Archivi del mese: aprile 2013

Gabriele d’Annunzio

Il Vittoriale degli Italiani. VIDEO.

Correva l’anno: G. D’Annunzio. PARTE I. PARTE II. PARTE III. PARTE IV.

10-11 febbraio 1918: la Beffa di Buccari. VIDEO

9 agosto 1918: il volo su ViennaVIDEO.

Gianni Riotta, Cent’anni fa il Vate volava su Vienna, “La Stampa” 9 agosto 2018

Lanciando volantini sulla capitale nemica dimostrava le capacità ignorate dell’aviazione

Il 9 agosto del 1918 il maggiore Gabriele d’Annunzio volava, con la sua squadriglia aerea 87, Serenissima, sulla capitale nemica Vienna, non per bombardarla, ma per lanciare volantini inneggianti all’Italia. Due mesi prima, il 4 giugno, il colonnello Giulio Douhet, che di D’Annunzio era amico e con lui condivideva la fede nell’aviazione, lasciava l’esercito, sdegnato per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere la guerra aerea, che gli era costata perfino una condanna al carcere militare.
Il maggiore poeta D’Annunzio e il colonnello stratega Dohuet, l’autore de Il piacere, 1889, e il futuro autore del manuale militare di aviazione, Il dominio dell’aria, 1921, avevano redatto, terzo firmatario l’ingegner Gianni Caproni, un memorandum per il generale Carlo Porro, datato 3 luglio 1917. Chiedevano ai burocrati, come il vetusto generale Cadorna, di fondare un’aviazione indipendente, per ottenere «il dominio dell’aria».
Pionieri
Né il «Vate», come i fedelissimi appellavano D’Annunzio, né Douhet vengono ascoltati, ma non mollano. E D’Annunzio, malgrado l’incidente del gennaio ’16, che l’ha reso guercio, decide che se l’aviazione non può vincere la guerra con i bombardamenti strategici prescritti da Douhet, almeno potrà servire a un’audace azione di propaganda. Sorvolare l’orgogliosa Vienna, non per seminare bombe, ma, con «sprezzatura» cara agli Arditi, volantini con messaggi di resa per gli austriaci. D’Annunzio amava il volo da quando aveva visto uno dei primi show aerei a Brescia, nel 1909, tra gli spettatori anche lo scrittore Franz Kafka, e per aver volato col pioniere Wilbur Wright. Il suo innato senso di comunicazione estetica, lo porta subito a due raid con volantini, agosto e settembre 1915, su Trento e Trieste in mano agli austriaci.
Il poeta malvisto
Se un’idea lo anima diventa slogan, stavolta «Donec ad metam: Vienna!», lo stato maggiore non può sbatterlo in carcere con Douhet, ma lo considera uno scocciatore, e quando concede il permesso per il raid, lo fa senza entusiasmo. Ricorda lo scrittore Giordano Bruno Guerri, biografo di D’Annunzio e presidente del Vittoriale, casa-museo del poeta: «ll Comando Supremo glielo impedì, nonostante i mille chilometri percorsi in una sorvolata dimostrativa sulle Alpi per esibire la propria resistenza alla fatica. Temevano un fallimento, o addirittura la prigionia o la morte del poeta-soldato. Dopo le sue insistenze, il Comando Supremo e il Governo decisero di autorizzarlo all’impresa, di un’audacia mai tentata prima».
La clausola è però ferrea, se maltempo, caccia nemici o guasti, avessero indebolito la squadriglia di undici Ansaldo Sva (sigla dei progettisti Savoja, Verduzio, Ansaldo), il raid sarebbe stato cancellato. D’Annunzio, sempre «d’annunziano», fa giurare invece ai piloti di andare avanti a ogni costo. Il 2 agosto 1918 la squadriglia è fermata dalla nebbia. L’8, dal vento. Gli equipaggi erano esposti a intemperie e gelo, soli strumenti bussole e mappe, si volava a vista, accecati da una nuvola.

Due volantini diversi
D’Annunzio ha a bordo 50.000 volantini in italiano, sul sito Ebay se ne vende ancora qualcuno, redatti da lui in prosa magniloquente: «In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza… l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge. Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza…Il rombo della giovane ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo mattutino…o Viennesi. Viva l’Italia! »

Con maggiore realismo politico, il comando fa tradurre in tedesco un altro volantino, 350.000 copie, autore il critico Ugo Ojetti, che si conclude con un appello agli alleati, «Viva l’Italia, viva l’Intesa!» e il 10 agosto, in un dispaccio di prima pagina, il New York Times, cita proprio Ojetti, pur elogiando l’impresa di D’Annunzio, «oltre 1600 chilometri percorsi, 800 su territorio nemico» . Il raid avrà echi straordinari, la folla di Vienna ha visto i velivoli (parola coniata da D’Annunzio) volteggiare a 800 metri, con il poeta che cerca il museo con l’immagine di Santa Caterina d’Alessandria e ordina al copilota Natale Palli di incrociare indietro. La Frankfurter Zeitung lamenterà che la contraerea tedesca non abbia intercettato gli Ansaldo, l’Arbeiter Zeitung accuserà di codardia gli intellettuali «Dove sono i nostri D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato d’essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano…Anche tra noi si contano…quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l’aviatore!».
L’elogio del nemico è sempre il migliore. Ma l’Italia, pioniera del volo nell’industria, nel disegno, nella strategia, non darà seguito al raid di Vienna. D’Annunzio finirà, dopo l’occupazione di Fiume, isolato, Douhet non avrà il tempo di completare il progetto per una grande aviazione. E durante la Seconda guerra mondiale le nostre città scopriranno, con dolore, la differenza tra volantini poetici e bombe vere, tra poesia decadente e strategia efficiente, tra bel gesto e industria di massa.

