Archvi dell'anno: 2013

… le stelle a riveder…

Per riassumere e concludere un anno di Inferno:

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I want to… Per la V B, “last but not least”.

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David Nicholls, Le domande di Brian, 2003
“Voglio essere in grado di ascoltare suonate per pianoforte e sapere chi le sta suonando. Voglio andare a concerti di musica classica e sapere quando si dovrebbe applaudire. Voglio poter capire il jazz moderno senza che mi sembri tutto un terribile sbaglio, e voglio sapere di preciso chi sono i Velvet Underground. Voglio essere completamente impegnato nel Mondo delle Idee, voglio comprendere i sistemi economici complessi e cosa ci vede la gente in Bob Dylan. Voglio possedere ideali politici radicali ma umani. Voglio essere bene informato e voglio tenere dibattiti appassionati ma ragionati attorno a tavoli da cucina in legno, dicendo cose come “specifica i tuoi termini!” e “le tue premesse sono palesemente speciose!” per scoprire all’improvviso che è sorto il sole e abbiamo passato l’intera notte a parlare. Voglio usare parole come “eponimo” e “solipsistico” e “utilitarista” con sicurezza. Voglio imparare ad apprezzare vini pregiati, e liquori esotici, e buoni whisky di malto,  e imparare come berli senza fare la figura dell’idiota,  e mangiare cibi strani ed esotici, uova di piviere e aragosta alla termidoro, cose che suonano a malapena commestibili o che non riesco a pronunciare. Voglio fare l’amore con donne bellissime, sofisticate e intimidatorie, alla luce del giorno o addirittura con la luce accesa, e lucido, e senza paura, e voglio parlare bene molte lingue, e magari anche una lingua morta o due, e portarmi sempre dietro un taccuino rilegato in pelle su cui scrivo pensieri incisivi, osservazioni e l’occasionale verso poetico. Ma soprattutto voglio leggere libri; libri spessi come mattoni, libri rilegati in pelle con carta incredibilmente sottile e quei nastrini viola per tenere il segno; libri economici di poesia, impolverati, di seconda mano, libri incredibilmente costosi di saggi incomprensibili importati da università straniere.
      A un certo punto, mi piacerebbe avere un’idea originale. E mi piacerebbe piacere, o addirittura essere amato, ma aspetterò e vedrò. E per quanto riguarda il lavoro, non so ancora bene cosa voglio, ma qualcosa che non disprezzi e che non mi faccia star male, e che non mi faccia preoccupare tutto il tempo per i soldi. E tutte queste sono cose che l’istruzione universitaria mi darà.”
Starter For Ten, by David Nicholls
I want to be able to listen to recordings of piano sonatas and know who’s playing.
I want to go to classical concerts and know when you’re meant to clap.
I want to be able to ‘get’ modern jazz without it all sounding like this terrible mistake, and I want to know who the Velvet Underground are exactly.
I want to be fully engaged in the World of Ideas, I want to understand complex economics, and what people see in Bob Dylan.
I want to possess radical but humane and well-informed political ideals, and I want to hold passionate but reasoned debates round wooden kitchen tables, saying things like “define your terms!” and “your premise is patently specious!” and then suddenly to discover that the sun’s come up and we’ve been talking all night.
I want to use words like “eponymous” and “solipsistic” and “utilitarian” with confidence.
I want to learn to appreciate fine wines, and exotic liquers, and fine single malts, and learn how to drink them without turning into a complete div, and to eat strange and exotic foods, plovers’ eggs and lobster thermidor, things that sound barely edible, or that I can’t pronounce…
Most of all I want to read books; books thick as brick, leather-bound books with incredibly thin paper and those purple ribbons to mark where you left off; cheap, dusty, second-hand books of collected verse, incredibly expensive, imported books of incomprehensible essays from foreign universities.
At some point I’d like to have an original idea…
And all of these are the things that a university education’s going to give me.”
E’ stato un plazer

Bertolt Brecht, Piaceri 

Il primo sguardo dalla finestra al mattino
il vecchio libro ritrovato
volti entusiasti
neve, il mutare delle stagioni
il giornale
il cane
la dialettica
fare la doccia, nuotare
musica antica
scarpe comode
capire
musica moderna
scrivere, piantare
viaggiare
cantare
essere gentili

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Luigi Pirandello

1928: Pirandello dirige una scena con Marta Abba (video dell’Istituto Luce)

1934: il re di Svezia Gustavo V consegna il premio Nobel a Luigi Pirandello (video dell’Istituto Luce)

Uninettuno: videolezione su L. P.

RepScuola: Camilleri racconta Pirandello. Videolezione.

Il fu Mattia Pascal. Videolezione  OilProject.

Il teatro

Luigi Pirandello è un «ardito» del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero.
A. Gramsci, «Il piacere dell’onestà» di Pirandello al Carignano, 29 novembre 1917

Così è (se vi pare),  con Paola Borboni, Alfredo Bianchini, Pino Colizzi (PARTE I, PARTE II)

L’uomo dal fiore in bocca, con Vittorio Gassman

La patente (1917). Da Questa è la vita, regia di Luigi Zampa, 1954, con Antonio de Curtis-Totò. CLICCA QUI.

Il cinema

Pirandello offrì soggetti originali, tratti dalle sue opere, per l’adattamento cinematografico (tra l’altro, le finestre della casa romana dello scrittore, in via Bosio, affacciavano sui capannoni cinematografici della “Film d’Arte Italia”). Il film Il fu Mattia Pascal (dal romanzo omonimo), realizzato dal regista Marcel L’Herbier (1925) con l’interpretazione di Ivan Mosjoukine, è considerato una delle opere cinematografiche più significative degli anni Venti.

Nel 1936 la commedia Ma non è una cosa seria venne trasposta in un film a opera del regista Mario Camerini, con la sceneggiatura degli scrittori Mario Soldati ed Ercole Patti e l’interpretazione di Vittorio De Sica. Non fu mai realizzata invece la riproduzione sul grande schermo del dramma Sei personaggi in cerca d’autore, cui lo scrittore aspirava. Il rapporto di Pirandello con il cinema fu comunque problematico. In un’intervista del 1929 al «Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo all’introduzione del sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto l’illusione di realtà propria del cinema.

«La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1. nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di farne a meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare una sua propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un danno per la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo elemento più caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti tutti i suoi valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto la parola. Ora dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film, anche se a perfezione, per le seguenti ragioni: – la voce è di un corpo vivo che la emette e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro ma le loro immagini fotografate in movimento; – le immagini non parlano, si vedono soltanto: se parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni in cui la voce viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo innaturale ma spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929).

