without motion;

Those who have crossed
With direct eyes, to death’s other Kingdom
Remember us – if at all – not as lost
Violent souls, but only
As the hollow men
The stuffed men.

II

Eyes I dare not meet in dreams
In death’s dream kingdom
These do not appear:
There, the eyes are
Sunlight on a broken column
There, is a tree swinging
And voices are
In the wind’s singing
More distant and more solemn
Than a fading star.

Let me be no nearer
In death’s dream kingdom
Let me also wear
Such deliberate disguises
Rat’s coat, crowskin, crossed staves
In a field
Behaving as the wind behaves
No nearer –

Not that final meeting
In the twilight kingdom

III

This is the dead land
This is cactus land
Here the stone images
Are raised, here they receive
The supplication of a dead man’s hand
Under the twinkle of a fading star.

Is it like this
In death’s other kingdom
Waking alone
At the hour when we are
Trembling with tenderness
Lips that would kiss
Form prayers to broken stone.

IV

The eyes are not here
There are no eyes here
In this valley of dying stars
In this hollow valley
This broken jaw of our lost kingdoms
In this last of meeting places
We grope together
And avoid speech
Gathered on this beach of the tumid river

Sightless, unless
The eyes reappear
As the perpetual star
Multifoliate rose
Of death’s twilight kingdom
The hope only
Of empty men.

V

Here we go round the prickly pear
Prickly pear prickly pear
Here we go round the prickly pear
At five o’clock in the morning.
Between the idea
And the reality
Between the motion
And the act
Falls the Shadow
For Thine is the Kingdom
Between the conception
And the creation
Between the emotion
And the response
Falls the Shadow
Life is very long
Between the desire
And the spasm
Between the potency
And the existence
Between the essence
And the descent
Falls the Shadow
For Thine is the Kingdom
For Thine is
Life is
For Thine is the

This is the way the world ends
This is the way the world ends
This is the way the world ends
Not with a bang but a whimper.

GLI UOMINI VUOTI
– Un centesimo per il vecchio Guy

Noi siamo gli uomini vuoti
Noi siamo gli uomini impagliati
Che si appoggiano l’uno sull’altro
Le teste imbottite di paglia. Ohimè!
Le nostre voci aride, quando
Sussurriamo insieme
Sono quiete e senza significato
Come vento nell’erba asciutta
O le zampe dei topi sopra il vetro rotto
Nelle nostra arida cantina

Sagoma senza forma, ombra senza colore,
Forza paralizzata, gesto senza movimento;

Quelli che hanno attraversato
Con occhi diretti, l’altro regno di morte
Ci ricordano –almeno – non come perdute
Anime violente, ma soltanto
Come uomini vuoti
Gli uomini impagliati.

II

Occhi che non oso incontrare nei sogni
Nel regno di sogno della morte
Questi non appaiono.
Lì gli occhi sono
Luce del sole su una colonna infranta
Lì, vi è un albero che oscilla
E vi sono voci
Che cantano nel vento
Più distanti e più solenni
Di una stella che si dilegua.

Fa che io non sia più vicino
Nel regno di sogno della morte
Fa che io indossi
Travestimenti scelti come un
Cappotto di topo, pelle di corvo, doghe incrociate
In un campo
Comportandomi come si comporta il vento
Non più vicino.

Non quell’incontro finale
Nel regno del crepuscolo

III

Questa é la terra morta
Questa è la terra del cactus
Qui immagini di pietra
Sono erette, qui ricevono
La supplica della mano di un morto
Sotto lo scintillio di una stella che si dilegua.
E’ così
Nell’altro regno di morte
Ci si risveglia da soli
Nell’ora in cui stiamo
Tremando di tenerezza
Labbra che vorrebbero baciare
Pregano la pietra infranta.

IV

Gli occhi non sono qui
Qui non ci sono occhi
In questa valle di stelle morenti
In questa valle vuota
Questa mascella rotta dei nostri perduti regni
In questo ultimo dei luoghi d’incontro
Noi brancoliamo insieme
Ed evitiamo di parlare
Riuniti in questa spiaggia del tumido fiume

Senza vista, se non per
Occhi che riappaiono
Come la stella perpetua
Rosa dalle molte foglie
Del crepuscolare regno della morte
La speranza soltanto
Degli uomini vuoti

V
Qui noi giriamo attorno al fico d’India
Fico d’India fico d’India
Qui giriamo attorno al fico d’India
Alle cinque del mattino.

Tra l’idea
E la realtà
Tra il movimento
E l’atto
Cade l’Ombra
Perché Tuo è il Regno

Tra il concetto
E la creazione
Tra l’emozione
E la risposta
Cade l’ombra.

La vita é molto lunga.

Tra il desiderio
E lo spasmo
Tra la potenza
E l’esistenza
Tra l’essenza
E la discesa
Cade l’Ombra

Perché Tuo è il Regno
Perché Tuo è
La vita è
Perché Tuo è

Questo è il modo in cui finisce il mondo
Questo è il modo in cui finisce il mondo
Questo è il modo in cui finisce il mondo
Non con uno scoppio ma con un piagnucolio.

Marlon Brando in “Apocalypse now redux” recita The hollow men (versione integrale )

ALBERTO ARBASINO, Che bello Eliot se lo riscrive Ezra Pound, “La Repubblica”, 17 maggio 2016

L’avventurosa storia di “The Waste Land” leggendario poema tagliato e ricucito

Mezzo secolo dopo la pubblicazione, “The Waste Land” di T. S. Eliot rimane “il” poema leggendario del nostro Novecento, e delle sue varie disillusioni. Ma ugualmente leggendaria appare la storia del suo manoscritto. Si è sempre saputo che il giovane Eliot, autore molto più strapieno di citazioni, e dunque «proliferante a caotico», prossimo a qualche forma di depressione o esaurimento nervoso, lo affidò al «miglior fabbro», Ezra Pound che definendosi, piuttosto, «levatrice», ancora a Venezia alla fine degli anni Sessanta, ne sforbiciò e corresse interi brani. Così “The Waste Land” resta dedicato a Pound.