«Ma da dove attingo parole per descrivere tutta l’incomprensione, lo stupore, il ribrezzo e disprezzo che provo al cospetto del poeta-politico di razza latina, del guerrafondaio tipo Gabriele D’Annunzio? Possibile che un retore e demagogo di questo stampo non rimanga mai solo e stia sempre affacciato al ‘balcone’? Non conosce solitudine, non gli vengono mai dubbi nei propri confronti, ignora la preoccupazione e il tormento per l’anima e per l’opera sua, ignora l’ironia a proposito della gloria, la vergogna dinanzi alla ‘venerazione’? E dire che a casa sua, almeno per un po’ di tempo, è stato preso sul serio, questo buffone d’artista, questo pallone gonfiato avido di ebbrezza! […] Chissà, forse un atteggiamento così passivo era possibile solo in un paese rimasto fanciullo, un paese in cui tutto il criticismo demo-politico non impedisce che gli facciano difetto proprio ogni critica e scetticismo in grande stile, un paese insomma che non ha mai avuto una profonda esperienza critica né sul piano razionale né su quello morale e tanto meno su quello dell’arte. Hanno preso sul serio D’Annunzio, la scimmia di Wagner, quell’ambizioso maestro di orge verbali…».

Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico [1918], Adelphi, Milano 1997, pp. 573-574

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Plauto

Miles gloriosus: PRIMA PARTE; SECONDA PARTE.

Efeso, Asia Minore

DRAMATIS PERSONAE

PYRGOPOLINICES, miles
ARTOTROGUS, parasitus
PALAESTRIO, servos (= servus)
PERIPLECTOMENUS, senex
SCELEDRUS, servos
PHILOCOMASIUM, mulier
PLEUSICLES, adulescens
LUCRIO, puer
MILPHIDIPPA, ancilla
SERVI PYRGOPOLINICIS
ACROTELEUTIUM, meretrix
PUER PERIPLECTOMENI
CARIO, coquos (= coquus)
LORARII

PERSONAGGI

Pirgopolinice, soldato
Artotrogo, parassita
Palestrione, servo (del soldato, già di Plèusicle)
Periplectòmeno, vecchio
Scèledro, servo (del soldato)
Filocomasio, cortigiana (amante di Plèusicle)
Plèusicle, giovane
Lucrione, schiavetto
Milfidippa, ancella (di Acrotelèuzio)
Schiavi di Pirgopolinice
Acrotelèuzio, cortigiana
Schiavetto di Periplectòmeno
Carione, cuoco
Schiavi fustigatori

ARGUMENTUM II

Meretricem ingenuam deperibat mutuo
Atheniensis iuvenis. Naupact<um> is domo
legatus abiit; miles in eandem incidit,
deportat Ephesum invitam. Servos Attici
ut nuntiaret domino factum navigat;
capitur, donatur illi captus militi.
Ad erum ut veniret Ephesum scribit. Advolat
adulescens atque in proximo devortitur
apud hospitem paternum. Medium parietem
perfodit servos, commeatus clanculum
qua foret amantum; geminam fingit mulier<is>
sororem adesse. Mox ei dominus aedium
suam clientem sollicitandum ad militem
subornât. Capitur ille; sperat nuptias
dimittit concubinam et moechus vapulat.

SECONDO SOMMARIO
Un giovane ateniese amava appassionatamente una cortigiana nata libera e ne era ricambiato. Un bel giorno dovette andarsene via da casa per un’ambasceria a Naupatto; allora un soldato piomba sulla ragazza e se la porta ad Efeso contro la sua volontà. Un servo del giovane ateniese si mette in mare per annunziare l’accaduto al padrone; ma è preso e regalato, dopo la cattura, proprio al soldato. Scrive al padrone che venga ad Efeso. Il giovanotto si precipita e va ad alloggiare nella casa accanto, presso un ospite di suo padre. Il servo buca la parete divisoria per offrire ai due amanti un passaggio clandestino per incontrarsi e inventa che è arrivata una sorella gemella della donna. Poi il padrone della casa vicina gli fornisce una sua cliente per far perdere la testa al soldato. Questi si fa adescare; carezza il progetto d’un matrimonio, licenzia la sua concubina e finisce per farsi strigliare come adultero.

ATTO PRIMO, w. 1-78

PIRGOPOLINICE (soldato), ARTOTROGO (parassita)