B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI © Zanichelli 2011

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Paolo Di Stefano, Einstein e l’ invito a Pirandello.  Lo scontro che nessuno vide.Colazione sull’ erba a Princeton. Con il sospetto di fascismo, ” Corriere della Sera”, 19  luglio 2010

Chi sono quei due strani personaggi che guardano l’ obiettivo da un giardino dell’ Università di Princeton nell’agosto 1935? E cosa avranno da dirsi due tipi tanto diversi in quella sorta di déjeuner sur l’ herbe per la terza età? Il primo è in piedi, a sinistra: ha un paio di pantaloni leggeri da campagna, il petto nudo, i baffoni e una nuvola di capelli bianchi come i pantaloni, la giacca arrotolata sull’ avambraccio. L’ altro è decisamente più anziano, elegante nel suo impeccabile doppiopetto grigio e ben abbottonato, il cravattino nero: è adagiato sul prato, tre grandi cuscini sotto le spalle, il busto appena sollevato in una posa innaturale fatta apposta per il fotografo, si regge su un gomito, la gamba destra distesa, la sinistra piegata in avanti che lascia intravedere il calzino chiaro e la scarpa lucida. Diversamente dal primo, è rigido, forse imbarazzato. A giudicare dalla sedia di vimini, dal tavolino e dallo sgabello in primo piano, fra poco arriverà un cameriere con una bottiglia di bianco o con due bicchieri di Coca-Cola. Sul fondo, il tronco di una grossa quercia e la ruota di un vecchio mulino.

Fu Albert Einstein, a quanto pare, a invitare Luigi Pirandello nel «suo» campus universitario quando il drammaturgo siciliano si trovava a New York da circa un mese (era sbarcato dal «Conte di Savoia» a metà luglio), accolto da truppe di giornalisti, dalle promesse dei produttori hollywoodiani, dai solenni omaggi delle autorità accorse per salutare come si doveva il Premio Nobel, uno dei maggiori scrittori del momento, con banchetti, concerti, party. Approdato per la seconda volta in America, con la speranza (o meglio con la certezza) di sfondare nel business del cinema, Pirandello rimarrà presto deluso. Mentre nel ‘ 23, su invito (e con il contributo) del magnate dell’ automobile Henry Ford, la tournée produsse qualche successo di pubblico e di critica, stavolta fu il definitivo fallimento di un sogno a lungo maturato («sono alla vigilia di una grande fortuna», aveva detto prima di imbarcarsi). E se allora l’ America gli aveva lasciato l’ impressione favolosa di un luogo capace di «nuove forme di vita» – a differenza dell’ antica e triste Europa – adesso, nelle lettere al suo amore Marta Abba, dice di averne «la nausea fino alla gola»: ha capito che le trattative con la Paramount, con la Fox, con la Goldwin Mayer, con l’ Universal si vanno spegnendo, che l’ interesse di Marlene Dietrich (la quale l’ aveva chiamato augurandosi di avere una parte in un eventuale film tratto da Trovarsi) era rimasto niente più che un auspicio, che Hollywood non fa per lui e soprattutto lui non fa per Hollywood. Lo saprà con certezza lasciando l’America, in ottobre. Ma forse quella mattina d’ agosto in cui raggiunge il suo amico Albert dopo un’oretta di treno, Pirandello non ha ancora perso tutte le speranze. Amico è forse dir troppo.

C’era un tempo, neanche tanto remoto, in cui solo a sentirne il nome gli venivano i nervi. Era quando i critici accostavano troppo ingenuamente il cosiddetto relativismo esistenziale dei suoi personaggi con la teoria della relatività. Nel ‘ 22, a un giornalista di «Epoca» che gli chiedeva se condividesse l’ opinione di molti secondo cui le questioni proposte nelle sue opere erano già nell’ «aria del tempo», rispose un po’ risentito rivendicando un primato: «Ebbene, quei problemi erano unicamente miei, erano sorti spontanei nel mio spirito, si erano naturalmente imposti al mio pensiero. Solo dopo, quando i miei primi lavori apparvero, mi fu detto che quelli erano i problemi del tempo, che altri, come me, in quello stesso periodo si consumavano su di essi. E oggi ancora io non conosco Einstein!». Due anni dopo ribadiva: «io ho compiuto e creato la mia opera d’ arte senza alcun riferimento a questa filosofia (la relatività); del resto vi confesso che fino a poco tempo fa ignoravo Einstein e la sua scuola; ora, per curiosità, sentendone parlare ho cominciato ad occuparmene». Il primo incontro con lo scienziato tedesco risale al 1925: Pirandello era a Berlino con il suo Teatro d’ Arte e Einstein andò a vedere Sei personaggi in cerca d’ autore. Pochi mesi dopo, ricordando quella serata, lo scrittore dimostrava di aver cambiato idea sui rapporti con la teoria del fisico. «Ella pensa, Maestro, di aver fatto nel teatro, ciò che Einstein ha fatto nella scienza?», gli chiese un giornalista. Risposta: «Perfettamente». Con una precisazione: «L’ ho conosciuto al tempo del mio recente giro in Germania (…). È voluto venire egli stesso a trovarmi in teatro, nel mio camerino, e, appena entrato, mi ha detto in italiano (lo parla con fatica, ma con studio particolare, per esprimersi chiaramente): “Noi siamo parenti”. Ho passato con lui un’ ora interessantissima. È un uomo geniale e simpatico, e la conversazione, su qualunque argomento, anche ben lontano dalla sua scienza, è sempre attraente: rivela una mente lucida e una cultura vastissima».

Esule negli Stati Uniti in fuga dalla Germania nazista, di cosa avrà voluto parlare con il fascista Pirandello l’ ebreo Einstein? Perché ha voluto raggiungere telefonicamente lo scrittore italiano nella sua suite al quarantunesimo piano del Waldorf Astoria invitandolo a Princeton? Sicuramente per salutarlo. In fondo anche a Parigi, nel ’31, saputo che Pirandello era in Francia, Einstein lo invitò, raccogliendone il rifiuto, per una serata in casa sua con Charlie Chaplin. Ma stavolta le cose stanno diversamente. Lo racconta bene Elio Gioanola nel suo Pirandello Story (Jaca Book 2007). Arrivando a New York, il Premio Nobel, in una burrascosa conferenza stampa, non rinunciò a difendere le imprese coloniali africane del regime italiano, rivangando – a difesa di Mussolini – le colpe storiche americane: «Anche l’ America era un tempo abitata dagli Indios e voi l’ avete occupata. Se era diritto il vostro, lo è anche il nostro». Il giorno dopo fu un putiferio sui giornali e non è escluso che Einstein avesse voluto affrontare la faccenda, rinfacciando all’amico, sedicente «apolitico» o «impolitico radicale», la sua fede fascista. E può anche darsi che quell’immagine di semi-idillio rurale preludesse a una discussione tutt’altro che accomodante. «Parenti» sì, ma fino a un certo punto.