Ma non si era mai visto il manoscritto. Né si era mai potuto controllare la misura delle correzioni di Pound. Parecchie questioni hanno dunque assillato per decenni gli studiosi e i fans. Perché si era affidato alle cure di Pound? Su che strutture e passaggi si basava la prima versione? E dove è finito il manoscritto originale?
Un intervistatore interrogò in proposito Eliot stesso.
Rispose il poeta: «Pound mi ha tagliato varie poesie. Era un critico mirabile, non cercava di trasformarvi in una sua imitazione. Cercava di vedere cosa tentavate di fare voi».
Che tagli ha fatto? «Intere sezioni. Ce n’era una lunga su un naufragio. Non so cosa c’entrava col resto, ma era abbastanza ispirata dal canto di Ulisse nell’Inferno. Un’altra era un’imitazione del Ricciolo rapito di Pope…».
Pound disse: «È inutile cercare di rifare qualcosa che altri hanno già fatto nel migliore dei modi. Fate qualcosa di diverso. Però i tagli non hanno mutato la struttura intellettuale del poema. Credo fosse altrettanto privo di struttura nella versione più lunga. Soltanto in maniera più futile».
E il manoscritto? « Non chiedetelo a me, è un mistero irrisolto. Io lo vendetti a John Quinn, e gli diedi anche un album di poesie inedite, perché era stato gentile con me in diversi affari. Morì, e i miei scritti non riapparvero all’asta dei suoi averi ».
***
John Quinn era un ricco avvocato bibliofilo newyorkese che possedeva quasi tutti i manoscritti di Joseph Conrad e anche un grosso pezzo dell’Ulysses di Joyce. Aiutò Eliot a pubblicare The Waste Land sulla rivista artistica The Dial, nel 1922. E quindi, a vincere l’annuale premio di duemila dollari bandito dalla rivista stessa. (Toccato l’anno prima a Sherwood Anderson).
Però Quinn morì due anni dopo. Le sue carte non disperse all’asta andarono a sua sorella. E solo trent’anni più tardi la figlia di questa scoperse il manoscritto dimenticato di The Waste Land.
Nel 1958 lo vendette per diciottomila dollari alla Public Library di New York. Ma per qualche albagìa dei bibliotecari l’atto fu talmente privato che non lo vennero a sapere né Eliot né Pound. E la vedova di Eliot ne fu informata soltanto dieci anni dopo.
Allora decise di curarne la pubblicazione in facsimile, immediatamente salutata come evento capitale nella storia letteraria del Novecento.
Il giovane Eliot somiglia a Gérard Philipe, nelle fotografie. I suoi parenti erano facoltosi e severi notabili del Massachusetts trapiantati a St Louis per fabbricare mattoni, ma con vacanze estive sulla costa del New England. I suoi studi a Harvard furono per lo più filosofici (con tesi su «conoscenza ed esperienza secondo F. H. Bradley»). Il suo amico migliore fu Jean Verdenal, conosciuto alla Sorbona durante il primo viaggio a Parigi, nel 1910, e «morto per acqua» a Gallipoli nel ’17.
Ma l’influenza decisiva e confessata fu soprattutto Laforgue, con la disinvoltura delle banalità colloquiali, e il rifiuto d’ogni indiscrezione sui sentimenti. Finalmente Pound, nel ’14, in un fitto giro di presentazioni, lo infila nella Londra letteraria cominciando dall’avanguardia vorticista, e arrivando presto al composto chic del pre-Bloomsbury.
Lei era più spiritosa e intelligente del marito, elegantissima, esageratamente isterica, sempre in crisi del tipo tormentoso. Perché si sposarono di nascosto? Avevano ventisei anni, neanche un soldo, e la famiglia Eliot non perdonò mai. E perché T. S. buttò via la carriera accademica a cui si era studiosamente preparato per nove anni? Questo matrimonio doloroso, che ne durò un ventina, rimane un insolubile mistero, un dramma continuo,un enigma irrisolto.
T. S. E. insegnava in diverse scuole e collegi. (Peccato non averlo saputo in tempo). Entrò alla Lloyds Bank l’anno dopo, con l’incarico di controllare i vari debiti prebellici tedeschi e francesi. In seguito, pubblicò per anni (a seicento sterline l’anno) il bollettino degli estratti della stampa estera, in un seminterrato col naso al livello del marciapiede, però passando le sere con Virginia Woolf o Edmund Gosse, con Katherine Mansfield e Osbert Sitwell, e i weekends della celebre Lady Ottoline Norrell, altra “relazione” dell’instancabile Russell. Ma oltre alle poesie per le riviste The Egoist scriveva ancora parecchi articoli su temi filosofici. Vivienne andava a ballare, e diventò presto – così dicono – pazza.
T. S. la lasciò così: partendo nel ’32 per Harvard, a tenere un corso, marito e moglie salirono su un taxi per la stazione, seguiti da un altro taxi con due cognati e il bagaglio. Lei aveva molto insistito per seguirlo in America. Lui aveva sempre detto di no. Per strada, T. S. si accorge che Vivienne aveva chiuso nel bagno i suoi appunti, e manda indietro i parenti a sfondare la porta per recuperarli. Poi tutti insieme fino a Southampton, con abbracci sulla nave. Non appena in America, Eliot incaricò un avvocato di liquidare Vivienne, e non la vide mai più, se non a una sua conferenza, dove lei si presentò con un cartello «ecco la moglie abbandonata».
È curioso che lo stesso comportamento venisse ripetuto molti anni dopo, in circostanze formalmente analoghe. Eliot aveva un successo crescente: Lady Rothermere, moglie di un «magnate della stampa », aveva finanziato la sua rivista Criterion, che fu rilevata da Geoffrey Faber nel ’25, organizzando la nuova casa editrice di cui Eliot diventò dirigente; ma il celebre poeta viveva in bizzarre case. Prima, un cottage campestre presso una famiglia amica con tanti bambini. Poi, il pensionato di un ex-vescovo militare con tanti gatti. Quindi, si trasferì per cinque o sei anni nella chiesa di St. Stephen presso il vicario che gli era amico. Durante la guerra, in villa, nel Surrey, ospite di una ricca signora amica del signor Simpson, marito della duchessa di Windsor. E infine, per dodici anni, abitò a Cheyne Walk, la stradina più deliziosa di Chelsea, in casa di John Hayward, un bibliofilo poliomielitico e spiritosissimo.
Qui pagava una piccola retta, ma avevano il salotto in comune. E di qui, Eliot si allontanò una mattina del 1957, per andare a sposarsi di nuovo. Senza dir niente a John Hayward, né tornare indietro. Come avrà fatto con i bagagli, con le valigie? Solo la governante francese intuì qualcosa, sentendosi dire «Adieu Madame». «Mais, Monsieur, pourquoi m’avez- vous dit adieu?». Eliot batté i tacchi, e lasciò la casa.
Sentenzia Cyril Connolly: «I versi del naufragio guadagnano enormemente venendo isolati. Anche sui molti suggerimenti verbali e piccole cancellature di Pound si può emettere un solo verdetto: sono quasi tutti miglioramenti». Concorda Wilson: «Fra Pound ed Eliot sono riusciti a concentrare un’intensità di immagini e di sentimenti che non si riscontra affatto nella prima versione, dove non appare in evidenza nessuna brillantezza del lavoro compiuto».
Le conclusioni sembrano concordi. Le parti tagliate risultano scadenti, a un livello praticamente vergognoso, per un poeta come Eliot. Edmund Wilson si dichiara «sbalordito dalla loro mediocrità». E le geniali correzioni di Pound (sempre Wilson: «eseguite con gusto infallibile») figurano incredibilmente frettolose, come buttate là in pochi minuti…
Riserbo e reticenza giovano alle belle arti come all’arte politica. Tanto più quando alla tirchieria si somma il mistero. Benissimo ha dunque fatto T. S. Eliot, saggio topone, dopo un’intera esistenza impeccabilmente oscura, a scoraggiare per disposizione testamentaria qualunque tentativo di biografia “ufficiale”, vietando la consultazione delle carte in custodia alla vedova. Ma poco dunque incoraggiata, «per riempire un vuoto», l’attività degli abusivi, e la tentazione del “caso”.
Forse, rimembranza della sua giovinezza studentesca, intorno a Harvard? O invece, pericolosamente simile a troppe analoghe situazioni nell’Ulysses di Joyce? Fu interamente omesso da Eliot medesimo. In quanto alla parodia di Pope, si tratta della mattinata di una dama Fresca che fa toilette, ma questa toilette l’hanno fatta meglio Pope e Joyce e magari Swift, avverte Pound. Con insofferenza, davanti a versi come «lasciando la ribollente bevanda a raffreddarsi – Fresca scivola morbidamente al seggio dei bisogni»…
Un esame ravvicinato può fornire sorprese. A cominciare dal titolo. Originariamente era «Egli rifà la polizia con voci differenti», tratto da una frase nel Nostro comune amico di Charles Dickens, dove si accenna a un personaggio che legge il giornale in modo così divertente, perché imita i poliziotti con voci diverse. Eliot tentava un collage di diversi “parlati” anglo-irlandesi-americani in un episodio-conversazione iniziale tra un pub e un bordello.
Le correzioni di Pound sono continue: via tre vocaboli banali di qui! Sostituirne due troppo ricercati di là! … In quanto al naufragio, il taglio quasi totale dell’episodio marino lascia soltanto gli otto versi di «Morte per acqua», sezione infatti così breve che Eliot avrebbe preferito eliminare anche il pezzettino superstite.
Però Pound suggerì di tenerlo, così come consigliò di lasciare intatte le parti finali, cioè le migliori («di qui in avanti, va bene») mentre estromise tutte le brevi poesie semischerzose che Eliot aveva collocato qua e là come intermezzi, e che poi recupererà fra i componimenti occasionali. E qui, Cyril Connolly: «I versi del naufragio guadagnano enormemente, venendo isolati. Sono quasi tutti miglioramenti ».
Allora aveva ragione Pound, di rinviare il tutto a Eliot, con un biglietto anglo-italiano: «Complimenti, brutta troia. Adesso mi sento devastato da sette gelosie».
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Thomas Stearns Eliot, Viaggio nella grande bellezza
Esce da Morcelliana, nella serie “Parola dell’Arte”, un inedito taccuino di appunti dell’estate 1911 di Thomas S. Eliot. Tradotte
e trascritte da Nadia Ramera, introdotte da Marco Roncalli, tali pagine contengono le note che un giovane Eliot, allora studente alla Sorbona, scrisse del suo “Viaggio in Italia”. Visita Verona, Vicenza, Venezia, Murano, Padova, Ferrara, Bologna, Modena, Parma, Milano, Pavia e chiude il tour a Bergamo. Anticipiamo qui alcuni stralci, per concessione di Morcelliana, di quel viaggio.
Vicenza
Giornata limpida. Per prima cosa sono andato a Monte Berico. Strada frequentata dagli abitanti (domenica), in parte fiancheggiata da un colonnato. Nota: la vista da vicino alla chiesa è ottima, sulla pianura da un lato e verso le Alpi dall’altro. Foschia blu e campane che rintoccano.
La strada conduce a un viottolo stretto, davvero splendido, tra alti muri di mattoni (lucertole e rosai) per Villa Valmarana. Villa e giardino sono affascinanti, ma Tiepolo è abbastanza una delusione. Alcune scene non sono prive di bellezza, ma le cineserie di altre sono sgradevoli.
La grande dimensione delle figure si ammassa sulle piccole stanze.
Mi sono sembrate inferiori ai suoi affreschi in colore e in eleganza.
Sembra che stia tentando qualcosa in uno stile pomposo e pesante da una parte (figure romane?) e dall’altra qualcosa di troppo allegro per il suo genio (figure della commedia italiana) e che venga battuto sul primo piano dai predecessori Italiani e sul secondo dai Francesi contemporanei.
La strada procede verso la Rotonda.
La Rotonda è su una collina e si alza anche un pendio dal cancello, così che l’edificio dal basso si vede da ogni lato. Grande bellezza
e anche bel giardino. La vista è splendida quasi come quella dalla chiesa e sembra più solennemente malinconica. L’edificio è del tutto
esente dalla freddezza della maggior parte delle strutture di modello classico così rigoroso. I colori sono squisiti: colonne con intonaco
grigio e bianco sui mattoni, gradini di marmo, statue di pietra accostate a una superficie meravigliosamente ruvida e color grigio
scuro e il tetto rosso (nota: eccellente combinazione con l’edificio classico). (……..).
Venezia
La Piazza non è così attraente come Piazza Erbe (o Piazza Vittorio Emanuele) a Verona. È grande e maestosa (suppongo), ma ha un aspetto stranamente pragmatico, commerciale.
Il suo effetto, perlomeno, è tutto nel primo momento,come quello del Canal Grande. San Marco, all’esterno, richiede uno sforzo
di immaginazione archeologica (ma uno sforzo che ripaga) per essere apprezzato. Inizialmente si è consapevoli piuttosto delle decorazioni gotiche della parte superiore e delle statue, della quadriga (una serie di cavalli particolarmente poco interessante) e dei mosaici restaurati del diciassettesimo secolo e di altre epoche. Ma San Marco impressiona rapidamente. L’opera è di primissimo ordine d’eccellenza – i bassorilievi dei santi, i capitelli, le estremità, le finestre e la composizione di pietra policroma. Ma qual era l’effetto originale, all’esterno, della cupola? Ora ricoperta da un tetto di stagno (?) indegno.
Nota all’esterno anche due pilastri greci quadrangolari. (……)
Murano
La chiesa è notevole, dentro e fuori; estremamente semplice. Le travi in legno, da colonna a colonna e lungo la navata, invece di dar fastidio all’occhio, attenuano la costruzione in mattoni. Il mosaico più importante è di primissima qualità e si vede meglio ora grazie all’irregolarità del piano – dossi e buche.
La Vergine orante è il mosaico più straordinario che io abbia visto; la Vergine più straordinaria e una delle più straordinarie espressioni religiose che io abbia visto ovunque.
Nota l’effetto di curva nell’abside, che piega la Vergine in avanti verso di te, aumentando l’evocazione della divinità. Colore di prim’ordine.
Padova
Sant’Antonio: è molto grande e spoglio, freddo, manca di sentimento. All’esterno c’è la statua di Gattamelata, che è quel che uno si
aspetta che sia, ma è in una posizione piuttosto sfavorevole all’ombra di questa enorme chiesa glaciale e in una piazza banale. La
chiesa non è meglio all’interno.
Notevole il monumento di Bembo di Sanmicheli, piuttosto bello; semplice e decoroso. Gli affreschi di Altichiero nel transetto destro
sono belli. Transenna del coro di Donatello. Altare maggiore, con begli angeli suonatori e dietro una Deposizione in terra cotta. Bel
giardino botanico.
Cappella dell’Arena o degli Scrovegni: La prima e ultima impresa di Giotto è sgradevole. La cappella comprende gli affreschi, ma gli affreschi non decorano la cappella. I colori, quando si considerano le immagini una a una, non sembrano male, ma in riferimento all’effetto complessivo sono cattivi, specialmente il blu dominante.
Le decorazioni tra gli affreschi sono brutte. Gli affreschi, in breve, non decorano; vogliono essere analizzati. Giotto è un grande narratore, anzi, un grande drammaturgo.
Nota specialmente: Fuga in Egitto – Resurrezione di Lazzaro. Poi Deposizione, Bacio di Giuda (bel colore). Battesimo (Simeone).
Visitazione. (……).
Modena
La Cattedrale è il modello più perfetto di chiesa lombarda che ho visto.
L’esterno è eccellente nel colore del marmo; sculture di prim’ordine: rilievi a riquadri nelle pareti e decorazioni dei bordi di finestre e porte.
Le sculture all’interno sono più tarde e inferiori. L’interno è in mattone di colore tenue, senza copertura (restauro). Tutti i portali sono splendidi, ma specialmente quello a nord. Uno è circondato da un fregio con i mesi dell’anno.
Ferrara
Cattedrale: è degna di interesse solo all’esterno: la facciata è ancora splendida, davvero uno dei più straordinari caratteri dello
stile lombardo, sebbene molte delle sculture e delle decorazioni siano troppo tarde. La parte più bassa del porticato rimane del
dodicesimo secolo. Leoni. Bei rilievi. Due grandi pitture a olio quadrate di Cosimo Tura, nel coro, potrebbero essere belle, ma
sono annerite e hanno lacune: non sono stato in grado di darne un giudizio. Bella la piazza di fronte alla cattedrale. (…….)
Bologna
Ha una piazza davvero splendida (Piazza Vittorio Emanuele e Piazza del Nettuno). Fontana nobile ma non di mio gusto. Il grande rilievo della Madonna (Palazzo Comunale) è davvero straordinario e un’opera di talento; senza dubbio contribuisce molto all’effetto complessivo della piazza. (…..)
San Petronio: enorme, incompiuto e tetro. Sebbene senza volere, contribuisce molto alla piazza in cui si trova. (……)
Santo Stefano: strana struttura di otto chiese. La migliore è la chiesa circolare, con una splendida disposizione decorativa dei mattoni
e la tomba di San Petronio con i simboli dei quattro Evangelisti. Vale la pena vedere i Chiostri, la Cripta non è interessante. (……)