PIRGOPOLINICE (uscendo di casa, rivolto ai servi, nell’interno) Mi raccomando, fate sì che il mio scudo sia rifulgente di una luce più viva di quella dei raggi del sole quando il cielo è sereno; cosicché, quando venga il momento, ingaggiata la battaglia, abbagli la vista dei nemici sul campo . Quanto a questa spada , io vo-glio consolarla, perché non si lamenti e non si perda d’animo per il fatto che da tempo ormai la porto in giro lasciandola in ozio, mentre lei, poverina,  smania dal desiderio di far polpette dei nemici. Ma dov’è Artotrogo?
ARTOTROGO È qui, accanto a un uomo forte e fortunato e di bellezza regale. Un guerriero, poi… Marte non oserebbe parlare né paragonare le sue prodezze alle tue.
PIRGOPOLINICE Non è a lui che ho salvato la vita nelle pianure gorgoglionee, là dove comandante in capo era Bumbomàchide Clutomestoridisàrchide , nipote di Nettuno?
ARTOTROGO Me ne ricordo; vuoi dire quello con le armi d’oro, le cui legioni tu disperdesti con un soffio, come il vento fa con le foglie o con la paglia dei tetti.
PIRGOPOLINICE Una cosa da niente, in fede mia.
ARTOTROGO Niente davvero, per Ercole, in confronto alle altre imprese che dirò (a parte) e che tu non hai mai compiuto, (al pubblico) Se qualcuno ha mai visto un uomo più bugiardo o più vanaglorioso di questo, mi abbia pure in sua proprietà, mi impegno a diventare suo schiavo. C’è una cosa però: a casa sua si mangia un pasticcio d’olive buono da matti.
PIRGOPOLINICE Dove sei ?
ARTOTROGO Eccomi. Perdinci, come per esempio in India a quell’elefante, co-me gli hai rotto un braccio con un pugno!
PIRGOPOLINICE Come? Un braccio?
ARTOTROGO Volevo dire la coscia.
PIRGOPOLINICE E dire che l’avevo colpito sbadatamente.
ARTOTROGO Perdinci, se ce l’avessi messa tutta, il braccio sarebbe passato attraverso la pelle, le viscere e la bocca di quell’elefante!
PIRGOPOLINICE Ma non ho voglia adesso di parlare di queste cose.
ARTOTROGO Per Ercole, non vale certo la pena che tu mi racconti le tue prodezze, dato che le conosco bene, (a parte) È la pancia che mi procura tutte que-ste disgrazie: perché i denti non mi crescano, devo sorbirmi con le orecchie e devo assecondare tutte le frottole che costui s’inventerà.
PIRGOPOLINICE Che cosa volevo dire?
ARTOTROGO Ah sì, io lo so già che cosa vuoi dire: certo per Ercole, così è stato, me lo ricordo benissimo.
Pirgopolinice Che cosa?

Artotrogo Qualsiasi cosa,

Pirgopolinice Hai…
ARTOTROGO Vuoi chiedermi le tavolette. Eccole, e anche lo stilo.
PIRGOPOLINICE Fa piacere come tu sai cogliere al volo le mie intenzioni.
ARTOTROGO È mio dovere conoscere a fondo il tuo carattere e preoccuparmi di fiutare in anticipo i tuoi desideri.
PIRGOPOLINICE Ti ricordi qualcosa?
ARTOTROGO Mi ricordo sì: centocinquanta in Cilicia, cento in Scitolatronia, trenta di Sardi , sessanta Macedoni: sono gli uomini che tu hai ucciso in un solo giorno.
PIRGOPOLINICE Quanto fa in tutto?
ARTOTROGO Settemila.
PIRGOPOLINICE Sì, così dev’essere: sei bravo tu a fare i conti.
ARTOTROGO Eppure non li ho messi per iscritto; ma me li ricordo lo stesso.
PIRGOPOLINICE Perdiana, hai una memoria eccellente.
ARTOTROGO Sono i buoni bocconi a rafforzarmela.
PIRGOPOLINICE Finché continuerai a comportarti così, avrai da mangiare tutti i giorni: ti farò sempre partecipare alla mia mensa.
ARTOTROGO E allora, in Cappadocia, quella volta che tu, se non avessi avuto la spada smussata, avresti ucciso con un solo colpo cinquecento uomini tutti insieme?
PIRGOPOLINICE Ma erano dei fantaccini da quattro soldi; perciò li ho lasciati in vita.
ARTOTROGO Perché dovrei ripeterti quello che sanno tutti i mortali, e cioè che tu, Pirgopolinice, sei unico al mondo per valore, prestanza e imprese invincibilissime? Tutte le donne sono innamorate di te, e non hanno torto, visto che sei così bello. Come per esempio quelle che ieri mi hanno tirato per il mantello.
PIRGOPOLINICE Che cosa ti hanno detto?
ARTOTROGO Continuavano a farmi domande: «Ma è Achille quell’uomo?», mi dice una. «No, dico io, è suo fratello». Allora l’altra mi fa: «Perciò è così bello, per Castore, e così distinto! Guarda come gli sta bene quella pettinatura! Ah, sono davvero fortunate le donne che vanno a letto con lui!».
PIRGOPOLINICE Dicevano proprio così?
ARTOTROGO Certo; e figurati che entrambe mi hanno scongiurato di farti passare oggi da quella parte, come in processione !
PIRGOPOLINICE È una gran disgrazia essere troppo bello!
ARTOTROGO Eh, sì; sono così noiose; pregano, sollecitano,  supplicano di poterti vedere; chiedono che io ti presenti a loro, tanto che non riesco più a occuparmi dei tuoi affari.
PIRGOPOLINICE Adesso è ora di andare in piazza, perché io paghi il salario ai soldati che ho arruolato ieri. Il re Seleuco mi ha pregato con grande insistenza perché gli trovassi e gli arruolassi dei soldati. Ho deciso di dedicare al re questa giornata.
ARTOTROGO Su, allora andiamo,
PIRGOPOLINICE Guardie, seguitemi.  (ESCONO)

Plauto in Shakespeare: Falstaff

“William Shakespeare, affrontato il tema dell’ascesa al trono e dello stato mentale di Enrico IV già nel Riccardo II, opera in cui emergono anche le insoddisfazioni del re verso il figlio principe Harry, il futuro Enrico V, segue il travagliato regno di Henry Bolingbroke e le ribellioni che lo insidiano nell’ Enrico IV (prima parte, 1598), dove per la prima volta applica in modo esteso al dramma storico le strutture della commedia. Nel brano scelto sir John Falstaff attacca duramente Poins e il principe Harry per avere abbandonato lui e i tre compagni durante l’imboscata, senza riconoscere in essi i suoi assalitori mascherati, e con Peto addirittura racconta loro di essere stato vittima di un gruppo numeroso di briganti e di averli fieramente contrastati. La millanteria di Falstaff è qui tutta racchiusa nel suo sfogo di fantasticherie mendaci, corrispondenti alla vanagloriosa enumerazione dei nemici abbattuti da Pirgopolinice nel Miles gloriosus.”