Luigi Pirandello a Berlino, 1930

Luigi Pirandello a Berlino, 1929

Ballo della Stampa, Berlino, 1929. Da sinistra: Marlene Dietrich, Maria Paudler, Luigi Pirandello, Liane Haid, Max Hansen, Anita Davis, Anni Ahlers, and Theodor Daeubler (Photo by ADN-Bildarchiv)

 

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Le donne, i cavalier…: Ludovico Ariosto

Ludovico Ariosto - Wikipedia

“All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa sino a un certo punto: è la protagonista d’un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato…”

Italo Calvino legge il Furioso. CLICCA QUI

Ariosto e i protagonisti della storia del Rinascimento.

Ariosto e Ferrara: itinerari.

Per sintetizzare: dall’epica classica al romanzo cavalleresco. PREZI di Carlo Mariani.

Dall’Orlando innamorato al Furioso: M.M. BOIARDO,Orlando innamorato, Libro III, canto IX, 1494):

26 Mentre che io canto, o Iddio redentore,
Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non so che loco;
Però vi lascio in questo vano amore
De Fiordespina ardente a poco a poco;
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Racontarovi il tutto per espresso.

Immagine correlata

“Le trame principali [del Furioso], ricordiamo, sono due: la prima racconta come Orlando divenne, da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per l’assenza del loro campione, rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi.  Parallela a questa si snoda la seconda trama, quella dei predestinati ma sempre procrastinati amori di Ruggiero, campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale, finché il guerriero non riesce a cambiare di campo, a ricevere il battesimo e a impalmare la robusta innamorata. La trama Ruggiero-Bradamante non è meno importante di quella Orlando-Angelica, perché da quella coppia Ariosto (come già Boiardo) vuol far discendere la genealogia degli Estensi, cioè non solo giustificare il poema agli occhi dei suoi committenti, ma soprattutto legare il tempo mitico della cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e d’Italia. Le due trame principali e le loro numerose ramificazioni procedono dunque intrecciate, ma s’annodano alla loro volta intorno al tronco più propriamente epico del poema, cioè gli sviluppi della guerra tra l’imperatore Carlo Magno e il re d’Africa Agramante. Questa epopea si concentra soprattutto in un blocco di canti che trattano l’assedio di Parigi da parte dei Mori, la controffensiva cristiana, le discordia in campo d’Agramante. L’assedio di Parigi è un po’ come il centro di gravità del poema, così come la città di Parigi si presenta come suo ombelico geografico”.

I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» (1974), in ID., Perché leggere i classici, Milano 1991

Il vero “tema” del Furioso è la conoscenza. Tutti, qui, dall’inizio alla fine, inseguono qualcosa o qualcuno, e ne sono inseguiti, perché non lo godono, non lo vedono, non lo sanno, e invece vogliono saperlo, vederlo, goderlo.

C. BOLOGNA, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, Vol. II, a cura di AlbertoAsor Rosa, Einaudi,Torino 1993

J.L. BORGES, Ariosto e gli arabi (Ariosto y los árabes), in  L’artefice, Milano, Rizzoli, 1963, I Meridiani, Mondadori

Nessuno può scrivere un libro. Un libro
perché esista davvero, è necessaria
l’aurora col tramonto, secoli, armi
e il vasto mare che unisce e divide.

Così pensava Ariosto, che al piacere
lento si dette, nell’ozio di vie
di neri pini e di lucenti marmi,
di tornare a sognare il già sognato.

L’aria della sua Italia era abitata
dai sogni che, in figura della guerra
che in duri secoli afflisse la terra,
insieme ordirono memoria e oblio.

Una legione persa nella valli
d’Aquitania perì in un’imboscata;
così nacque il bel sogno di una spada
e del corno sonante in Roncisvalle.

I suoi idoli e i suoi eserciti il duro
sàssone sui giardini d’Inghilterra
lanciò in pericolosa e fiera guerra
e di questo rimase un sogno: Arturo.

Dal settentrione dove un cieco sole
abbaglia il mare, giunse il sogno d’una
dormiente vergine che il suo signore
attende, dentro un circolo di fuoco.

Chissà se dalla Persia o dal Parnaso
venne quel sogno del destriero alato
che per l’aria l’incantatore armato
spinge, e sprofonda nel deserto occaso.

Quasi in groppa a quel magico cavallo,
Ariosto vide i regni della terra
solcata dalla festa della guerra
e del giovane amore avventuroso.

Come attraverso tenue bruma d’oro
vide in basso un giardino che i confini
dilata in altri segreti giardini
per l’amore di Angelica e Medoro.

Al pari degl’illusori splendori
che all’indù lascia intravedere l’oppio,
passano per il Furioso gli amori
in un delirio di caleidoscopio.

Né l’amore ignorò né l’ironia,
perciò sognò, con arguzia discreta,
il singolare castello ove tutto
è (come in questa vita) falsità.

Come a ogni poeta, la fortuna
o il destino gli diè una sorte rara;
andava per le strade di Ferrara
e al tempo stesso andava per la luna.

Quel che resta dei sogni, l’indistinto
limo che il Nilo dei sogni abbandona,
con questo fu tessuta la matassa
di quel suo risplendente labirinto.

Di quel grande diamante dove un uomo
può ben perdersi avventuratamente
in circoli di musica indolente,
dimenticando il suo corpo e il suo nome.

Europa intera si perdette. In grazia
di quell’ingenua e maliziosa arte,
poté piangere Milton Brandimarte
morente e di Darinda l’afflizione.

Europa si perdette, ma altri doni
diè il vasto sogno alla famosa gente
che abita i deserti dell’Oriente
e la notte gremita di leoni.

Di un re che dona, allo spuntar del giorno,
la sua regina d’una notte all’avida
scimitarra, ci narra il dilettoso
libro che ancora affascina le ore.

Ali di notte improvvisa, crudeli
artigli da cui pende un elefante,
monti magnetici che con l’amante
loro abbraccio frantumano i velieri,

la terra retta da un toro ed il toro
da un pesce; arcani abracadabra, magici
talismani, parole misteriose
che nel sasso spalancano antri d’oro;

questo sognò la saracena gente
che segue la bandiera d’Agramante;
questo, che vaghi volti con turbante
sognarono, poi invase l’Occidente.

L’Orlando è adesso  una ridente terra
che apre le sue disabitate miglia
di oziose e innocenti meraviglie
che sono un sogno che nessuno sogna.

Dalle islamiche arti tramutato
in sola erudizione, in mera storia,
sta solo, nel suo sogno. (Ché la gloria
è una delle forme dell’oblio.)