Thomas Stearns Eliot, VIAGGIO IN ITALIA.Introduzione di Marco Roncalli, trascrizione e traduzione di Nadia Ramera, Morcelliana, Brescia, pagg. 144

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Da mi basia mille…

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CATULLUS, Liber, Carmen 5

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Leonard Cohen, A thousand kisses deep, da Ten new songs, 2001

And maybe I had miles to drive
And promises to keep
You ditch it all to stay alive
A thousand kisses deep
And sometimes when the night is slow
The wretched and the meek
We gather up our hearts and go
A thousand kisses deep…

CATULLUS, Liber, Carmen 7

Quaeris, quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
Quam magnus numerus Libyssae harenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis
oraclum Iovis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepuclrum;
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtivos hominum vident amores:
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.

v. 4; il «silfio», lasarpicium, era una pianta fortemente odorosa, che produceva un succo resinoso ed era usata in cucina e in medicina, vedi Plinio, Storia della natura, XIX), fino all’oracolo «del torrido Giove» (v. 5, Iovis… aestuosi, cioè il tempio del dio egiziano Ammone, identificato con Zeus-Giove, che si trovava nell’oasi di Siwah, al confine tra Libia ed Egitto) e alla tomba di Batto, collocata nella piazza di Cirene, di cui Batto era ritenuto il mitico fondatore (v. 6). Proprio quest’ultimo richiamo rende scoperto l’omaggio di Catullo a Callimaco, che era originario di Cirene e soprattutto si vantava di discendere da Batto (tale peraltro era anche il nome di suo padre): Catullo stesso in altri due carmi ricorda il poeta greco con il solo appellativo di «Battíade»  [Cipriani, Letteratura latina].

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Eva Cantarella, Dammi mille baci. Vere donne e veri uomini nell’antica Roma, Feltrinelli,  2009. Anteprima del libro: CLICCA QUI. DDAMMI MILLE BACI :

“Dammi mille baci,” chiede il poeta Catullo alla sua amatissima Lesbia, “e poi cento, e poi ancora altri mille…”: una delle poesie più celebri della letteratura latina. Una storia d’amore, quella tra Catullo e Lesbia, piena di passione, che – dopo uno, due, tre, forse mille tradimenti – si trasforma in disperazione e disprezzo. Una storia che fa pensare a un rapporto vissuto secondo i canoni più tradizionali, per non dire più scontati, dell’amore romantico.
Ma sarebbe sbagliato dedurre da questi versi che i romani fossero romantici. Se Catullo lo fu, in alcuni momenti della sua vita, e certamente in alcune poesie, lo fu a modo suo. O meglio, lo fu nel modo in cui poteva esserlo un romano: come parentesi – non importa quanto lunga, pur sempre una parentesi – all’interno di un rapporto vissuto, di regola, all’insegna di una sessualità prepotente, arrogante, per non dire, come vedremo, addirittura predatoria. E non solo nei confronti del sesso femminile, ma anche quando l’oggetto del desiderio non era, come accadeva spesso, una donna, bensì un ragazzo.
Lesbia, infatti, non è la sola persona amata cui il poeta veronese chiede mille baci. Con toni non meno romantici, ne chiede ben più di mille – e riesce a strapparne quanto meno uno – al giovane, bellissimo e dolce Giuvenzio, di cui fu per un certo periodo innamorato. Salvo poi, come nel caso di Lesbia, rimanere deluso, amareggiato dai suoi tradimenti, e minacciare i rivali di vendette, anche sessuali, tutt’altro che romantiche.
Nel dare inizio alla nostra ricognizione sull’amore a Roma, vediamo dunque di ricostruire queste due storie.

“Tu chiedi Lesbia del tuo baciarmi” 

La donna cantata da Catullo come Lesbia si chiamava, in realtà, Clodia. Sorella di Clodio, ex tribuno e capo di una banda che sosteneva con la violenza la politica dei popolari, e in particolare di Cesare, Clodia era molto bella. I suoi occhi erano così splendenti da meritarle l’appellativo di boopis, “grandi occhi” (letteralmente “occhi di giovenca”, che i greci consideravano un complimento), il soprannome della moglie di Zeus: l’equivalente greco di Giove, la cui moglie, a Roma, si chiamava Giunone.
Sposata a Quinto Cecilio Metello Celere, nel 61 a.C., a trentatré anni, Clodia incontra Catullo, di circa dieci anni più giovane. Nasce una passione che il poeta vive con tutta l’intensità della sua gioventù, a dare un’idea della quale niente di meglio del celebre, già citato carme dei mille baci.

Vita e amore a noi due Lesbia mia
e ogni acida censura di vecchi gettiamo via.
Il sole che muore rinascerà
ma questa nostra luce fuggitiva
una volta abbattuta, dormiremo
una totale notte senza fine.
Dammi baci cento baci mille baci
e ancora baci cento baci mille baci. 

A volte, è Lesbia a chiederli, a voler sapere da Catullo quanti basteranno a saziarlo:
Tu chiedi Lesbia del tuo baciarmi
la misura io fissi che mi colmi.
I granelli di sabbia d’Africa…
o le stelle che guardano infinite
nelle tacite notti i disperati
abbracci umani. Tu baciami
tanto che gli occhi avidi
delle lingue smaniose
di farci incanti non contino i tuoi baci:
Catullo avrà calmati i suoi deliri.

Ma alla passione si alternano freddezze, abbandoni, distacchi che a volte sembrano definitivi:

Oh pazzo, basta! Povero Catullo,
quel che è perduto è perduto.
I tuoi giorni di paradiso li hai avuti,
quando il tuo amore ti diceva vieni
tu ti precipitavi.
Così amata da te è stata lei
come nessuna da nessuno mai…
Ora non vuole più.
Debole cuore, non devi volere più
neanche tu. 

I proponimenti, però, non vengono mantenuti. Pur consapevole di quelli che definisce i crimini di Lesbia, Catullo continua ad amarla:

Per tua colpa mia Lesbia il mio cuore 
per frenesia di te così abbrutito 
così incupito si è che più non posso, 
fossi tu la migliore delle donne, 
perfettamente adorarti. 
Ma qualunque tu crimine compiessi 
seguiterei ad amarti. 
Non sappiamo in quale sequenza, si susseguono riconciliazioni, giuramenti, speranze. Quel che è certo è che Lesbia, chissà quante volte, dopo aver abbandonato Catullo torna da lui. Catullo la perdona, ma ormai il suo è un amore avvelenato:

Odio e amo.
Come sia non so dire,
ma tu mi vedi qui crocifisso
al mio odio ed amore. 

E dalla sua croce lancia contro l’infedele le invettive più terribili:

Si goda a lungo i suoi trecento amanti…
E non creda che io come altre volte
a lei ritorni più che mai suo…
È morto in me l’amore
.

…CONTINUA LA LETTURA DEL SAGGIO.  CLICCA QUI

Tutti i carmina del Liber catulliano in lingua latina e in traduzione italiana.

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… e ancora baci: R. FERRUCCI, Le cinque pagine memorabili della storia della letteratura: baci, “Corriere della Sera – La lettura”,  4  dicembre 2011

Antonio Canova, Amore e Psiche, 1788-1793. Marmo bianco

Louise Labé (1520 ? – 1566 ?), Baise m’encore, 1555

Baise m’encor, rebaise moy et baise :
Donne m’en un de tes plus savoureus,
Donne m’en un de tes plus amoureus :
Je t’en rendray quatre plus chaus que braise.

Las, te pleins tu ? ça que ce mal j’apaise,
En t’en donnant dix autres doucereus.
Ainsi meslans nos baisers tant heureus
Jouissons nous l’un de I’autre à notre aise.

Lors double vie à chacun en suivra.
Chacun en soy et son ami vivra.
Permets m’Amour penser quelque folie :

Tousjours suis mal, vivant discrettement,
Et ne me puis donner contentement,
Si hors de moy ne fay quelque saillie.