Enrico IV (atto II, scena IV)

GADSHILL We four set upon some dozen.
FALSTAFF Sixteen at least, my lord.
GADSHILL And bound them. […]
GADSHILL As we were sharing, some six or seven fresh men set upon us.
FALSTAFF And unbound the rest, and then came in the other.
PRINCE What, fought you with them all?
FALSTAFF All? I know not what you call all, but if I fought not with fifty of them, I am a bunch of radish. […]
PRINCE Pray God you have not murd’red some of them.
FALSTAFF Nay, that’s past praying for: I have pepper d two of them; two I am sure I have paid – two rogues in buckram suits. I tell thee what, Hal, if I tell thee a lie, spit in my face, call me a horse… here I lay, and thus I bore my point. Four rogues in buckram let drive at me.
PRINCE What, four? Thou saidst but two even now.
FALSTAFF Four, Hal; I told thee four.
POINS Ay, ay, he said four.

GADSHILL Noi quattro piombammo addosso a circa una dozzina…
FALSTAFF – Sedici almeno, signor mio.
GADSHILLE li legammo.
GADSHILL Mentre stavamo dividendo, un sette o otto uomini freschi ci piombarono addosso
FALSTAFF Slegarono gli altri, e poi ne vennero ancora.
PRINCE E che, avete combattuto contro tutti?
FALSTAFF Tutti? Non so cosa vogliate dir con tutti, ma se io non ho combattuto con cinquanta di loro, sono un mazzo di radici. […]
PRINCE Pregate Iddio di non averne ucciso qualcuno.
FALSTAFF Che! Oramai le preghiere non giovan più. Ne ho cucinati due… due bricconi in abito di bucherarne [tessuto pregiato]. Io ti dico il vero, Rigo; se ti dico una bugia, sputami in faccia, chiamami rozza… io stavo così, e tenevo la punta in questo modo: quattro bricconi in bucherarne mi piombarono addosso.
PRINCE Come, quattro? Tu hai detto or ora soltanto due!
FALSTAFF Quattro, Rigo; ti ho detto quattro.
POINS Sì, SÌ, ha detto quattro.

FALSTAFF These four came all afront, and mainly trust at me. I made me no more ado but took all their seven points in my targets, thus.
PRINCE Seven? Why; there were but four even now.
FALSTAFF In buckram.
POINS Ay four in buckram suits.
FALSTAFF Seven, by these hilts, or I am a villain else.
PRINCE (aside to Poins) Prithee, let him alone; we shall have more anon.
FALSTAFF Dost thou hear me, Hal?
PRINCE Ay, and mark thee too, Jack.
FALSTAFF Do so, for it is worth the listening to. These nine in buckram that I told thee of…
PRINCE SO, two more already.
FALSTAFF Their points being broken…
POINS Down fell I their hose .
FALSTAFF Began to give me ground; but I followed me close, came in foot and hand, and with a thought seven of the eleven I paid.
PRINCE O monstrous! Eleven buckram men grown out of two!

FALSTAFF Questi quattro venivano di fronte e puntavano con gran vigore contro di me. Io non mi scomposi per questo, ma presi le loro sette punte sul mio scudo, così.
PRINCE Sette? Ma se or ora non ce n’erano che quattro?
FALSTAFF In bucherarne.
POINS Sì, quattro in abiti di bucherarne.
FALSTAFF Sette, per quest’elsa! o io sono uno scellerato.
PRINCE (a Poins) Ti prego, lascialo dire… Tra poco ce ne saranno di più.
FALSTAFF Mi stai a sentire, Rigo?
PRINCE Sì, e sono anche tutto orecchi, Gianni.
FALSTAFF Fai bene… Questi nove in bucherarne, dei quali ti parlavo…
PRINCE Bene, già due di più.
FALSTAFF Essendosi spezzate le loro punte…
POINS Giù caddero le loro brache.
FALSTAFF Cominciarono a cedermi terreno; ma io li incalzai da presso, li attaccai a corpo e, rapido come il pensiero, sette degli undici ne servii.
PRINCE O mostruoso! Undici uomini in bucherarne scaturiti fuori da due!
(trad. M. Praz)

Plauto  e W. A. Mozart, Don Giovanni [1787]. Libretto di Lorenzo da Ponte

L’aria del Catalogo:

Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
un catalogo egli è che ho fatt’io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V’han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V’han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età.
Nella bionda egli ha l’usanza
Di lodar la gentilezza,
Nella bruna la costanza,
Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta,
Vuol d’estate la magrotta;
È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca – se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella;
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.

 

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Il teatro romano: origini e forme

maschere

Un video della casa editrice SEI ci aiuta ad approfondire la conoscenza delle origini del teatro antico in Grecia e a Roma. CLICCA QUI.