Poi vetro fatto pallido l’incerta
luce d’un altra sera tocca il libro
e nuovamente arde e si consuma
l’oro che ne abbellisce la coperta.

Nella deserta sala il silenzioso
volume viaggia nel tempo. Le aurore
restano indietro e le notturne ore
e la mia vita, delirio affannoso.

Ariosto è colui che ha insegnato a gestire il tempo narrativo nella modernità, costruendo un racconto capace di rappresentare la simultaneità di varie storie sulla scena del mondo. Rendere conto della contemporaneità degli eventi e della varietà delle situazioni sarà possibile, nel romanzo moderno, solo grazie alla lezione dell’antico maestro ferrarese.

S. Jossa, Ariosto oggi, “Le parole e le cose”,  

Lorenzo Jovanotti Cherubini, Orlando furioso è magia. E sembra un film di 007, “La Repubblica – Venerdì”, 22 settembre 2016

I  libri non si consigliano, sono come le fidanzate, si incontrano, scatta la scintilla, ci si innamora. Se consigliassi a qualcuno che non conosco di leggere Ariosto non farei cosa saggia, perché è difficile, illeggibile, non ci si capisce niente, mi tornerebbe indietro con punto interrogativo nello sguardo. Non ha senso leggere oggi Orlando furioso, a meno che non capiti qualcosa che ti fa innamorare, come è capitato a me, molti anni dopo averlo sentito appena nominare a scuola.
Negli anni del liceo io scappavo come un cavallo e Ariosto lo sfiorai appena, era un nome in una canzone di Venditti, lo guardai passare come Angelica in fuga nella prima scena. Pochi professori si lanciano all’inseguimento , perché è troppa la roba da fare nel programma per fermarsi a lungo nel poema che non si ferma mai, che comincia già iniziato (come un film di 007) e finisce senza finire (come un film di 007, ma di quelli di oggi, con un sacco di azione e di effetti speciali). Così che io l’ho scoperto a quasi 40 anni, grazie a un mio amico che non finirò mai di ringraziare per avermela presentata, la lingua di Ariosto, la sua fantasia.

Leggi questa, mi disse, ed era la pagina in cui Astolfo va sulla luna “altri fiumi altri laghi altre campagne…”. Lascio ai letterati le analisi e le informazioni, e li ringrazio da lettore, io sono qui attaccato alla transenna con la fascia in testa a fare il fan di Ludovico Ariosto e del suo innumerevole spettacolo di energia e azione, dove le parole schizzano come sangue finto in un film di Tarantino. Il ritmo, la velocità, la precisione delle scene, il montaggio, le zoomate repentine, la scenografia, la fantasia della lingua, la precisione dell’ottava rima, l’invenzione continua, la sensualità, le battaglie, il divertimento, la mancanza di giudizio. Il puro entertainment, l’elettricità, la luce.

Il Poema si svolge in un adesso assoluto, in un mezzogiorno continuo di un mondo sconfinato  eppure percorribile a salti come fosse un campetto di pallone in periferia, dove non cala mai la sera e il metallo delle armature lampeggia e fa socchiudere gli occhi, come in un film dei transformer, ma con la maestria poetica di un signore che ha dedicato una vita a scolpire le parole e poi a lubrificarle. Un incrocio tra Michelangelo e un ingegnere aeronautico. L’ottava rima è la madre del free style improvvisato, eppure Ariosto ci ha messo trent’anni a cesellare le rime, perché questa poema è tutto e il suo contrario, è jazz e partitura, coreografia e delirio, attrazione e cura.

Orlando furioso sta alla letteratura come la scoperta dell’America (che è contemporanea al poema) sta alla geografia (fisica e politica, risorse del sottosuolo, muschi e licheni, guerre di conquista). Colombo pensava di aver trovato una scorciatoia per le Indie, ma era appena sbarcato in un mondo nuovo, che da allora è sempre rimasto nuovo. Gli eredi di Ariosto non sono solo gli scrittori ma i registi, gli inventori, i ballerini di liscio, i programmatori di software, i disegnatori di fumetti, i viaggiatori, i cuochi, gli amanti, i pazzi, i calciatori, i maghi, le contorsioniste, le rockstar e gli astronauti.

Perché adoro Orlando furioso? Non so rispondere, è amore, è furia, attrazione irragionevole e gratitudine. Se leggo una pagina a caso poi alzo gli occhi dal libro ed è tutto diverso, come se avessi preso una pozione magica, e succede ogni volta, non lo so perché, ditemelo voi, io continuo a leggere.

http://www.youtube.com/watch?v=jcwqIYb9cKM

Chiara Fenoglio, Il cavaliere resistente. Gli errori (deliberati) e il meraviglioso: così Ariosto creò una realtà parallela, “Corriere della Sera”, 8 ottobre 2016

Italo Calvino (il più ariostesco, insieme a Borges, tra gli autori novecenteschi) era solito dire che l’Orlando Furioso contiene tutto il mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol essere mondo: nel rispecchiamento e nella rifrazione, come nel labirinto per Borges, Calvino fonda il rapporto tra «mondo scritto» e «mondo non scritto». La metafora del libro della natura ha peraltro una lunga tradizione, dall’idea medievale che il cosmo sia il libro attraverso cui Dio ci parla, a quella rinascimentale portata a compimento da Montaigne che vi vede lo specchio da scrutare per conoscere se stessi. Un mondo che nel capolavoro ariostesco, di cui si celebrano i 500 anni dalla prima edizione, si configura nell’immagine della corte estense.
E proprio alla corte di Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, è in corso la mostra Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? che celebra l’immaginario e la visionarietà del poeta ponendo in dialogo la sua opera con dipinti, sculture, libri, armi e oggetti rari capaci di restituire l’universo culturale e artistico in cui Ariosto si muoveva, come avviene con il corno d’avorio dell’XI secolo, in cui è tradizionalmente riconosciuto l’olifante suonato da Orlando a Roncisvalle.
Si tratta di una mostra policentrica, proprio come il Furioso, poema del movimento, della dilatazione e della dispersione, e insieme poema della visione e dell’illusione, della trasfigurazione onirica della realtà: se per Caldèron de la Barca la vita è sogno, per Ariosto il sogno consente di descrivere la realtà proprio in forza della sua inconsistenza. Il poema è «finzion d’incanto» che fa apparire «rosso il giallo», ma in assenza del quale tuttavia nessuna esperienza del mondo sarebbe possibile. Nel Furioso ogni forma, ogni corpo, ogni parola emerge «con l’evidenza della cosa reale» ma, come ha osservato Vittorio Sereni, sfugge a chi tenti di ghermirla «rivelando la propria aerea sostanza».
Il favoloso è lì, solido ed evidente nei nostri sogni, ma scompare come un fantasma appena riapriamo gli occhi. Dunque in questo breve battito di ciglia, l’immaginario si proietta sulla realtà e fornisce una misura al mondo: ogni immagine, come ogni ottava, è lo spazio che Ariosto attraversa per organizzare il caos, contenere la pura estensione della materia nei confini ordinati del poema, emblema di un mondo e di una società ideali.
L’incanto naturalmente è fallace, nasconde i «felici errori» che Leopardi addebita ad Ariosto, le belle favole, gli «strani pensieri» in cui il poeta si rifugia, e che costituiscono dal punto di vista del moderno una regressione nel mito e nel meraviglioso: ma sono anche, secondo questo Leopardi, un errore liberamente assunto da Ariosto, per proteggerci dai guasti e dai mostri della storia. Così nella Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù di Mantegna, ammirata da Ariosto nello studiolo d’Isabella d’Este, ritroviamo le stravaganze che Ruggiero incontra nel regno di Armida nel canto VI: da Astolfo mutato in mirto, alla «strana torma» di alcuni esseri che «dal collo in giù d’uomini han forma, /con viso altri di simie, altri di gatti; /stampano alcun’ con piè caprigni l’orma; /alcuni son centauri agili et atti; /son gioveni impudenti e vecchi stolti, /chi nudi e chi di strane pelli involti». Analogamente, per le descrizioni delle battaglie Ariosto attinge al vasto repertorio di combattimenti e di cavalieri medievali, di tradizione francese e non solo, che dal San Giorgio di Paolo Uccello giungono fino al Gattamelata di Giorgione. L’immagine di Angelica è compresa e plasmata a partire da due modelli femminili assai diversi: la Venere botticelliana i cui capelli si intorcono come i nodi d’amore e la Giuditta guerriera di Marco Zoppo.

 Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù
Andrea Mantegna, Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù

Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi moderni (in anticipo di cent’anni su Cervantes, con cui la mostra si chiude), il Furioso connette il tempo mitico dei «cavallieri antiqui» alle vicende a lui contemporanee, alle guerre tra Francesco I e Carlo V per l’egemonia nel nord Italia, ma soprattutto connette il tempo perduto del sogno alla realtà.
E lo fa con un linguaggio naturale, una discorsività alta capace di giocare con gli «accessori inessenziali del linguaggio» già descritti da De Sanctis. Grazie a questo stile, plasmato sulle regole di Pietro Bembo, Ariosto crea il «puro e dolce idioma nostro, /levato fuor del volgar uso tetro», grazie al quale il Furioso è giunto fino a noi, fino alla riproposizione teatrale di Sanguineti-Ronconi, alle riletture di Calvino e di Celati.
Il poema dell’armonia descritto da Croce è diventato il poema della mobilità e dell’intrico, scomposto e ricomposto, come la fortuna scompone e ricompone le vicende umane, con infinita varietà del possibile: il vero protagonista di questo poema del vagabondaggio, è quel teatro del mondo che aveva trovato nella corte rinascimentale la sua incarnazione più vitale.

Giocando con Orlando, liberamente tratto da Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, con Stefano Accorsi e Marco Balianiadattamento teatrale e regia di Marco Baliani. Scene di Mimmo Paladino.

MELANIA MAZZUCCO, Ariosto, l’uomo che inventò il fantasy, “Il Venerdì di Repubblica”, 16 settembre 2016