Baciami ancora, ribaciami e bacia:
dammene uno dei più saporosi,
dammene uno dei più amorosi,
te ne renderò quattro più ardenti che brace.
Ahimè, ti lamenti? Ma è un male che allevio,
donandotene altri dieci di quelli dolcissimi.
Così, intrecciando i tenerissimi baci,
l’un dell’altro l’altro in pien’agio godiamo.
Allora per entrambi seguirà raddoppiata la vita.
Ed ognuno nell’altro più che in se stesso vivrà.
Permettimi, Amore, qualche follia pensare:
quando rinchiudermi in me stessa è il male
nessuna gioia donare mi è concessa,
se fuor di me non mi posso liberare.
(Trad. Francesca Santucci)

Costantin Brancusi, Il bacio, 1907. Pietra, 28 cm. Muzeul de Arta

George Gordon Byron, To Ellen, 1807

Oh! might I kiss those eyes of fire,
A million scarce would quench desire:
Still would I steep my lips in bliss,
And dwell an age on every kiss;
Nor then my soul should sated be,
Still would I kiss and cling to thee:
Nought should my kiss from thine dissever;
Still would we kiss, and kiss for ever,
E’en though the numbers did exceed
The yellow harvest’s countless seed.
To part would be a vain endeavor:
Could I desist? — ah! never — never!

Oh potessi io baciare questi occhi di fuoco,
un milione a stento la brama colmerebbe.
Le mie labbra nell’ebbrezza immergerei,
che, ad ogni bacio, durerebbe un secolo.
Né l’anima mia sarebbe sazia;
ancora ti vorrei baciare, stringermi a te
e mai da te dovrebbero staccarsi i miei baci,
ma sempre baci e nuovi baci tra di noi;
e se il numero dovesse superare
persino gli infiniti grani delle bionde messi
e contarli fosse un desiderio vano,
potrei forse desistere? –ah! mai – mai.

Giovanni Prini, Gli amanti, 1909-1913, marmo

Fernando Pessoa, Como se cada beijo [Ricardo Reis, 1888-1935]

Como se cada beijo
Fora de despedida,
Minha Cloe, beijemo-nos, amando.
Talvez que já nos toque
No ombro a mão, que chama
À barca que não vem senão vazia;
E que no mesmo feixe
Ata o que mútuos fomos
E a alheia soma universal da vida.

Come se ogni bacio
fosse d’addio,
mia Cloe, baciamoci amando.
Che forse già si posa
sulla nostra spalla la mano che chiama
alla barca che non viene se non vuota;
e che in un solo fascio
lega ciò che l’uno per l’altra fummo
all’altrui somma universale della vita.

Nuovo Cinema Paradiso, regia di Giuseppe Tornatore, 1988

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“That’s the press, baby”

Deadline /  L’ultima minaccia, con Humphrey Bogart, regia di Richard Brooks, 1952

Gaetano Filangieri [giurista e illuminista napoletano], Scienza della legislazione (1780-5):
“Vi è un tribunale, che esiste in ciascheduna nazione, che è invisibile (…) ma che agisce di continuo, e che è più forte dei magistrati e delle leggi, de’ ministri e dei re (…) Questo tribunale, io dico, è quello della pubblica opinione” […] “La libertà, dunque, della stampa è di sua natura fondata sopra un dritto , che non si può né perdere né alienare finché si appartiene ad una società […], che la violenza distrugge, ma che la ragione e la giustizia difendono”.

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Quello che sono i libri stampati rispetto alla scrittura può quasi dirsi che lo siano i fogli periodici rispetto a’ libri stampati; e come questi tolsero dalle mani di pochi adepti le cognizioni, e le sparsero nel ceto dei coltivatori delle lettere, così i fogli le cognizioni medesime che circolano nel popolo studioso comunicano e diffondono nel popolo o travagliatore od ozioso. […]
Ma un foglio periodico, che ti si presenta come un amico che vuol quasi dirti una sola parola all’orecchio, e che or l’una or l’altra delle utili verità ti suggerisce non in massa, ma in dettaglio, e che or l’ uno or r altro errore della mente ti toglie quasi senza che te ne avveda, è per lo più il più ben accetto, il più ascoltato. La distanza che passa tra l’ autore di un libro, e chi lo legge, mortifica per lo più il nostro amor proprio, poiché il maggior numero non si crede capace di fare un libro; ma per un foglio periodico ognuno si crede abilità sufficiente, essendo poi sempre la mole e il numero i principali motori della stima volgare. Aggiungasi la facilità dell’ acquisto, il comodo trasporto, la brevità del tempo che si consuma nella lettura di esso, e vedrassi quanto maggiori vantaggi abbia con sé questo metodo d’instruire gli uomini, e per conseguenza con quanta attenzione e sollecitudine debba essere adoperato da’ veri filosofi, e quanto meriti di essere incoraggiato e promosso da chi brama il miglioramento della sua specie. Entrate in una adunanza ove siano libri e fogli periodici, troverete che ai primi si dà per lo più un’occhiata sprezzante e sdegnosa, ed ai secondi un’occhiata di curiosità che vi la leggere, e fa legger tutti gli altri; e come la circolazione del denaro è avvantaggiosa perché accresce il numero delle azioni degli uomini sulle cose, cosi la circolazione dei fogli periodici aumenta il numero delle azioni della mente umana, dalle quali dipende la perfezione delle idee e de’ costumi.                C. BECCARIA, De’ fogli periodici, “Il Caffè”, 1764

Ora, quando si pretende libertà di parola e di stampa non si sta chiedendo una libertà assoluta. Un qualche grado di censura deve sempre esistere, o almeno continuerà a esistere fintanto che ci saranno società organizzate. Ma la libertà, come ha detto Rosa Luxemburg, è «libertà per gli altri». È lo stesso principio contenuto nelle celebri parole di Voltaire: «Detesto ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo». Ammesso che la libertà intellettuale, che è senza dubbio uno dei segni distintivi della civiltà occidentale, abbia un significato, tale significato è che chiunque deve avere il diritto di dire o stampare ciò che ritiene vero, purché così facendo non danneggi inequivocabilmente il resto della comunità. […] Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire.                      George Orwell, La libertà di stampa, 1945

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, 1948

Art.19: «Everyone has the right to freedom of opinion and expression; this right includes freedom to hold opinions without interference and to seek, receive and impart information and ideas through any media and regardless of frontiers».

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PER APPROFONDIRE:

9788842081142

 

La nascita del giornalismo: VIDEO RAIMEDIA.

Il giornalismo d’inchiesta nei film: APPROFONDIMENTO.

Breve storia del fotogiornalismo: CLICCA QUI.

Cinema e giornalismo d’inchiesta: CLICCA QUI.

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O Fortuna velut luna…

“O Fortuna, dal folio 1r del manoscritto dei Carmina Burana. (Bayerische Staatsbibliothek Clm 4660). FONTE Wikipedia

Valorose donne, quanto più si parla de’ fatti della fortuna, tanto più, a chi vuole le sue cose ben riguardare, ne resta a poter dire: e di ciò niuno dee aver maraviglia, se discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei, secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa d’uno in altro e d’altro in uno successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate. Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata I, novella 3

Fortuna con ruota, miniatura da un codice dell’Epître d’Othéa di Christine de Pisan, seconda metà del XV sec., La Haye, Bibliothèque Meermanno, cod. KB74G2 (FONTE Engramma)

Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla. […] Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano. N. Machiavelli, Il Principe, XXV

Guido Reni, «La fortuna che reca in mano una corona», 1637, Collezione privata

Sabina Minardi, Una scommessa ci salverà, “L’Espresso”, 23 settembre 2010
Colloquio con Remo Bodei (professore di Filosofia presso la University of California, Los Angeles). Presentazione della lectio magistralis intitolata “Previsione e azzardo”(16 settembre 2010) tenuta al Festival della filosofia di Modena.

Professor Bodei, perché l’azzardo ci attrae così tanto?
“Perché richiama la fortuna. E la fortuna ci coinvolge già nascendo. Si nasce in un certo posto e in un certo tempo. Per tutta la vita siamo costretti a navigare su rotte non tracciate e ad affrontare l’incertezza. Ecco perché da sempre l’uomo ha elaborato strategie per prevedere il futuro: dalla lettura dei segni premonitori alla divinazione, fino, in età moderna, al calcolo”. (…)
Sta dicendo che l’azzardo è il destino della contemporaneità?
“Dico che il futuro è percepito in modo più incerto che in passato, che il caso gioca un ruolo forte, e che tutto ciò porta gli individui a rischiare di più. Si sta realizzando quanto diceva John Maynard Keynes: che “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Sono state inattese la caduta del muro di Berlino, le guerre nella ex Jugoslavia, in Cecenia, le guerre del Golfo. O la crisi economica che, per effetto della globalizzazione, ha avuto ripercussioni in tutto il mondo. A lungo abbiamo considerato la storia guidata da una logica di necessità. Oggi la prospettiva è cambiata: il futuro sembra aver riconquistato la sua natura di assoluta contingenza, di luogo nel quale si manifestano forze che sfuggono al controllo degli uomini”.
Nonostante tutti gli strumenti di previsione a disposizione?
“Il paradosso è proprio questo. Ci sono settori nei quali la casualità diminuisce: nella medicina, ad esempio. Ma nei macrosettori l’azzardo pesa moltissimo e impedisce previsioni a lungo termine. Riguardo alla crisi economica, non è forse stato il gioco ad alto rischio delle Goldman Sachs e dei Lehman Brothers, degli hedge fund e dei subprime, a determinare le conseguenze più rovinose? Anche i sistemi capitalistici più sofisticati sono sottoposti a elementi irrazionali. Lo aveva intuito Max Weber a proposito della Borsa: un sistema perfetto, basato sul gioco d’azzardo. Sensibile alla paura, però: l’effetto-panico può farla crollare”.
Il caso è oggi il fondamento delle grandi narrazioni. In letteratura ce lo ricorda Paul Auster [scrittore americano contemporaneo]: la vita è fatta di una serie di circostanze fortuite. E molti altri aspetti della cultura si muovono in formato random. L’azzardo è la metafora più giusta dei nostri tempi? “L’età moderna si apre con le enunciazioni di Machiavelli di situazioni “fuori di ogni umana congettura”, di una fortuna che agisce oltre ogni possibile previsione. E il gesuita Baltasar Gracián, nel Seicento, scrisse un “Oracolo manuale o arte di prudenza” per evidenziare che, se una volta ragionare era l’arte suprema, quando i tempi si fanno complessi non resta che indovinare. È vero: molti scrittori sottolineano che il mondo è esposto a una serie di casualità. Se non avessimo incontrato quella persona, se non avessimo fatto quel gesto, dicono, le nostre vite sarebbero cambiate. È un ragionamento che in letteratura funziona. Lo trovo affascinante persino applicato alla storiografia, quando utilizza questo approccio congetturale: se nella battaglia di Maratona del 490 a. C. tra greci e persiani avessero vinto i persiani, il razionalismo greco, cioè la nostra civiltà, sarebbe stato soffocato sul nascere, le religioni orientali si sarebbero imposte. Però nella vita che senso ha ragionare così? Siamo quello che siamo esattamente perché abbiamo incontrato quella persona, compiuto quell’azione”.
E dunque? Non possiamo far altro che subire il caso? “Il caso non è un’entità metafisica. Le situazioni si possono ancora spostare, e cambiare, grazie al “dado truccato” suggerito da Max Weber. Mi spiego meglio. Se io lancio un dado la probabilità che esca, poniamo il 3, è di un sesto. Questa è la probabilità oggettiva, perché il dado ha sei facce. Weber ha mostrato che se spostiamo il centro di gravità di un dado verso il 3 aumentiamo le probabilità che esca quel numero. Quello spostamento di baricentro corrisponde all’intervento umano, perché tra necessità e caso c’è uno spazio largo, che può essere modificato. E più interveniamo, più le cose cambiano”.
Cioè, dobbiamo barare? “Più che barare, per piegare il caso alla nostra volontà dobbiamo fare dei calcoli basati su criteri di probabilità soggettiva, cioè prendere in considerazione il maggior numero di fattori possibili. Faccio un esempio. Se sto per aprire un negozio, e voglio avere successo, posso cercare di ridurre l’incertezza aumentando la quantità di informazioni in mio possesso: sui concorrenti, sulle caratteristiche del territorio, sulla gente che vi abita, su ciò che vendo. La conoscenza è un limite al caso. L’ignoranza, invece, ne incrementa il potere. Lo aveva già detto Aristotele: il caso non è altro che espressione della nostra ignoranza”.
Il caso si può razionalizzare? “Si può interpretare e controllare. Il matematico Condorcet, a fine Settecento, sosteneva che l’istruzione abbassa l’incertezza. Ecco perché fu tra i più attivi promotori della scuola gratuita e aperta a tutti…. acuire ed espandere l’intelligenza, promuovendo l’istruzione, è porre un argine al dominio del caso”.
Più siamo informati, meno siamo in balia dell’azzardo?
“Più conosciamo, più il futuro diventa plausibile. Per questo è nata la statistica. E il calcolo delle probabilità, con Pascal. Fu un giocatore d’azzardo, Chevalier de Méré, a indurlo a contattare il matematico Pierre de Fermat. Ed è curioso sapere che Pascal è l’inventore del termine “roulette”, che indicava non tanto il gioco in sé, ma la curva cicloide tracciata dalla pallina, girando”.