Fabula Fabulae: il sito curato dalla prof. Orrù e dai suoi studenti, dedicato alla commedia latina. CLICCA QUI.

Nubicuculia:  il sito curato dalla prof. Orrù e dai suoi studenti, dedicato alla commedia greca. CLICCA QUI.

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Catullo

catullo

Tutti i carmina del Liber catulliano in lingua latina e in traduzione italiana.

Come leggere Catullo? Non come gli eruditi dalle “teste calve” di Yeats:

Bald heads forgetful of their sins, 
Old, learned, respectable bald heads
Edit and annotate the lines
That young men, tossing on their beds,
Rhymed out in love’s despair
To flatter beauty’s ignorant ear.
All shuffle there; all cough in ink;
All wear the carpet with their shoes;
All think what other people think;
All know the man their neighbour knows.
Lord, what would they say
Did their Catullus walk that way?

William Butler Yeats, The Scholars [1914-1915]

Teste calve, ormai ignare dei propri peccati,
vecchie, erudite e rispettabili teste calve
pubblicano e annotano i versi
che giovani uomini, tossendo nei loro letti,
hanno ritmato, disperati d’amore,
per lusingare l’orecchio impenetrabile della Bellezza.
Si trascinano a stento, tossiscono nell’inchiostro,
logorano il tappeto con le loro scarpe;
pensano ciò che tutti pensano;
conoscono le persone che i loro vicini conoscono.
Signore, che cosa potrebbero dire
se il loro Catullo dovesse incrociare il loro cammino?

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Esami di Stato 2013: Prima prova

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Il sito Zanichelli dedicato alla Prova Scritta di Italiano:  CLICCA QUI.
Su www. illuminations.tk (area riservata, Didattica italiano scritto) sono  a disposizione:

– il file aggiornato con i consigli per lo svolgimento della prima prova;

– un modello di SIMULAZIONE della prova d’esame  (esercitazione vivamente raccomandata).

Per ricordare: una mappa per la stesura del saggio breve.

VIDEO dedicato al saggio breve: CLICCA QUI.

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La poesia italiana del Novecento

poeti

Autori, esperienze, movimenti letterari, PREZI a cura di Carlo Mariani. Come nasce la poesia italiana del Novecento? Quali sono gli autori che rappresentano il passaggio dalla tradizione al rinnovamento?  CLICCA QUI.

 

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Francesco Petrarca

I luoghi petrarcheschi: mappa interattiva. CLICCA QUI.

Chi fu Laura?

Laura, illustre per le sue virtù e a lungo celebrata nei miei carmi, apparve la prima volta ai miei occhi nel primo tempo della mia adolescenza, l’anno del Signore 1327, il sesto giorno d’aprile nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, a mattutino; e in quella stessa città, nello stesso mese d’aprile, lo stesso giorno 6, nella stessa ora prima del giorno dell’anno 1348 la luce della sua vita è stata sottratta alla luce del giorno mentre io per caso mi trovavo a Verona, ignaro, ahimè!, del mio destino. La funesta notizia mi raggiunse a Parma, in una lettera del mio Ludovico, nello stesso anno, la mattina del 19 di maggio. Il suo corpo castissimo e bellissimo fu messo a riposare nel cimitero dei frati minori il giorno stesso in cui ella morì, al vespro. “La sua anima – come dice Seneca di Scipione l’Africano – mi sono convinto che sia tornata in cielo, donde era venuta” (Epist. 86, 1). Ho ritenuto di scrivere questa nota ad acerbo ricordo di tale perdita, e tuttavia con una certa amara dolcezza, su questa pagina che spesso mi torna sotto gli occhi, affinché mi venga l’ammonimento, dalla frequente vista di queste parole e dalla meditazione sul rapido fuggire del tempo, che non c’è nulla in questa vita in cui io possa ormai trovare piacere e che è tempo, ora che è rotto il legame più forte, di fuggire da Babilonia: e ciò per la preveggente grazia di Dio sarà per me facile se rifletterò con virile perseveranza sulle inutili cure, sulle vane speranze e sugli eventi imprevisti del tempo passato.

Nota di mano petrarchesca del 19 maggio 1348 a margine del codice virgiliano appartenuto al poeta  e ora conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano (Virgilio ambrosiano); trad. di M. Santagata in I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 126)

RVF, CXXXII

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S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?
Se bona, onde l’effecto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?

S’a mia voglia ardo, onde ’l pianto e lamento?
S’a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilectoso male,
come puoi tanto in me, s’io no ’l consento?

Et s’io ’l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo,

sí lieve di saver, d’error sí carca
ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,
et tremo a mezza state, ardendo il verno.

Dal sito Italica: F. Rico, F. Petrarca.

“Passepartout”, a cura di P. Daverio: Petrarca antiquo.

RVF, CXXXIII

Amor m’à posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco,
et come nebbia al vento; et son già roco,
donna, mercé chiamando, et voi non cale.

Da gli occhi vostri uscío ‘l colpo mortale,
contra cui non mi val tempo né loco;
da voi sola procede, et parvi un gioco,
il sole e ‘l foco e ‘l vento ond’io son tale.

I pensier’ son saette, e ‘l viso un sole,
e ‘l desir foco; e ‘nseme con quest’arme
mi punge Amor, m’abbaglia et mi distrugge;

et l’angelico canto et le parole,
col dolce spirto ond’io non posso aitarme,
son l’aura inanzi a cui mia vita fugge.

Chi fu Laura?

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    Videolezioni di Andrea Cortellessa.