Ogni italiano ha sentito nominare il gran poema di Ludovico Ariosto, l’Orlando furioso, di cui quest’anno ricorre il 500° anniversario. Molti ne hanno letto svogliatamente qualche brano nell’antologia scolastica – per lo più la scena della pazzia del conte che, tradito dalla bella Angelica, si spoglia nudo e si accanisce a sfasciare alberi e piante. Pochissimi, però, lo hanno letto davvero – si intende: dall’inizio alla fine. Né sono stati invogliati a farlo.
Perfino quando la Rai divulgava a puntate e in bianco e nero i capolavori della letteratura italiana e mondiale (dai Promessi sposi ai Fratelli Karamazov fino al Mulino del Po) nessuno ne azzardò una riduzione. Trama improbabile e dispersiva? Troppi personaggi? Troppa violenza esagerata? Troppo fantastico? La versione televisiva del celebrato spettacolo di Luca Ronconi passò sul piccolo schermo solo nel 1975. Ma anche il nostro cinema non ha mai creduto nell’intrattenimento colto e insieme popolare: gli spettatori italiani che avevano affollato le sale per Excalibur non colsero il richiamo del film fantastico-cavalleresco di Giacomo Battiato, I Paladini, imperniato sulla vicenda di Ruggero e Bradamante (1983). Da allora, salvo un’opera-movie statunitense da Vivaldi con Marilyn Horne nel ruolo di Orlando, più nulla. I cavalieri di re Carlo e i loro omologhi saraceni spariscono, inghiottiti nelle elitarie contrade dell’accademia.
È un’eclissi che grida vendetta. Per secoli l’Orlando furioso è stato uno dei pochi libri italiani che tutti avevano letto – non per dovere o studio ma per diletto, cioè per il motivo principale per cui in fondo si dovrebbe dedicare una parte del proprio tempo alla lettura. Le edizioni, le traduzioni in tutte le lingue, e le ristampe (anche pirata) non si contano. Come i seguiti, i rifacimenti, le continuazioni delle avventure di un singolo personaggio, marginale nell’opera magna ma eletto a protagonista nell’opera derivata (oggi nella narrativa globale si preferiscono i termini inglesi sequel, remake, spin off) – che qualsiasi poetastro si sentiva autorizzato a comporre. Perfino l’onomastica italiana ne fu mutata, e città e campagne, corti e bordelli conobbero un profluvio di Doralice, Olimpia, Isabella, Ginevra. Né si contano i quadri ispirati ai personaggi del poema (per lo più femmine nude in pericolo), che i pittori di tutta Europa dipinsero dalla sua pubblicazione e fino alla fine dell’Ottocento.
Il mondo dell’Orlando furioso – un patrimonio inesauribile di personaggi, avventure, sogni, follie – ha accomunato per secoli ricchi e poveri, dotti e illetterati, aristocratici e calzolai. Nelle contrade più remote pastori e pecorai sapevano recitarlo a memoria, e improvvisare varianti della storia per il diletto dei viandanti. Ancora negli anni Settanta tutti sapevano chi fossero Atlante, Medoro, Fiordiligi. In meno di tre decenni, ogni ricordo si è perduto. I duelli di Rinaldo, Mandricardo, Bradamante, Marfisa e infiniti altri, i viaggi, le magie, gli incantesimi, le ricerche insensate, le folli fughe, non hanno lasciato impronte nel nostro immaginario collettivo di italiani – in cui galleggiano, nel migliore dei casi, frantumi sparsi di versi. Ridotti a citazioni ironiche («ecco il giudicio uman come spesso erra!»), o parole entrate nell’uso comune («gradasso», «rodomonte») di cui si è dimenticata la fonte. Le invenzioni di Ariosto hanno fecondato il genere fantastico (oggi si preferisce dire fantasy), e perfino lo splatter e il pulp – ma pochi tra quanti esaltano i sanguinolenti duelli delle serie tv oggi in gran voga ricordano l’archetipo da cui sgorga il piacere inverosimile dell’avventura.
Sicché meritati e dovuti appaiono i molti eventi, le presentazioni, i reading e le mostre che sono stati organizzati in tutta Italia per celebrare i 500 anni dell’Orlando. Il culmine sarà giustamente a Ferrara, città nella quale tutto ebbe inizio: con la mostra che inaugurerà a Palazzo Diamanti il 24 settembre. L’intuizione dei curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura è feconda, perché capovolge la prospettiva. La mostra, scandita in sezioni tematiche, non inseguirà la fortuna del poema nella storia della cultura italiana ed europea, ma risalirà a ritroso fino alla sua origine. A specchio del libro, sarà un viaggio imprevedibile nel mondo reale e immaginario dello scrittore. A raccontare la genesi della sua opera saranno oggetti, manoscritti, disegni, quadri. Vedremo Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi. I personaggi della corte estense, i suoi amici e protettori, le battaglie combattute dai condottieri suoi contemporanei, gli strumenti musicali, i tarocchi… La sfida è affascinante e va vissuta come un gioco.
Ognuno provi a chiedersi cosa vede quando chiude gli occhi e pensa: Orlando furioso, e compili il suo elenco. Il mio? La Durindana, i cavalli Brigliadoro e Rabicano, l’anello fatato e la lancia magica di Bradamante, le armature lucenti, gli elmi, le ampolle col senno perduto degli uomini, le navi sbattute dalle tempeste… Li troverò alla mostra?
In massima parte sì. Mi incanterà l’olifante d’avorio, prezioso reperto dell’XI secolo, che il paladino Orlando suonò (troppo tardi) a Roncisvalle, prima di essere disfatto dai Mori (in verità dai Baschi, ma il conflitto cristiano-musulmano è più intrigante per l’epica popolare e su esso si fonda la narrativa romanza). Mi incanteranno la spada di Boabdil, ultimo re moro di Spagna (nonché capostipite del narratore del torrenziale romanzo di Salman Rushdie, L’ultimo sospiro del moro), le armature da giostra, le selle, i cimieri. E la straordinaria sfera dell’obelisco di Sisto V: oggetto enigmatico e suggestivo che si riteneva contenesse le ceneri di Giulio Cesare (forse a questa pensava Ariosto quando inventò le ampolle del senno perduto, ma non sapeva ancora che la sfera era vuota: l’apertura avvenne dopo la sua morte). Il raffinato disegno a penna di Marco Zoppo, Busto di donna guerriera, custodito nella collezione del British Museum, che pare proprio il ritratto di Bradamante, o di Marfisa. Ma siccome fu schizzato decenni prima della composizione del poema, fa domandare chi ne sia stata l’altera modella – se una donna davvero esistita, oppure un fantasma sognato dall’artista.
E poi i manoscritti e i libri magnifici di fine Quattrocento, identici a quelli che ci ostiniamo a leggere ancora in epoca digitale (poiché il libro di carta è un oggetto imperfettibile, e perfino prima dell’invenzione dei caratteri a stampa aveva già trovato la sua forma finale). Quei libri preziosi come reliquie contengono, in varie lingue, le storie dei cavalieri di Re Artù, Lancillotto, Galvano, la maga Melusina – che Ariosto lesse con diletto e cui con disinvoltura attinse, perché in letteratura niente viene dal niente, e lui pescò le sue storie nel mare magno di quelle scritte da altri (dalle chansons de geste dei paladini di Carlo Magno al ciclo bretone della Tavola Rotonda, dai miti classici, per lo più nella variante sorridente, incredula e fantastica di Ovidio, fino alle favole e al folclore popolare), combinandole tra loro in un modo, un tono, e una lingua che erano solo suoi.
E perciò – tra i molti capolavori pittorici esposti (da Mantegna a Tiziano) – mi soffermerò ad ammirare la Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo. Dipinta a Firenze intorno al 1510, illustra il mito greco con inverosimiglianza grottesca e bizzarra tenerezza. Nel suo eroe volante, Perseo, nel mostro che minaccia la fanciulla e nella lattea nudità di costei risplende la stessa irreale, lunare poesia che bagna le contrade ariostesche e i suoi improbabili eroi. Affinità di spiriti congeniali, forse. Ma mi piace pensare che Piero di Cosimo fece in tempo, qualche anno dopo, a leggere l’Orlando furioso e a scoprire che qualcuno avrebbe potuto recuperare sulla Luna il suo senno perduto: maestro negletto, furioso e misantropo come Orlando (e infatti giudicato pazzo dai suoi contemporanei) si spense nel 1522.

Liberazione di Andromeda - Wikipedia

Ma soprattutto mi incanterà la Carta del navecaredatata 1502: di anonimo portoghese, è uno dei tesori della Biblioteca Estense (dunque la videro i mecenati di Ariosto e Ariosto stesso). Chinatevi a leggere i nomi dei luoghi, degli oceani, dei fiumi. Anche l’universo ariostesco pullula di nomi di luoghi lontani, esotici e però reali, capaci di far sognare i lettori. Il Catai, la Soria, la selva d’Ardenna, il Barbante… Essi svolgono la stessa funzione dei toponimi indiani e malesi disseminati nei romanzi di Salgari. Nell’insieme, formano una geografia fantastica come la mappa del tesoro, inventano un mondo privo di confini – in cui tutto è lontano e insieme vicino, tutto si assomiglia e tutto è diverso, tutto è vero e insieme inesistente. I capitani e i marinai che prendevano il mare nel XVI secolo cercavano su quella carta la rotta capace di condurre la loro nave nel porto del desiderio. Mi piace pensare che la Carta diafana sarà per tutti noi visitatori un invito a cercare nel labirinto delle pagine di Ariosto la rotta capace di appagare il nostro desiderio di evasione, divertimento, sogno – e che sarà soltanto nostra.

La programmazione straordinaria di Rai Cultura su Arti e Storia ...

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Italo Svevo

Franco Basaglia:  la Trieste di Italo Svevo (Video Rai).

