Einstein e la letteratura italiana

Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo! La via, cinque anni fa.

L’eternità s’è sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l’altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare più lontano della più lontana stella del cielo.

Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926

Paolo Di Stefano, Einstein e l’ invito a Pirandello.  Lo scontro che nessuno vide.Colazione sull’ erba a Princeton. Con il sospetto di fascismo, ” Corriere della Sera”, 19  luglio 2010

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Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: ‘mai più!’. Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923

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ITALO SVEVO, Soggiorno Londinese, 1926:

[…] In quei giorni capita da me l’unico medico psicanalista di Trieste e mio ottimo amico il Dr. Weiss e, inquieto, guardandomi negli occhi, domanda se il medico psicanalista di Trieste di cui m’ero burlato nel mio romanzo fosse lui. Risultò subito che non poteva essere lui perché durante la guerra egli la psicanalisi a Trieste non l’aveva praticata. Rasserenato accettò il mio libro con tanto di dedica, promise di studiarlo e di farne una relazione in una rivista psicanalitica di Vienna. Per qualche giorno mangiai e dormii meglio. Ero vicino al successo perché la mia opera sarebbe stata discussa in una rivista mondiale. Invece quando lo rividi il Dr. Weiss mi disse che non poteva parlare del mio libro, perché con la psicanalisi non aveva nulla a che vedere. In allora mi dolse perché sarebbe stato un bel successo se il Freud m’avesse telegrafato: «Grazie di aver introdotto nell’estetica italiana la psicanalisi»… Ora non mi duole più. Noi romanzieri usiamo baloccarci con grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle: le falsifichiamo ma le umanizziamo. Il superuomo quando arrivò in Italia non era precisamente quello di Nietzsche. Attuato in Italia in prosa, in poesia ma anche in azione, non so se Nietzsche lo riconoscerebbe per suo e oramai sarebbe tanto peggio per lui se ne rifiutasse la paternità.

Ma vorrei chiarire ancora meglio la mia idea mettendola terra a terra, voglio dire applicandola ad una teoria ch’è molto più lontana da noi di quella del superuomo che non fu neppure a mio sapere sfiorata dall’arte e che pur tuttavia prima o poi ci si avvicinerà in colori e fantasie. La teoria della relatività per il momento non può essere intesa che da chi sa navigare traverso le formule della matematica. L’artista, voglio dire l’artista letterato, e l’illetterato, dopo qualche vano tentativo di avvicinarsi, la mette in un cantuccio di dove essa lo turba e l’inquieta, un nuovo fondamento di scetticismo, una parte misteriosa del mondo, senza della quale non si sa più pensare. E’ là, non dimenticata ma velata, e ad ogni istante accarezzata dal pensiero dell’artista. Un giorno uno di essi, un artista ch’era arrivato all’arte traverso la biologia, va da Einstein e gli dice: “Io ho trovato il modo di spiegare al volgo la relatività senza imporgli lo studio della matematica”. E incoraggiato dall’Einstein, disse la sua idea: “Ammettendo che si possa costruire un uomo il cui cuore pulsi anziché 72 volte il minuto, soltanto una volta ogni dieci minuti, è certo che quest’uomo tanto lento vedrà passare il sole da un orizzonte all’altro con la rapidità di un fuoco d’artificio”. L’Einstein disse: “L’idea è bellissima ma non ha niente a che fare con la mia relatività”. Intanto l’aveva trovata bella ed è già qualche cosa. Io, che non conosco la matematica e perciò la vera relatività, non sono sicuro che non ci sia in quell’idea più relatività di quanto l’Einstein supponga. Il destino vuole che l’artista venga ispirato dal filosofo ch’egli non perfettamente intende, e che il filosofo non intenda lo stesso artista ch’egli ispirò. È nota l’avventura del Wagner con lo Schopenhauer. Gli inviò sua musica con proteste di gratitudine a chi egli considerava suo maestro. Ma lo Schopenhauer gli scrisse ch’egli riteneva che la musica del Rossini fosse quella che si acconciasse meglio alla sua filosofia. Egli intanto per suo conto non voleva che quella. Oggidì tutta la falange degli Schopenhaueriani sono di altro parere.

Questo rapporto intimo fra filosofo e artista, rapporto che somiglia al matrimonio legale perché non s’intendono fra di loro proprio come il marito e la moglie e tuttavia come il marito e la moglie producono dei bellissimi figliuoli conquista all’artista un rinnovamento o almeno gli dà il calore e il sentimento della cosa nuova come avverrebbe se fosse possibile di mutare una parte del vocabolario e darci delle parole nuove non ammuffite dalla loro antichità e dal lungo uso. In quanto al filosofo, può dirsi contento quando un potente riflettore lo metta in piena luce alla ribalta del mondo, lui che altrimenti corre il rischio di fare la vita del roditore.