Introduzione alla vita e alle opere di Francesco Petrarca.

Il Canzoniere. 

Tutte le rime del Canzoniere: CLICCA QUI.

Lettura e commento delle liriche: “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono“; Solo e pensoso i più deserti campi“; “Chiare , fresche e dolci acque…“.

L’umanesimo di Petrarca.

Petrarca, RVF:  i madrigali.

CXXI

Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, et del mio mal non cura,
et tra duo ta’ nemici è sí secura.

Tu se’ armato, et ella in treccie e ‘n gonna
si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba,
ver’ me spietata, e ‘n contra te superba.

I’ son pregion; ma se pietà anchor serba
l’arco tuo saldo, et qualchuna saetta,
fa di te et di me, signor, vendetta.

Approfondimento: da Griseldaonline, G. FORNI, Piccoli gesti estremi: i quattro madrigali del Canzoniere di Petrarca, 2012

Petrarca e Laura:  iconografia. CLICCA QUI. 

FRANCESCO PETRARCA, CANZONIERE, TRIONFI
VENEZIA, VINDELINO DA SPIRA, 1470
DECORAZIONE: ANTONIO GRIFO.
BRESCIA, BIBLIOTECA CIVICA QUERINIANA

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Perché leggere, perché scrivere? Una citazione dall’epistolario di Petrarca dal film “Gli occhiali d’oro” di G. Montaldo, 1987:

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Giovanni Pascoli

                                                              Myricae

 VIDEOLEZIONI. Andrea Cortellessa spiega:

http://www.oilproject.org/lezione/la-poetica-del-fanciullino-di-pascoli-spiegazione-e-commento-1384.html

http://www.oilproject.org/lezione/lassiuolo-di-pascoli-analisi-del-testo-e-commento-1386.html

http://www.oilproject.org/lezione/gelsomino-notturno-di-pascoli-analisi-del-testo-e-commento-1388.html

http://www.oilproject.org/lezione/la-vertigine-di-giovanni-pascoli-lettura-e-commento-di-andrea-cortellessa-1390.html 

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Tacito, La morte di Seneca

Heiner MüllerLa morte di Seneca [1992]

Cosa pensò Seneca (e non disse)
Quando il capo della guardia di Nerone senza proferire parola
estrasse la sentenza di morte dalla sua corazza
col sigillo dell’allievo per il maestro
(aveva imparato a scrivere e ad apporre il sigillo
e il disprezzo per tutte le morti a parte
la propria:
regole d’oro di ogni arte dello Stato)
Cosa pensò Seneca (e non disse)
Quando vietò il pianto ad ospiti e schiavi
Che avevano condiviso la sua ultima cena con lui
Gli schiavi al capo del tavolo
LE LACRIME NON SONO FILOSOFICHE
DURA LEX SED LEX
E PER QUEL CHE RIGUARDA QUESTO NERONE CHE HA UCCISO
SUA MADRE E SUO FRATELLO PERCHÉ AVREBBE DOVUTO
FARE UN’ECCEZIONE CON IL SUO MAESTRO PERCHÈ
RINUNCIARE AL SANGUE DEL FILOSOFO
CHE NON GLI HA INSEGNATO A SPARGERE SANGUE
E quando fece aprirsi le vene
Quelle delle braccia dapprima e quelle di sua moglie
Che non voleva sopravvivere alla sua morte
Facendosele tagliare da uno schiavo probabilmente
Anche la spada su cui si lasciò cadere Bruto
Alla fine della sua speranza repubblicana
Dovette essere tenuta da uno schiavo
Cosa pensò Seneca (e non disse)
Mentre il sangue lasciava troppo lentamente
il suo corpo troppo vecchio e lo schiavo ubbidiente al padrone
Aprì le vene delle gambe e delle cavità poplitee
Sussurrando con corde vocali secche
I MIEI DOLORI SONO LA MIA PROPRIETÀ
PORTATE MIA MOGLIE NELLA STANZA ACCANTO E LO SCRIVANO A ME
La mano non poteva più tenere l’impugnatura dello stilo
Ma il cervello lavorava ancora La macchina
fabbricò parole e frasi e annotò i dolori
Cosa pensò Seneca (e non disse) tra le lettere del suo ultimo dettato
Immagazzinato sul divano del filosofo
E quando svuotò la tazza col veleno venuto da Atene
Perché la sua morte si faceva ancora attendere
E il veleno che aveva aiutato molti prima di lui
Riuscì a scrivere solo una nota a piè di pagina nel suo
corpo già quasi svuotato di sangue nessun testo chiaro
Cosa pensò Seneca (alla fine senza parole)
Quando andò incontro alla morte nella sauna
Mentre l’aria danzava davanti a suoi occhi
La terrazza si oscurò per il confuso battito d’ali
Non di angeli probabilmente anche la morte non è un angelo
nello scintillio di colonne al rivedere
Il suo primo filo d’erba che aveva visto
Su un prato vicino a Cordoba, alto come nessun albero