Ernesto Ferrero, Fortuna, la dea bendata che dà senso al mondo fatto a caso. L’ambiguità della buona sorte da Shakespeare alla scienza moderna, “La Stampa”, 1 luglio 2014

Il catalogo più autorevole dei colpi e delle frecce che la «Fortuna oltraggiosa» ci riserva viene stilato da Amleto nel più celebre monologo della storia del teatro. Amleto elenca «le frustate e gli spregi del mondo, le ingiustizie degli oppressori, le contumelie dei superbi, gli spasimi dell’amore sprezzato, i ritardi della legge, l’insolenza del potere e gli scherni che il merito paziente subisce dagli indegni». Queste offese sembrano ad Amleto tanto insopportabili da fargli prendere in considerazione l’ipotesi di saldare il conto con un semplice stiletto, non fosse che non sappiamo che cosa ci attende nel paese da cui nessun viaggiatore ritorna.
Quelli che Amleto lamenta sono mali morali prodotti dagli uomini: l’arroganza del potere, le ingiustizie correnti, le pene d’amore, il merito irriso. Non hanno nulla di imprevedibile, e attribuirli ad un’entità malevola e distratta sembra una prova di scarso carattere. Ben altre sono le invenzioni beffarde di cui si compiace la divinità di cui gli uomini d’ogni tempo si sono sempre sentiti lo zimbello. Incostante, dunque femminile, gli occhi coperti da una benda, in bilico su una ruota. «Donna ubriaca e capricciosa», la definisce Cervantes. Già Apuleio lamentava che prodiga sempre i suoi favori ai malvagi e a chi non lo merita. E prima ancora Giobbe aveva aperto una accorata vertenza sindacale con il suo dio.
I colpi del destino oltraggioso (la buona fortuna è sempre degli altri) hanno sempre rappresentato un problema filosofico: perché la vita ha l’arbitrarietà del gioco dei dadi? Perché la virtù è punita? Nel VII canto dell’Inferno Dante, che ben conosce le concezioni degli antichi, chiede lumi a Virgilio, che lo rassicura. Quella che noi chiamiamo Fortuna è un’intelligenza angelica, fedele ministra ed esecutrice della volontà divina, che procede secondo un giudizio che resta sì inconoscibile agli uomini, ma segue un suo disegno preciso. La prudenza umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio, dice Virgilio, è «occulto come in erba l’angue», il serpente che si nasconde nell’erba alta.
A partire dal Rinascimento, si fa strada una diversa concezione, che rivendica all’uomo la dignità di plasmare il proprio destino a dispetto di ogni avversità. La fortuna avversa esiste, scrive Machiavelli, è come un’alluvione che allaga campi e sradica alberi, ma le si può opporre una gestione avveduta, quella che oggi chiamiamo prevenzione, allestendo argini, opere idrauliche. Possiamo concedere alla fortuna di determinare una metà del nostro destino. L’altra sta nelle nostre mani, nella nostra «virtù», cioè in un mix di professionalità, determinazione, capacità di previsione e progetto, coraggio. Se, come si dice comunemente e Machiavelli, politicamente ancor più scorretto di Cervantes, ripete, la fortuna è donna, «è necessario, volendola tener sotto, batterla e urtarla». Con la fortuna occorre saper anche giocare d’azzardo, osare al momento giusto: se la Fortuna «come donna, è amica dei giovani», si farà comandare dai più giovani e audaci.
Occorre saper leggere gli eventi e cogliere l’occasione favorevole. Nel Giulio Cesare, Shakespeare fa usare a Bruto una metafora marinara per convincere Cassio che è arrivato il momento di prendere le armi contro Ottavio ed Antonio: «V’è una marea negli affari umani/ tale che, se cogli l’onda, arrivi al successo;/ se invece perdi l’attimo, il viaggio della vita/ si arena in disgrazie e bassifondi./ Su questo mare ora galleggiamo,/dobbiamo profittare delle correnti propizie/ o perdere il nostro carico».
La scienza moderna ci dice che la vita è nata sulla Terra per una serie di congiunzioni uniche e probabilmente irripetibili, che il Caso è il motore primo della vita e poi dell’evoluzione (penso alle tesi sostenute da Jacques Monod in Il caso e la necessità). Sembra quasi la riproposta del modello della dea bendata caro agli antichi. Dai tempi dei prodigiosi processi avvenuti nel brodo primordiale miliardi di anni fa, il Caso bricoleur non ha smesso di inventare combinazioni biologiche sempre nuove, attorcigliando pochi elementi-base nelle doppie eliche del Dna.
Il Caso ama lavorare su quel minimo scarto iniziale che, allargandosi a valanga, può produrre risultati enormemente differenti tra di loro. Tutto quello che gli uomini possono fare è risalire alla piccole cause prime, ai movimenti impercettibili dell’ago degli scambi che riescono a spostare la destinazione di un treno di migliaia di chilometri. Ognuno di noi può raccontare la piccola causa che ha mutato radicalmente l’esistenza sua o dei suoi progenitori. Ogni identità è il prodotto di una serie pressoché infinita di casualità. Ogni identità è fortunosa. È romanzesca.
Uno di questi incredibili scatti dell’ago degli scambi ci è stato raccontato da Primo Levi. Non, si badi, in Se questo è un uomo, ma in un racconto degli ultimi anni, quasi se ne vergognasse, lui che provava appunto la vergogna del sopravvissuto. Nel gennaio del 1945, prigioniero ad Auschwitz, Levi ha trovato rifugio nel laboratorio della Buna, la fabbrica di gomma annessa al Lager, in quanto brillante laureato in chimica. È riuscito a evitare i lavori pesanti che ha svolto sino a poco prima all’aperto, ma continua ad avere fame, e cerca sempre di rubare qualcosa di piccolo e di insolito per scambiarlo con pane. Un giorno trova in laboratorio un cassetto pieno di pipette, tubetti di vetro graduati che servono per trasferire liquidi da un recipiente all’altro, e ne riempie una tasca interna della giacca che si era ingegnosamente cucito. Corre da un infermiere polacco che conosceva al Reparto Infettivi, spiegandogli che le pipette potevano servire per analisi chimiche. L’infermiere è poco interessato, dice che quel giorno di pane non ce n’è più, al massimo può dargli un po’ di zuppa. Primo torna nella camerata con una scodella mezza piena. Chi poteva aver avanzato mezza scodella nel regno della fame? Quasi certamente un malato grave. In quelle settimane nel campo s’erano scatenate in forma epidemica difterite e scarlattina.
Auschwitz non era luogo di cautele. La sera Primo divide con il suo fraterno amico Alberto la zuppa sospetta. Pochi giorni dopo si sveglia con la febbre alta e non riesce a deglutire. È scarlattina, e Primo non l’aveva fatta da bambino, al contrario di Alberto. Viene ricoverato in infermeria proprio quando i tedeschi decidono di abbandonare il campo. Da Berlino giunge l’ordine di sopprimere i malati per non lasciare testimoni, ma non c’è più tempo, le guardie fuggono portandosi dietro i prigionieri capaci di camminare. Alberto parte con loro. «Venne a salutarmi, – racconta Levi – e poi partì nella notte e nella neve, con altri sessantamila sventurati, per quella marcia mortale da cui pochi tornarono. Io fui salvato, nel modo più imprevedibile, dall’affare delle pipette rubate, che mi avevano procurato una malattia proprio nel momento in cui, paradossalmente, non poter camminare era una fortuna».