“Un`intervista allo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), che parla della situazione in cui versa la città di Trieste relativamente al malessere sociale e psichico. Alla fine della prima guerra mondiale Trieste era una città difficile, provata, in cui la borghesia aveva ormai perso il suo potere dopo il periodo d`oro dell`impero asburgico. Italo Svevo, attraverso il personaggio di Zeno Cosini, rappresenta il fantasma di questa borghesia in disfacimento, proprio nel periodo in cui a Vienna anche Freud ne smascherava le debolezze. La coscienza di Zeno è la parabola della borghesia che non sa decidere, che non prende posizione: rappresenta la fine di un’epoca. L’unità fornisce poi alcuni dati statistici: Trieste aveva a quel tempo percentuali altissime di malati di tubercolosi, di suicidi, di persone con disturbi mentali. Basaglia commenta questi dati, affermando che la tubercolosi era una malattia tipica della borghesia, mentre il suicidio non va assimilato alle malattie mentali ma si lega a problematiche presenti nella cultura austriaca e nei paesi nordici. Al discorso dello psichiatra, si alternano spezzoni dello sceneggiato La coscienza di Zeno (1966) di Daniele D’Anza, interpretato da Alberto Lionello. Zeno, nel passaggio finale del romanzo, esprime la profezia di una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni, attraverso cui l’umanità finalmente guarirà dai germi e dalle malattie di cui si nutre. Basaglia conferma la paura di Svevo per la malattia, come problema di controllo sociale da parte della borghesia: c’è bisogno della morte per avere la vita”.

La biografia di Svevo. Video RAI.

Italo Svevo e la medicina. Video realizzato per la mostra al Museo Sveviano GUARIRE DALLA CURA. CLICCA QUI.

Joyce a Trieste. VIDEO RAI.

 

Italo Svevo sul web. Sito a cura dell’Università di Trieste.

Il sito del Museo sveviano di Trieste. LA Trieste di Svevo: mappa in PDF a cura del Museo Sveviano.

Dal sito Zanichelli: Freud e Svevo.

G. Davico Bonino presenta La coscienza di Zeno.

 

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Umberto Eco su Italo Calvino

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La morale è nella leggerezza, “Domenica – Il Sole 24 ore”, 26 maggio 2013

Così il «Barone rampante» nel 1957 forgiò in Eco l’idea del ruolo dell’intellettuale, né organico né pifferaio della rivoluzione ma distaccato osservatore critico della realtà

Vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.

Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che II visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente II sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.

Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi II barone rampantenel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.

È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, «catturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e di diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.

Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo. Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica – il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme «Il menabò», una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, «Il Politecnico». Ovviamente venne considerato un traditore del proletariato. «Il Politecnico» morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.

Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dalBarone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.

Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sè, che assume come proprio fardello». Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società.

Cosimo decide di trascorretela propria intera vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà, acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, 0 di “Schelm”, non così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento, trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma sull’intera Europa.

Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader rivoluzionario – ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli eccessi dei propri idoli.

Non nel romanzo, ma in un successivo commento degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario.

Questo tipo di lezione fu per me fondamentale. Ricordo che anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche ultrapoliticizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della destra italiana.

Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per concludere con le parole di Calvino: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno 0 nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro».

Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa l’eredità che ci lascia.

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RIFLESSIONI SU UN CAPITOLO DI SVEVO

 Lectio magistralis «Riflessioni su un capitolo di Svevo» con la quale lo scrittore Andrea Camilleri ha ricevuto  a Cagliari la Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Moderne Europee e Americane (la laudatio è stata tenuta dal professor Giuseppe Marci). 

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Eugenio Montale

VIDEOLEZIONI di A. Cortellessa:

Vita e opere

Raccomando ai miei posteri
(se ne saranno) in sede letteraria,
il che resta improbabile, di fare
un bel falò di tutto che riguardi
la mia vita, i miei fatti, i miei non-fatti.
Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere
ed è già troppo vivere in percentuale.
Vissi al cinque per cento, non aumentate
la dose. Troppo spesso invece piove
sul bagnato.

da Diario del ’71 e del ’72

F. de Pisis, Natura morta marina, 1929

 

Da Ossi di seppia:  Meriggiare pallido e assortoSpesso il male di vivere…, I limoni

No, non penso a una poesia filosofica, che diffonda idee. Chi ci pensa più? Il bisogno di un poeta è la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell’uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile.
Eugenio Montale, Intenzioni, 1946

Da Le Occasioni: La casa dei doganieri

Da La Bufera e altro: Piccolo testamento

Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo.

Dal discorso di Montale per la consegna del Premio Nobel per la letteratura, Stoccolma, 12 Dicembre 1975

Filippo de Pisis, Foglia

 

Parla Eugenio Montale:

Intervista e letture poetiche (a cura di RAIEdu)

Poesia e prosa secondo E. Montale: intervista al poeta.

L’ultimo Montale

I primi tre libri sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio. Forse mi sono reso conto che non potevo continuare a inneggiare a Clizia, alla Volpe, a Iride, che del resto non esistevano piú nella mia vita. Quando scrivevo i primi libri non sapevo che avrei raggiunto gli ottant’anni. Passati gli anni, guardandovi dentro ho scoperto che si poteva fare altro, l’opposto anche. […] Non ho neppure scelto la soluzione di Mallarmé, che nei suoi ultimi dieci anni di vita non scrisse piú poesie.

Da Le reazioni di Montale (conversazioni), Profilo di un autore: Eugenio Montale, a cura di Annalisa Cima e Cesare Segre, Bur, Milano 1977

 

Falsetto, da Ossi di seppia, 1925

Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un’avventura più lontana
l’intento viso che assembra
l’arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t’avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d’incrinata brocca
percossa!; io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.

La dubbia dimane non t’impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.
L’acqua è la forza che ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo,
come un’equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito più pura
Hai ben ragione tu! Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizî
del tuo domani oscuro.
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
Cabbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.

Falsetto

Esterina, twenty’s out for you,
rose-gray cloud that’s slowly
closing in on you.
You know, but you’re fearless all the same.
We’ll see you swallowed by the haze
the wind breaks through
or whips up, wild.
Then you’ll emerge from the ashen wave
browner than ever,
face like Diana
the archer’s intent
on a farther adventure.
Your twenty falls are rising,
past springs fold you in;
now an omen tolls for you
in the Elysian spheres.
May no sound leave
you thunderstruck,
like a cracked jug;
let it be for you an ineffable
concert of collarbells.

Unknowable tomorrow doesn’t faze you.
Lying lithe
on the rock that shimmers
with salt, you bake in the sun.
You make me think of the lizard,
stock-still on naked rock;
youth is waiting
like the hoy’s grass snare.
Water is the power that tempers you,
you find yourself, renew yourself in her:
to us you’re seaweed or a stone,
a water creature
salt can’t corrode
that shows up all the purer on the shore.
How right you are! Don’t muddy
the happy present with worry.
Your gaiety already
has mortgaged the future,
and a shrug demolishes
the tall walls of your clouded tomorrow.
You rise and head for the platform
over the hissing deep,
profile etched against a pearl background.
At the end of the quivering board
you hesitate, then smile,
and as if snared by a wind,
hurl yourself into the arms of the godlike
friend who pulls you down.