PER APPROFONDIRE

James Ker, The Deaths of Seneca, Oxford University Press, 2009

“The forced suicide of Seneca, former adviser to Nero, is one of the most tortured–and most revisited–death scenes from classical antiquity. After fruitlessly opening his veins and drinking hemlock, Seneca finally succumbed to death in a stifling steam bath, while his wife Paulina, who had attempted suicide as well, was bandaged up and revived by Nero’s men. From the first century to the present day, writers and artists have retold this scene in order to rehearse and revise Seneca’s image and writings, and to scrutinize the event of human death.
In The Deaths of Seneca, James Ker offers the first comprehensive cultural history of Seneca’s death scene, situating it in the Roman imagination and tracing its many subsequent interpretations. Ker shows first how the earliest accounts of the death scene by Tacitus and others were shaped by conventions of Greco-Roman exitus-description and Julio-Claudian dynastic history. At the book’s center is an exploration of Seneca’s own prolific writings about death–whether anticipating death in his letters, dramatizing it in the tragedies, or offering therapy for loss in the form of consolations–which offered the primary lens through which Seneca’s contemporaries would view the author’s death. These ancient approaches set the stage for prolific receptions, and Ker traces how the death scene was retold in both literary and visual versions, from St. Jerome to Heiner Müller and from medieval illuminations to Peter Paul Rubens and Jacques-Louis David. Dozens of interpreters, engaging with prior versions and with Seneca’s writings, forged new and sometimes controversial views on Seneca’s legacy and, more broadly, on mortality and suicide. The Deaths of Seneca presents a new, historically inclusive, approach to reading this major Roman author”.

Luca Giordano, La morte di Seneca, 1650–1675, Le Mans Crescent, Bolton, Greater Manchester, England

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Boccaccio e l’amore

PER APPROFONDIRE

La  letteratura nell’arte. Botticelli rappresenta la novella di Nastagio degli Onesti: F.  Poletti, Botticelli narratore.