Antonio Carioti, Eventi fortuiti salvarono Hitler e Federico II, “Corriere – La Lettura”, 11 febbraio 2015
 
Uno che se ne intendeva, Niccolò Machiavelli, riteneva «potere essere vero che la fortuna sia arbitra di metà delle azioni nostre». E in effetti nella storia non è raro che eventi anche di enorme portata siano condizionati da eventi casuali. Un esempio macroscopico, di cui si è parlato parecchio lo scorso anno per via del centenario, è l’attentato di Sarajevo. Quel 28 giugno 1914 il tentativo di uccidere l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo era in un primo tempo fallito e fu solo il fortuito errore di percorso compiuto in seguito dal suo autista, con la conseguente necessità di fermarsi per cambiare strada, che mise l’erede al trono di Austria-Ungheria e la moglie alla comoda portata della pistola impugnata dall’attentatore serbo Gavrilo Princip.
Oltre agli attentati riusciti per caso, ci sono anche quelli falliti per mera combinazione. Hitler se la cavò due volte in circostanze del genere: e se la congiura del 20 luglio 1944 giunse quando ormai la guerra era entrata nella sua fase finale, ben diversa era la situazione l’8 novembre 1939, a conflitto appena cominciato, quando il Führer scampò per un pelo alla bomba collocata da Georg Elser nella birreria di Monaco di Baviera dove era in corso una cerimonia celebrativa. Hitler uscì dal locale pochi minuti prima dello scoppio perché le previsioni metereologiche avverse lo avevano indotto a tornare a Berlino in treno anziché in aereo. In altre occasioni le condizioni atmosferiche hanno influenzato il corso della storia. Violenti tifoni furono determinanti nel mandare all’aria i due tentativi dell’imperatore mongolo Kublai Khan, signore della Cina, di invadere il Giappone, nel 1274 e nel 1281: tra l’altro nasce da quella vicenda il termine kamikaze , ossia «vento divino», che poi fu adottato per i piloti suicidi della Seconda guerra mondiale. Anche alcuni progetti d’invasione della Gran Bretagna vennero compromessi dalle tempeste: la Invincibile Armata del re di Spagna Filippo II, nel 1588, venne prima respinta dalle navi inglesi, ma poi distrutta dalla furia delle onde.
Fu invece la pioggia, che era caduta abbondantemente nelle ore precedenti, a ritardare l’assalto dei francesi contro gli inglesi a Waterloo rispetto ai piani di Napoleone, il 18 giugno 1815, con conseguenze fatali sull’esito della battaglia, che venne vinta da Wellington grazie al soccorso prussiano. Per tornare a Machiavelli, il segretario fiorentino era convinto che la coincidenza tra una temporanea malattia di Cesare Borgia e la morte di suo padre, il Papa Alessandro VI, fosse stata decisiva nel provocarne la rovina. Di certo un fattore del tutto contingente come la salute dei potenti influenza non poco le vicende storiche: viene da domandarsi quali altre gesta avrebbe compiuto Alessandro Magno, se non fosse scomparso a soli 33 anni, oppure che sorte avrebbe avuto Atene se il suo leader carismatico Pericle non fosse perito di peste all’inizio della guerra del Peloponneso. Di certo il re di Prussia Federico II il Grande se la sarebbe vista brutta se il 5 gennaio 1762, in piena guerra dei Sette anni, non fosse morta la zarina di Russia Elisabetta I, il cui successore Paolo III concluse con lui la pace separata che gli consentì di riprendere fiato nella lotta ad austriaci e francesi, evitando una disfatta che sembrava segnata.

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Come eravamo: la storia d’Italia vista dai banchi delle scuole

Con “Registro di classe” Amelio racconta 60 anni di istruzione tra dialetti e analfabetismo
Marco Lodoli, “La Repubblica”, 13 ottobre 2015

CHI AVVERTE l’esigenza di raccontare la storia del nostro Paese, le sue trasformazioni, i sogni e le tensioni, le ingiustizie, gli slanci e le cadute, trova nella scuola uno specchio sincero. E così anche Gianni Amelio e Cecilia Pagliarani, montatrice di tanti film del grande regista, hanno voluto traversare il Novecento passando per le aule e i corridoi delle nostre scuole, soprattutto le elementari, dove tutto è ancora più immediato e diretto. Registro di classe è un film d’archivio, gli autori si sono immersi tra le teche Rai e le immagini immagazzinate nei depositi dell’Istituto Luce e del Ministero della Pubblica Istruzione per ritrovare l’oro della memoria, la storia dell’Italia con il grembiule e il fiocco, la sua innocenza a volte protetta e a volte tradita. Ora possiamo ammirare la prima parte del viaggio, dal 1900 al 1960, e presto arriverà la seconda parte, quella più vicina a noi.
Tutto sembra uniforme a scuola, se si guarda con occhio disattento: i bambini nei banchi, gli insegnanti, la lavagna, le lezioni, sembra un paesaggio omogeneo e ripetitivo. E invece Amelio e la Pagliarani ci dimostrano che la scuola è il regno delle differenze, piacevoli o terribili. L’analfabetismo è stata una piaga aperta, chi non sapeva leggere e scrivere era inevitabilmente destinato a una vita miserabile, tagliato fuori da ogni speranza. C’è un episodio da libro Cuore ripescato chissà dove, una sorta di “pubblicità progresso” ante litteram: un uomo si sposa, per lui è un giorno felice, ma quando deve mettere la firma sui libroni, si rigira goffamente la penna in mano, esita, e poi traccia la sua triste croce, una croce di inchiostro, ma anche una croce da portare vergognosamente sulle spalle. E lo ritroviamo nella sua casetta, anni dopo: la sua bambina ha scritto un biglietto d’auguri e lo ha messo sotto il piatto del papà. L’uomo lo prende, lo apre con le mani tremanti davanti agli occhi ansiosi della figlia, poi lo consegna alla moglie, perché lei sa leggere, lui ancora no. Stacco, hanno aperto le scuole popolari e tanti adulti analfabeti iniziano a scrivere le prime lettere dell’alfabeto, e tra loro c’è anche il nostro piccolo eroe, deciso finalmente a uscire dal buio dell’ignoranza.
Ma non c’è stato solo l’analfabetismo da affrontare in classe, anche i mille dialetti hanno reso difficile il lavoro dei maestri, dialetti che sono ricchezza e separazione, vivacità linguistica ed esclusione. La scuola, ci mostrano i documenti scelti da Amelio, ha diffuso la lingua nazionale, colmando le distanze. Tanti insegnanti si sono trovati a lavorare lontano da casa, in regioni dove i bambini parlavano solo il loro dialetto, e con pazienza e dedizione hanno ricucito il Paese, hanno dato a tutti le parole comuni per raccontarsi, per capirsi.
L’unità fu cercata anche dal fascismo, ma con altri mezzi, militarizzando l’infanzia. Sottomessi alle direttive del Duce, i maestri erano costretti a insegnare il saluto romano e a far marciare i loro piccoli allievi, già inquadrati come soldatini. Il film racconta come ogni diversità veniva ignorata, ogni sensibilità ricondotta al culto della Patria e del suo comandante, in un’adorazione grottesca. Ma anche nel dopoguerra le diversità sono state tenute sotto controllo con la micidiale invenzione delle classi differenziate. I bambini “difficili” venivano separati dagli altri, rinchiusi in ghetti scolastici, e quasi sempre erano bambini normalissimi che avrebbero avuto solo bisogno di stare con gli altri compagni. Il viaggio nella nostra scuola arriva fino ai ragazzi di Don Milani e alle riflessioni di Pasolini sul pericolo che la cultura piccolo-borghese soffochi ogni altro modo di pensare e di esistere.

Registro di classe sarà presentato in prima assoluta il 19 ottobre alla Festa del Cinema di Roma, e speriamo che abbia una grande diffusione negli istituti, affinché i nostri studenti possano capire com’era la scuola del Novecento, la sua bellezza e la sua malinconia, e quanti ostacoli ha superato, e quanto è stata decisiva, pur con i suoi mille difetti, per la formazione degli italiani: e quanto va difesa e amata, questa nostra scuola.

 

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“Come s’uno schermo…”: poesia al cinema

Dylan Thomas, “Do not go gentle into that good night”, in “Country Sleep and other poems”, 1952

Una piccola antologia (ovviamente incompleta e personale) di poesie citate o lette in alcuni film.

Il giovane favoloso, 2014, regia di Mario Martone, con Elio Germano

G. Leopardi, La sera del dì di festa, 1820

G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, 1837

Apocalypse now redux, 2001, regia di F. F. Coppola

Marlon Brando recita The hollow men, di T. S. Eliot (versione integrale. CLICCA QUI)

Into the wild, 2007, regia di Sean Penn, con Emile Hirsch

G. G. Byron, Childe Harold’s Pilgrimage, Canto IV, stanza 178, 1812

There is a pleasure in the pathless woods,
There is a rapture on the lonely shore,
There is society, where none intrudes,
By the deep sea, and music in its roar:
I love not man the less, but Nature more.

C’è un piacere nei boschi senza sentieri,
C’è un’estasi sulla spiaggia desolata,
C’è vita, laddove nessuno s’intromette,
Accanto al mar profondo, e alla musica del suo sciabordare:
Non è ch’io ami di meno l’uomo, ma la Natura di più.

Patch Adams1998,  regia di Tom Shadyac, con Robin Williams

Pablo Neruda, Sonetto XVII, da Cien Sonetos de Amor

No te amo como si fueras rosa de sal, topacio
o flecha de claveles que propagan el fuego:
te amo como se aman ciertas cosas oscuras,
secretamente, entre la sombra y el alma.

Te amo como la planta que no florece y lleva
dentro de sí, escondida, la luz de aquellas flores,
y gracias a tu amor vive oscuro en mi cuerpo
el apretado aroma que ascendió de la tierra.

Te amo sin saber cómo, ni cuándo, ni de dónde,
te amo directamente sin problemas ni orgullo:
así te amo porque no sé amar de otra manera,

sino así de este modo en que no soy ni eres,
tan cerca que tu mano sobre mi pecho es mía,
tan cerca que se cierran tus ojos con mi sueño.

Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t’amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima.

T’amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.

T’amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti

che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

Before Sunrise, 1995, regia di Richard Linklater, con Ethan Hawke e Julie Delpy

W. H Auden, As I Walked Out One Evening, 1937

As I walked out one evening,
Walking down Bristol Street,
The crowds upon the pavement
Were fields of harvest wheat.

And down by the brimming river
I heard a lover sing
Under an arch of the railway:
“Love has no ending.

‘I’ll love you, dear, I’ll love you
Till China and Africa meet,
And the river jumps over the mountain
And the salmon sing in the street,

‘I’ll love you till the ocean
Is folded and hung up to dry
And the seven stars go squawking
Like geese about the sky.

‘The years shall run like rabbits,
For in my arms I hold
The Flower of the Ages,
And the first love of the world… LEGGI TUTTO

Eternal Sunshine of the Spotless Mind, 2004, regia di  Michel Gondry, con Jim Carrey e Kate Winslet

Alexander Pope, Eloisa to Abélard, 1717

How happy is the blameless Vestal’s lot!
The world forgetting, by the world forgot;
Eternal sunshine of the spotless mind!
Each pray’r accepted, and each wish resign’d.