We watch you, we of the race
who are earthbound.

Traduzione di Jonathan Galassi

 

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Alexander Calder

Calder-lollipopsAlexander Calder“Mobile in alto/ stabile in basso/così è la Torrer Eiffel./ Calder è come lei/ …Ingegnere ilare/ architetto inquietante/ scultore del tempo./ Così è Calder” (Jacques Prévert).

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Passa la nave mia colma d’oblio

F. Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, 189

Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.

A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze, et di desio.

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna et rallenta le già stanche sarte,
che son d’error con ignorantia attorto.

Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l’onde è la ragion et l’arte,
tal ch’incomincio a desperar del porto.

“In questo sonetto – che nella redazione cosiddetta Chigi del Canzoniere (1359-63) costituiva parte di un trittico dedicato al tema del viaggio – Petrarca utilizza la metafora della navigazione per indicare il suo percorso esistenziale e poetico. Qui la navigatio marina, più che la peregrinatio terrestre, consente al poeta di rappresentare il proprio travagliato mondo interiore, la cui condizione non è quella dell’andare ma del fluttuare; lungi dall’approdare a una meta sicura, la navigazione conduce la nave dell’io a una condizione di possibile naufragio.
Come rivela tra l’altro il riferimento ai mortali scogli di Scilla e Cariddi (al v. 3), Petrarca assume le sembianze di un Ulisse navigatore, che rende imprescindibile il riferimento al precedente dantesco. Tuttavia la navicella dell’Ulisse di Dante forza le colonne d’Ercole, rendendo il viaggio espressione della sete indomita di conoscenza dell’uomo che volge il proprio sguardo intellettuale verso l’esterno (l’idea della sapientiae cupido di Ulisse compare per la prima volta nel De finibus di Cicerone). Al contrario la nave dell’UIisse-Petrarca compie il proprio itinerario verso l’interiorità, e non consegue nessuna conoscenza, non giunge a nessuna certezza: spalanca, piuttosto, gli abissi dell’ignorantia (al v. 11: il vocabolo compare solo in questo punto del Canzoniere, e per di più accanto a errore, termine programmatico della poesia petrarchesca). Oblio, errore, ignorantia sono le forze irrazionali che governano il viaggio esistenziale del poeta, in balia del dispotico amore che tiene saldo il timone della sua barca. Errore, poi, trova qui il proprio valore etimologico più pieno e si identifica con lo stesso errare della nave petrarchesca senza rotta, piccolo vascello di un naufrago le cui fragili parti (vela, sarta) sono esposte a una tempesta di elementi che diventano tutt’uno con le forze emotive del poeta: il vento dei sospiri, la pioggia delle lacrime e la nebbia degli sdegni (vv. 8-9). Si ricorda che anche Dante nel Canto l dell’Inferno (vv. 22-27) propone una metafora marina per designare la situazione di chi – lui stesso – si era trovato a un passo dal medesimo naufragio-morte di Ulisse. Nel caso di Dante però interviene un fatto provvidenziale che lo porta a invertire la rotta. Per il Petrarca protagonista di Passa la nave mia, invece, questo intervento provvidenziale non vi è stato. Nel prologo della Commedia il protagonista ha superato il rischio di naufragio e può guardarsi indietro con la rasserenante consapevolezza di esserne ormai fuori; al contrario, nel sonetto petrarchesco il poeta si trova nel pieno del pericolo, con una salvezza che appare lontana e problematica da raggiungere. Pertanto, si potrebbe quasi dire che il mito-modello di Ulisse sia molto più vicino alla realtà di Petrarca che a quella di Dante: se Dante appare anzi una sorta di anti-Ulisse, Petrarca vede rispecchiata nell’eroe greco la propria condizione di errante senza meta e senza pace.”

da. L. Chines – M. Guerra, Petrarca, Bruno Mondadori, 2005

Testi a confronto:

Arthur RimbaudIl battello ebbro [Le bateau ivre], 1871

Il poeta è un battello ebbro che percorre un viaggio purificante e liberatorio, visionario, sotto cieli ignoti; poi il risveglio ed il ritorno alla realtà:

Poiché andavo scendendo lungo i Fiumi impassibili,
Sentii che i bardotti non mi guidavan più:
Ignudi ed inchiodati ai pali variopinti,
I Pellirosse striduli li avevan bersagliati
[…]

Conosco cieli che esplodono in lampi, e le trombe
E le risacche e le correnti: conosco la sera,
L’Alba che si esalta come uno stormo di colombe!
E a volte ho visto ciò che l’uomo ha creduto di vedere!

Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,
Illuminare lunghi coaguli viola,
Simili ad attori di antichissimi drammi,
I flutti che lontano rotolavano in fremiti di persiane!

Ho sognato la verde notte dalle nevi abbagliate,
bacio che sale lento agli occhi dei mari,
la circolazione di linfe inaudite,
e il giallo risveglio e blu dei fosfori cantori! […]

Ho visto fermentare enormi stagni, reti
Dove marcisce tra i giunchi un Leviatano!
Crolli d’acque in mezzo alle bonacce
e in lontananza, cateratte verso il baratro!

Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!
E orrende secche al fondo di golfi bruni
Dove serpi giganti divorati da cimici
Cadono, da alberi tortuosi, con neri profumi! […]

Io, perduto battello sotto i capelli delle anse
Scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli,
io, di cui né Monitori né velieri Anseatici
avrebbero potuto mai ripescare l’ebbra carcassa d’acqua

libero, fumante, cinto di brume violette.
o che foravo il cielo rosseggiante come un muro
che porta, squisita confettura per buoni poeti,
i licheni del sole e i moccoli d’azzurro;

io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
legno folle, scortato da neri ippocampi,
quando luglio faceva crollare a frustate’
i cieli oltremarini dai vortici infuocati;

io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe
la foia dei Behemots e i densi Maelstroms,
filando eterno tra le blu immobilità,
io rimpiango l’Europa dai balconi antichi!

Ho veduto siderali arcipelaghi! ed isole
i cui deliranti cieli sono aperti al vogatore:
E’ in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esìli,
milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?

Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
l’acre amore m’ha gonfiato di stordenti torpori.
Oh, che esploda la mia chiglia! Che io vada a infrangermi nel mare!

Se desidero un’acqua d’Europa,  è la pozzanghera
nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso
un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia
un fragile battello come una farfalla di maggio.

Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,
di filare nella scia dei portatori di cotone,
né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi,
e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni.

Cream, Tales of brave Ulysses, 1967

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