R. Luperini, Amore, rapporto fra sessi e centralità della figura femminile in Boccaccio, Palumbo, 2006

All’amore è ispirata la maggior parte delle novelle del Decameron. Tre intere giornate (III, IV e V) sono dedicate a questo tema. L’associazione delle donne all’amore è esplicita fin dall’inizio, come è esplicita la volontà dell’autore di mettersi dalla loro parte. Le donne che amano costituiscono il pubblico privilegiato a cui si rivolge direttamente l’autore nell’introduzione (cfr. Proemio). Nell’autodifesa Boccaccio ribadisce di voler rimanere fedele alle donne, cioè alla tematica amorosa: le Muse sono donne, non più intermediarie tra l’uomo e Dio, ma tra lo scrittore e la poesia.
Le premesse teoriche di tale scelta sono enunciate sempre nell’Introduzione alla IV giornata: «gli altri e io che vi amiamo naturalmente operiamo; alle cui leggi, cioè della natura, voler contrastare troppo grandi forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del praticante si adoperano». La novella delle papere conferma questa idea dell’amore come forza irresistibile della natura. Il richiamo alla natura come fondamento dell’amore era già in Andrea Cappellano, ma Boccaccio ne sviluppa spregiudicatamente l’aspetto naturalistico: la natura diventa un concetto chiave che legittima la forza e la libertà dell’amore in tutte le sue forme sia contro la repressione religiosa e familiare, sia contro ogni astratta idealizzazione. L’amore è inoltre un bene e un valore in sé, a prescindere dagli effetti virtuosi di elevazione morale attribuitigli dalla concezione cortese e stilnovistica. Non esiste nel Decameron il conflitto tra spiritualità e sensualità, che è invece presente nella cultura del Trecento e diventa drammatico in Petrarca. Quest’idea dell’amore comporta una particolare valorizzazione del ruolo della donna e del rapporto tra i sessi. Proprio l’eros e la sessualità femminile, tradizionalmente repressi e condannati, sono rivalutati con grande spregiudicatezza da Boccaccio, fino a capovolgere i luoghi comuni della polemica misogina (dall’insaziabilità sessuale all’infedeltà e all’adulterio delle donne). Dal piano più elementare del puro istinto sessuale a quello più elevato della partecipazione passionale, l’amore non esiste senza il coinvolgimento del corpo. Lo stesso tema del suicidio, in genere estraneo alla tradizione cortese, allude all’impossibilità della sopravvivenza fisica senza l’amato. Così concepito, come fondamento biologico e istintuale della vita, esso sfugge ad ogni giudizio morale e ha comunque una sua legittimità. […]
Cade inoltre nel Decameron ogni distinzione tra amore onesto e amore per diletto: solo l’amore mercenario è condannato. Basti considerare l’atteggiamento di Boccaccio verso l’adulterio delle donne. La simpatia dell’autore è per monna Sismonda (VII, 8) che applica il suo ingegno a tradire il marito perché «sì come i mercatanti fanno andava molto da torno e poco con lei dimorava». Alatiel passa nel giro di quattro anni tra le mani di otto uomini e poi «restituita al padre per pulcella» va finalmente sposa al re del Garbo: Alatiel, priva di parola, semplice corpo la cui passività e disponibilità sono riscattate dal piacere della sua partecipazione erotica, diventa un puro simbolo della fascinazione sensuale irresistibile e fatale (II, 7). […] È monna Filippa (VI, 7) ad esprimere nel modo più radicale le ragioni delle donne difendendo l’adulterio, davanti al tribunale di Prato, come diritto alla piena soddisfazione erotica e alla libertà di disporre del proprio corpo: anzi essa giunge a contestare la validità della legge che condannava a morte la donna adultera perché fatta dagli uomini contro le donne e senza il loro consenso.
L’amore fa sentire la sua forza anche nei conventi (cfr. La novella della badessa e le brache), né c’è da meravigliarsene: «assai sono di quegli uomini e di quelle femmine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come a una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e indosso messole la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta dei femminili appetiti se non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca». Anche i contadini sono capaci di amore: in fatti si ingannano quelli che credono «che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto ai lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d’intelletto e d’avedimento grossissimi» (III, 1).
Con ciò il Boccaccio supera decisamente i limiti della concezione cortese dell’amore: l’amore diventa una forza eversiva che tende a una potenziale democrazia tra i sessi e tra i diversi ceti sociali. Tuttavia, pur attraversando le barriere sociali, l’istinto erotico non arriva a mettere in discussione l’ordine borghese, ma solo i suoi aspetti autoritari e repressivi: la soluzione è l’integrazione sociale (cfr.  a novella di Federigo degli Alberighi) o la rinuncia (cfr.  la novella dello stalliere del re Agilulfo). Così, pur legittimando l’adulterio, Boccaccio non va contro il matrimonio: l’amore spesso si conclude borghesemente con il matrimonio anche nelle novelle d’ambiente cortese, come in quella di Federigo degli Alberighi. In Boccaccio le donne per la prima volta nella nostra letteratura acquistano dignità di personaggi e una pluralità di esistenze concrete e differenziate secondo l’appartenenza ai vari ceti sociali. La donna non solo è oggetto, ma anche soggetto di desiderio, né ha timore di esprimere i propri desideri erotici: è lei, da Fiammetta (in L’elegia di Madonna Fiammetta) a Ghismunda, a prendere spesso l’iniziativa amorosa.
La donna infine parla: secolarmente esclusa dall’uso pubblico della parola, essa, almeno una volta, con monna Filippa (VI, 7), se ne appropria e, in tribunale, davanti a un pubblico maschile difende vittoriosamente i diritti delle donne non solo all’amore, ma anche a fare le leggi. Anche monna Bartolomea tiene testa al marito giudice e Ghismunda al padre. Non è così per l’umile Simona, che paga con la vita la sua inca pacità di farsi capire dai giudici (IV, 7) o per Lisabetta da Messina, costretta al silenzio dal dispotismo fraterno (cfr. la novella di Llisabetta da Messina). La donna è anche capace di coraggio, dà prova di ingegno e di virtù, ma la sfera della sua azione è sempre ed esclusivamente limitata all’ambito erotico. Anche in un personaggio come quello di Giletta di Narbona, indubbiamente dotata di virtù maschili (conosce l’arte medica, sa amministrare le terre, viaggia da sola a cavallo alla ricerca dell’amato), il movente delle azioni è l’amore (III, 9). Appare in Boccaccio la consapevolezza di quanto questo ruolo esclusivamente erotico, considerato un dato naturale («a questo siam nate») condanni la donna alla marginalità sociale; legata al sesso e alla maternità la donna è amata finché giovane e bella, ma poi è considerata buona a nulla. «Degli uomini non avviene così: essi nascono buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto più vecchi che giovani» (V, 10). Ma questa interessante osservazione resta senza sviluppi ulteriori. Anche nel l’Introduzione al Decameron l’autore mostra una particolare attenzione alle condizioni di inferiorità e di costrizione familiare in cui vivono le donne agiate, pure loro subordinate all’autorità dei padri, dei mariti, dei fratelli, spesso rappresentati nelle novelle in ruoli oppressivi e crudeli.
La donna del Decameron non è più la donna-angelo: è la donna borghese, che unisce la naturalità del popolo alla nobiltà d’animo cortese, l’amore all’intelligenza e all’ingegno. Il modello più alto è Ghismunda, in cui Boccaccio cerca di affermare polemicamente un nuovo positivo ruolo femminile: Ghismunda trasgredisce insieme l’autorità del padre e del principe, contrapponendo al genitore, incline a seguire più la «volgare opinione che la verità», un ideale di vita basato su valori nuovi, sulla libertà dei sensi e dell’intelletto. Certo la fine tragica, o comunque la sconfitta delle eroine dell’amore (significativa è a questo proposito anche la vicenda della protagonista dell’Elegia di Madonna Fiammetta), mettono in luce il limite storico cui è destinata a scontrarsi l’iniziativa femminile. La ribellione consapevole di Ghismunda o la scelta amorosa di Ellisabetta o di Fiammetta si scontrano con una condizione storica inesorabile in cui la donna è condannata alla passività e a subire, comunque, l’iniziativa maschile. Il Decameron si chiude con l’esempio di Griselda (simbolo di una femminilità agli antipodi di quella di Ghismunda e in contrasto con quella delle altre figure femminili dell’opera) totalmente passiva e sottomessa alla «matta bestialità» della sopraffazione maschile. Ma anche qui lo stravolgimento e la disumanizzazione dei rapporti personali e familiari sono talmente esasperati da conferire all’atteggiamento di Griselda il valore di un’alternativa morale.
La posizione di Boccaccio, dopo il Decameron, cambia bruscamente: l’abbandono della tematica ero tica segna nel Corbaccio il rifiuto e la negazione della donna e una violenta ripresa di temi misogini. Questo mutamento è stato spiegato come un cambiamento di poetica. Tuttavia è anche un segno della precarietà di tale apertura al mondo femminile. Anche nel Decameron, infatti, la figura della donna per un verso dipende dalla proiezione dell’eros maschile, per un altro è mero veicolo di una ideologia letteraria. La concezione aperta e spregiudicata della vita che si afferma nel Decameron permette al Boccaccio la rappresentazione di una fenomenologia amorosa estremamente varia e viva, in cui la donna gioca un ruolo importante; ma, caduto l’interesse per l’eros e per la poetica che ad esso si ispirava, la donna, il corpo, il sesso diventano di nuovo una forza negativa da esorcizzare e condannare.

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