Com’è felice il destino dell’incolpevole vestale!
Dimentica del mondo, dal mondo dimenticata.
Luce senza fine di una mente immacolata!
Ogni preghiera accolta e ogni desiderio rinunciato.

Blade runner, 1982, regia di Ridley Scott, con Harrison Ford, Rutger Hauer

William Blake, America, A Prophecy, 1793  (tr. it. “America”, in  Libri profetici, Bompiani, Milano, 1986, traduzione di R. Sanesi)

Fiery the Angels rose, & as they rose deep thunder roll’d
Around their shores: indignant burning with the fires of Orc
And Bostons Angel cried aloud as they flew thro’ the dark night.

Con fierezza si alzarono gli Angeli, e mentre si alzavano un tuono profondo
Rotolò sulle spiagge, bruciando pieno di sdegno con i fuochi di Orc;
E l’angelo di Boston urlò mentre loro volavano nella notte buia.

Dalla serie televisiva Breaking bad (quinta stagione, 2013),  Bryan Cranston/Walter White legge il sonetto Ozymandias di P. B. Shelley (1818). CLICCA QUI per il VIDEO.

I met a Traveler from an antique land,
Who said, “Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desart. Near them, on the sand,
Half sunk, a shattered visage lies, whose frown,

And wrinkled lip, and sneer of cold command,
Tell that its sculptor well those passions read,
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them and the heart that fed:

And on the pedestal these words appear:
“My name is OZYMANDIAS, King of Kings.”
Look on my works ye Mighty, and despair!

No thing beside remains. Round the decay
Of that Colossal Wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

Incontrai un viandante di una terra dell’antichità,
Che andava dicendo: “Due enormi gambe di pietra stroncate
Stanno imponenti nel deserto… Nella sabbia, non lungi di là,
Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,

E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità,
Tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava,
Che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre,
Alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava:

E sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»

Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”.

Interstellar, 2014, regia di Christopher Nolan, con  Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Michael Caine

Dylan Thomas, Do not go gentle into that good night, 1952

Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Though wise men at their end know dark is right,
Because their words had forked no lightning they
Do not go gentle into that good night.

Good men, the last wave by, crying how bright
Their frail deeds might have danced in a green bay,
Rage, rage against the dying of the light.

Wild men who caught and sang the sun in flight,
And learn, too late, they grieved it on its way,
Do not go gentle into that good night.

Grave men, near death, who see with blinding sight
Blind eyes could blaze like meteors and be gay,
Rage, rage against the dying of the light.

And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless, me now with your fierce tears, I pray.
Do not go gentle into that good night.
Rage, rage against the dying of the light.

Non andartene docile in quella buona notte

Non andartene docile in quella buona notte,
vecchiaia dovrebbe ardere e infierire
quando cade il giorno;
infuria, infuria contro il morire della luce.

Benché i saggi infine conoscano che il buio è giusto,
poiché dalle parole loro non diramò alcun conforto,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

I buoni che in preda all’ultima onda
splendide proclamarono le loro fioche imprese,
avrebbero potuto danzare in una verde baia,
e infuriano, infuriano contro il morire della luce.

I selvaggi, che il sole a volo presero e cantarono,
tardi apprendono come lo afflissero nella sua via,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

Gli austeri, vicini a morte, con cieca vista scorgono
che i ciechi occhi quali meteore potrebbero brillare
ed esser gai; e infuriano
infuriano contro il morire della luce. (Trad. di A. Marianni)

PER APPROFONDIRE:

Cinema strumento di poesia, di F. MATTEONI. CLICCA QUI.

Racconti di poesia al cinema, di V. D’Amico. CLICCA QUI.

Poetry in movies: a partial list. CLICCA QUI.

10 famous poems that appeared in film. CLICCA QUI.

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Marilyn per sempre

Christo, Emballages de Revues (Wrapped Magazines), 1962 National Academy Museum

La “Poesia a Marilyn” fu scritta poco dopo la scomparsa [dell’attrice], e più tardi venne inserita in un “cinepoema”, grande composizione fatta di immagini, versi e musica dentro un film di montaggio del 1963, “La Rabbia”. “Pasolini conosceva bene la mitologia e la applicava all’interpretazione della realtà”, interviene il professor Sandro Bernardi dell’Università di Firenze, autore del testo sul rapporto tra il poeta e l’attrice per il catalogo della mostra di Palazzo Spini Feroni. “Per lui il mito era affabulazione secolare in cui si era sedimentata l’esperienza di migliaia di anni, così di Marilyn diede una lettura mitica. Ne era affascinato, e vide nella tragedia della sua morte l’occasione per riprendere i miti della fine del mondo, riversandovi angosce contemporanee: le paure degli anni Cinquanta per le armi sempre più potenti e spietate, per la bomba atomica. Pasolini aveva il gusto della contraddizione umana. Nella “Supplica a mia madre” aveva scritto: “È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”. Nella morte di Marilyn, il poeta vede la fine della bellezza, la sua fragilità, e l’angoscia subentra. Perché per lui bellezza è giustizia, bello e buono coincidono, kalòs kai agathòs. La morte di Marilyn è ingiusta, è smarrimento, è confusione, è perdita di senso. È il prodotto tragico del consumismo: l’amore del pubblico è avido, e la brucia. “Il successo comporta troppe lacrime ingoiate”, scrive: “Darsi al pubblico è darsi in pasto”.
Mitologica, dunque, la Marilyn di Pasolini, ma allo stesso tempo pienamente e tragicamente figlia del suo tempo: donna di origini povere, che a lui piaceva moltissimo perché si era conquistata con ironia e grazia la propria autonomia. Ma non le era stato perdonato. “È questo che nella sua vicenda umana commuove così profondamente Pasolini”, conclude Bernardi: “L’impossibilità della donna di affermarsi. La sua storia gli dice che la donna che prova a farlo finisce in ogni caso tragicamente”. V. PALERMI, “L’Espresso”, 8 giugno 2012

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P.P. PASOLINI, Sequenza di Marilyn, dal film La rabbia, 1963. Voce recitante di Giorgio Bassani. CLICCA QUI.

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro i fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,

tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.

Il mondo te l’ha insegnata,
Così la tua bellezza divenne sua.

Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro
era rimasta sola la bellezza, e tu
te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.
L’obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri, troppi allegri sguardi
che chiedono la loro pietà! Così
ti sei portata via la tua bellezza.
Sparì come un pulviscolo d’oro.

Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.

E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo…
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.

Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca colomba d’oro.

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male mortale.

Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.

da Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993

I wanna be loved by you nobody else but you I wanna be loved by you nobody else but you I wanna be loved by you nobody else
but you I wanna be loved by you alone she was trapped in this! she was trapped in I wanna be loved by you nobody else but you I
wanna be loved by you alone she was drowning! smothering! I wanna be kissed by you nobody else but you I wanna be kissed by you alone she was Sugar Kane Kovalchick of Sweet Sue’s Society Syncopaters she was dazzling-blond Sugar Kane girl ukulelist she was the female body she was the female buttocks, breasts she was Sugar Kane dazzling-blond girl ukulelist fleeing male saxophonists her ukulele was pursued by male saxophones she would not be able to resist! again & again & always & they loved her for it I wanna be loved by you alone it was happening again, it was happening always & forever it was happening another time I wanna be loved by you nobody else but you she was cooing & smiling into the audience strumming the ukulele they’d taught her to play & her fingers moved with surprising dexterity for one so doped & drugged & terrified even as her gorgeous kissable mouth stammered I wanna! I wanna! I wanna be loved! just another variant of the sad, sick cow but they adored her & a man was falling in love with her on screen I wanna be kissed by you alone but was this funny? was this funny? was this funny? why was this funny? why was Sugar Kane funny? why were men dressed as women funny? why were men made up as women funny? why were men staggering in high heels funny? why was Sugar
Kane funny, was Sugar Kane the supreme female impersonator? was this funny? why was this funny? why is female funny? why were people going to laugh at Sugar Kane & fall in love with Sugar Kane? why, another time? why would Sugar Kane Kovalchick girl ukulelist be such a box office success in America ? why dazzling-blond girl ukulelist alcoholic Sugar Kane Kovalchick a success? why Some Like It Hot a masterpiece? why Monroe’s masterpiece? why Monroe’s most commercial movie? why did they love her? why when her life was in shreds like clawed silk? why when her life was in pieces like smashed glass? why when her insides had bled out? why when her insides had been scooped out? why when she carried poison in her womb? why when her head was ringing with pain? her mouth stinging with red ants ? why when everybody on the set of the film hated her? resented her? feared her? why when she was drowning before their eyes? I wanna be loved by you hoop boopie do! why was Sugar Kane Kovalchick of Sweet Sue’s Society Syncopaters so seductive? I wanna be kissed by nobody else but you I wanna! I wanna! I wanna be loved by you alone but why? why was Marilyn so funny? why did the world adore Marilyn? who despised herself? was that why? why did the world love Marilyn? why when Marilyn had killed her baby? why when Marilyn had killed her babies? why did the world want to fuck Marilyn?  why did the world want to fuck fuck fuck Marilyn? why did the world want to jam itself to the bloody hilt like a great tumescent sword in Marilyn? was it a riddle? was it a warning? was it j ust another joke? I wanna be loved by you ” hoop boopie do nobody else but you nobody else but you nobody else… Da Joyce Carol Oates, Blonde, 2000

Tommaso Pincio, 50 Marilyn

Tommaso Pincio, Lo spazio sfinito, Minimum Fax , 2000

“In un mondo alternativo terribilmente bello e malinconico, Jack Kerouac si prepara a passare nove settimane nello spazio per conto della Coca-Cola Enterprise. Marilyn Monroe fa la commessa in una libreria. Il tirannico Arthur Miller si è comprato una casa sulla cascata dove vive con sua moglie, la triste e bellissima Norma Jeane. Qualche conto sembra in effetti non tornare. Norma e Marilyn non dovrebbero ad esempio essere la stessa meravigliosa ragazza, colei che illuminò i desideri di milioni di persone accendendo una luce nelle stanze più buie degli animi maschili?
Ambientato durante gli anni Cinquanta – reinventati in modo da diventare tra i più veri e struggenti mai raccontati – Lo spazio sfinito è popolato dai personaggi del nostro immaginario collettivo (oltre a Kerouac, Marilyn e Miller c’è Neal Cassady, e il giovane Holden…), i quali però, attraverso le loro vicende di solitudine, desiderio, amicizie infrante, cuori spezzati e vite da ritrovare, si rivelano paurosamente simili a noi.
Questo di Pincio è uno dei romanzi più intensi e commoventi degli ultimi anni, nelle pagine del quale tutto ciò che credevamo di conoscere mostra il suo lato più intimo e nascosto e ci parla più vicino di quanto non sia mai accaduto: date una maschera a uno scrittore, a un’attrice di Hollywood, al mondo intero, e finalmente vi dirà la verità”.

Andy Warhol, Marilyn, 1967. “In August 1962, Andy Warhol began to produce paintings using the screenprinting process. He recalls, “The rubber-stamp method I’d been using to repeat images suddenly seemed too homemade; I wanted something stronger that gave more of an assembly-line effect. With silkscreening you pick a photograph, blow it up, transfer it in glue onto silk, and then roll ink across it so the ink goes through the silk but not through the glue. That way you get the same image, slightly different each time. It all sounds so simple—quick and chancy. I was thrilled with it. My first experiments with screens were heads of Troy Donahue and Warren Beatty, and then when Marilyn Monroe happened to die that month (August 1962), I got the idea to make screens of her beautiful face.” (Andy Warhol, Popism, 1980). FONTE: Moma, N.Y.

 

Mimmo Rotella, Marilyn, décollage, 1963

 

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“To die, to sleep… perchance to dream”

P. Picasso, Il sogno (Le Rêve), olio su tela (130×97 cm), 1932

Augusto Romano, Aspettando a occhi chiusi, “La Stampa – Tuttolibri”, 13 dicembre 2003

COMINCIAMO con una citazione. «Sono arrivati dei sogni, risalendo la corrente del fiume, stanno salendo per una scala sulla banchina. Ci si ferma, si conversa con loro, essi sanno molte cose, quello che non sanno è di dove vengono. Molto tiepida questa sera d’autunno. I sogni si volgono verso il fiume e alzano le braccia. Perché alzate le braccia, invece di stringerci in esse?» (F. Kafka, Sogni, Sellerio, pp. 159). Come in un quadro simbolista, i sogni alzano le braccia. Provate a guardare i quadri che parlano di sogni: Füssli, Blake, Böcklin, Redon, Klinger… Sono tutti misteriosi, remoti, interroganti; si sporgono su di un Aldilà che nessuno mai potrà violare. In questa sequenza che fa rabbrividire, Kafka vorrebbe essere abbracciato (cullato, consolato?) dai sogni, e forse scomparire in quell’abbraccio. Ma non si può. I sogni alzano le braccia. Indicano l’impenetrabile cielo; o fanno mostra di arrendersi, riservandosi il silenzio; o si tramutano in statue, in esclusive immagini del mito? Dall’altra parte non si passa; sognare è un dono che si consuma nell’atto in cui viene ricevuto. Il resto è commento, utile e insignificante come ogni commento. Ma chi non può passare di là? L’Io naturalmente, l’ingombrante amministratore del tempo e dello spazio. Allora è possibile passare, ma solo rinunciando al proprio nome, dissolvendosi. Qualcuno – Novalis, Nerval, Rimbaud – l’ha fatto. Ha scritto V. Hugo: «Coloro che sono guidati dal sogno, divengono sogno essi stessi e, senza essere colpevoli, cadono nel nero sciame dei volti impalpabili». E’ curioso come questa fantasia sia stata recuperata in positivo da uno psicologo post-moderno come J. Hillman (Il sogno e il mondo infero, Adelphi, pp. 214), che vede il sogno come una iniziazione, il cui scopo non è ampliare la coscienza dell’Io, ma svuotarla. Ma Kafka non può, il suo sguardo è troppo limpido, ed egli non chiude mai gli occhi. Perciò i sogni può solo contemplarli, e conservare per sé una speranza, una domanda, cui non verrà mai data una risposta compiuta.


Tocchiamo così quello che a me sembra il nucleo tematico di ogni relazione con i sogni e insieme il motivo per cui i sogni – questi fenomeni «assurdi, incoerenti, inevitabili, irripetibili, fonti di gioie e di terrori infondati, incomunicabili nel loro complesso, eppure ansiosi di essere comunicati» (è ancora Kafka) – hanno sempre svolto un ruolo centrale nella vita dell’uomo. Siamo attratti dai sogni a motivo della nostra fondamentale imperfezione, della nostra bisognosità, dell’angustia della prigione che abitiamo. Quando non li trattiamo come giocattoli, objets trouvés, ambigue freddure, i sogni ci appaiono come voci che vengono da lontano e ci parlano, in una lingua straniera, di paesi stranieri. Così è già nelle società arcaiche: i sogni-presagio, i sogni sciamanici, i sogni totemici, i sogni iniziatici mostrano l’esigenza di rinnovare l’unione con le origini mitiche del gruppo sociale; epifanie del sacro, sono fonte di sicurezza, strumenti per acquistare potenza e conoscenza. Questa funzione, ancorché degradata, si è in qualche modo conservata negli innumerevoli «Libri dei sogni» che, dalla civiltà egizia sino a noi, fingono di tornare da un viaggio nell’Aldilà con un piccolo bottino, il bottino della notte destinato a dissolversi al canto del gallo. Con Cartesio, e poi con l’Illuminismo, la cultura moderna (o almeno il suo filone più in luce) dichiara di poter fare a meno dei sogni. Ma dura poco. Il Romanticismo riapre le porte al sogno (Albert Béguin, L’anima romantica e il sogno, Il Saggiatore, pp. 557). Per i Romantici, il sogno è simbolo di tutto ciò che, opponendosi alle convenzioni che reggono il mondo diurno, introduce in una oscurità animata in cui si nascondono i germi di una possibile redenzione, così come quelli della definitiva dissoluzione. «Chiudete gli occhi, e vedrete», scriveva Joubert. Il doloroso sentimento di incompiutezza e l’esigenza di pienezza trovano nella valorizzazione del sogno la loro espressione più viva. Il sogno, rompendo i vincoli spazio-temporali che ci rinserrano, ci regala da un lato i fugaci riflessi del paradiso perduto, di quel «paese d’innocenza» (Brentano) da cui proveniamo, e dall’altro si apre sulla verità ultima, eterna e ineffabile. Sciogliersi, disfarsi in una realtà più vasta; entrare in contatto con le misteriose forze che ci governano; discendere alle radici; abbandonare le apparenze per ritrovare l’Essere: questi i compiti che gli autori romantici assegnano al sogno. Si può allora intendere come sogno, mito e poesia rivelino una strettissima parentela: la loro origine è comune, il loro significato inesauribile, il contatto con loro dilata lo spazio che ci è assegnato sin quasi a dissolverlo e appaga il nostro bisogno di «comunicare con l’Infinito» (Jean Paul). La vita si specchia nel sogno, e questo, traendola fuori dal limbo dell’insignificanza, le dà una forma, la modella secondo le linee di un destino in cui il sognatore dovrà riconoscersi.
Ultima arrivata la psicoanalisi ha tentato di colonizzare il sogno; e proprio nel rapporto col sogno mostra il suo incerto statuto. Fondata da un lato su di una metafisica illuminista, ma anche sensibile al valore delle immagini e alle ambiguità del reale, la psicoanalisi oscilla tra un atteggiamento riduzionista (il sogno è «nient’altro che» la soddisfazione allucinatoria di desideri rimossi) e un’esigenza di rimitizzazione. Si deve soprattutto alla psicoanalisi di Carl Gustav Jung (Analisi dei sogni, Seminario -30 tenuto nel 1928, Bollati Boringhieri) di aver reso giustizia alla polisemia del sogno e dell’inconscio, e di aver riconosciuto nei sogni una realtà più vasta, che trascende le vite individuali. Comunque, il sogno è in buona salute e resiste agli accerchiamenti (Jorge Luis Borges, Libro di sogni, Oscar Mondadori). L’unico problema è che, se lui gode buona salute, è inevitabile che noi si sia sempre un po’ malati, di incompiutezza, di speranza. Ma non importa. Anche se la redenzione non giunge, si può ingannare l’attesa sognando, e interpretando i sogni. Senza dimenticare che, come scrive Isacco Abravanel (1437/1508) nel suo commento alla Torah, «i sogni veridici compaiono più di frequente nei giovani e negli stolti piuttosto che nei sapienti, perché l’immaginazione nei giovani e negli stolti non è disturbata e perciò riceve quell’influenza superiore senza confusione». E per concludere con un’altra citazione riferita ai sogni: «Ah, benissimo: fate entrare l’infinito!» (L. Aragon)

Surrealismo

JOAN MIRÓ, Este es el color de mis sueños, 1925

 “Chi sogna di giorno conosce molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte”

Edgar Allan Poe

Antonio Tabucchi, Sogni di sogni, Sellerio editore Palermo, 1992, p. 45.

[…] « Vieni avanti, ti aspettavo, disse la ragazza. Si girò e gli sorrise, e Leopardi la riconobbe. Era Silvia. Solo che ora era tutta d’argento, aveva le stesse sembianze di un tempo, ma era d’argento.
Silvia, cara Silvia, disse Leopardi prendendole le mani, come è dolce rivederti, ma perché sei tutta d’argento ?
Perché sono una selenita, rispose Silvia, quando si muore si viene sulla luna e si diventa così.
Ma perché anch’io sono qui, chiese Leopardi, sono forse morto ?
Questo non sei tu, disse Silvia, è solo la tua idea, tu sei ancora sulla terra » […].

EUGENIO MONTALE, IL SOGNO DEL PRIGIONIERO

Alba e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d’aria polare,
l’occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolìo dalle cave, girarrosti
veri o supposti – ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agl’Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull’impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all’aurora dei torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto
e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

da “La Bufera e altro”, Mondadori, 1957

Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni, da In ogni caso,1972

In sogno

dipingo come Vermeer.

Parlo correntemente il greco

e non soltanto con vivi.

Guido l’automobile,

che mi obbedisce.

Ho talento,

scrivo grandi poemi.

Odo voci

non peggio di autorevoli santi.

Sareste sbalorditi

dal mio virtuosismo al pianoforte.

Volo come si deve,

ossia da sola.

Cadendo da un tetto

so cadere dolcemente sul verde.

Non ho difficoltà

a respirare sott’acqua.

Non mi lamento:

sono riuscita a trovare l’Atlantide.

Mi rallegro di sapermi sempre svegliare

prima di morire.

Non appena scoppia una guerra

mi giro sul fianco preferito.

Sono, ma non devo

esserlo, una figlia del secolo.

Qualche anno fa

ho visto due soli.

E l’altro ieri un pinguino.

Con la massima chiarezza.

Hypnos, dio del Sonno

 

SOGNI CINEMATOGRAFICI

Akira Kurosawa, Sogni (夢 Yume), 1990

Nanni Moretti, Sogni d’oro, 1981

C. Nolan, Inception, 2010

 

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