RADIO TRE: Tre storie italiane, tre storie di incontri tra Albert Einstein e la nostra letteratura. Con Steve Della Casa,Lorenzo Pavolini, Chiara Valerio. Conduce Matteo De Giuli. CLICCA QUI.

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DINO BUZZATI, Appuntamento con Einstein, in Sessanta racconti, 1958

In un tardo pomeriggio dell’ottobre scorso, Alberto Einstein dopo una giornata di lavoro, passeggiava per i viali di Princeton, e quel giorno era solo, quando gli capitò una cosa straordinaria. A un tratto, e senza nessuna speciale ragione, il pensiero correndo qua e là come un cane liberato dal guinzaglio, egli concepì quello che per l’intera vita aveva sperato inutilmente. D’un subito Einstein vide intorno a sé lo spazio cosiddetto curvo, e lo poteva rimirare per diritto e per rovescio, come voi questo volume. Dicono di solito che la nostra mente non riuscirà mai a concepire la curvatura dello spazio, lunghezza larghezza spessore e in più una quarta dimensione misteriosa di cui l’esistenza è dimostrata ma è proibita al genere umano; come una muraglia che ci chiude e l’uomo, dirittamente volando a cavallo della sua mente mai sazia, sale, sale e ci sbatte contro. Né Pitagora né Platone né Dante, se oggi fossero ancora al mondo, neppure loro riuscirebbero a passare, la verità essendo più grande di noi. Altri invece dicono che sia possibile, dopo anni e anni di applicazione, con uno sforzo gigantesco del cervello. Qualche scienziato solitario – mentre intorno il mondo smaniava, mentre fumavano i treni e gli alti forni, o milioni crepavano in guerra o nel crepuscolo dei parchi cittadini gli innamorati si baciavano la bocca – qualche scienziato, con eroica prestazione mentale, tale almeno è la leggenda, arriverà a scorgere (magari per pochi istanti solo, come se si fosse sporto sopra un abisso e poi subito lo avessero tirato indietro) a vedere e contemplare lo spazio curvo, sublimità ineffabile della creazione. Ma il fenomeno avveniva nel silenzio e non ci furono feste al temerario. Non fanfare, interviste, medaglie di benemerenza perché era un trionfo assolutamente personale e lui poteva dire: ho concepito lo spazio curvo, però non aveva documenti, fotografie o altro per dimostrare che era vero. Quando però questi momenti arrivano e quasi da una sottile feritoia il pensiero con una suprema rincorsa passa di là, nell’universo a noi proibito, e ciò che prima era formula inerte, nata e cresciuta al di fuori di noi, diventa la nostra stessa vita; oh, allora di colpo si sciolgono i nostri tridimensionali affanni e ci si sente – potenza dell’uomo! – immersi e sospesi in qualche cosa di molto simile all’eterno. Tutto questo ebbe il professor Alberto Einstein, in una sera di ottobre bellissima, mentre il cielo pareva di cristallo, qua e là cominciavano a risplendere, gareggiando col pianeta Venere, i globi dell’illuminazione elettrica, e il cuore, questo strano muscolo, godeva della benevolenza di Dio! E benché egli fosse un uomo saggio, che non si preoccupava della gloria, tuttavia in quei momenti si considerò fuori del gregge come un miserabile tra i miserabili che si accorge di avere le tasche piene d’oro. Il sentimento dell’orgoglio si impadronì quindi di lui. Ma proprio allora, quasi a punizione, con la stessa rapidità con cui era venuta, quella misteriosa verità disparve. Contemporaneamente Einstein si accorse di trovarsi in un posto mai prima veduto. Egli camminava cioè in un lungo viale costeggiato tutto da siepi, senza case né ville né baracche. C’era soltanto una colonnetta di benzina a strisce gialle e nere, sormontata dalla testa di vetro accesa. E vicino, su un panchetto di legno, un negro in attesa dei clienti. Costui portava un paio di calzonigrembiule e in testa un berretto rosso da baseball. Einstein lo aveva appena sorpassato, che il negro si alzò, fece alcuni passi verso di lui e: ”Signore!” disse. Così in piedi, risultava altissimo, più bello che brutto, di fattezze africane, formidabile; e nella vastità azzurra del vespero il suo sorriso bianco risplendeva. ”Signore” disse il negro ”avete fuoco?” e mostrava un mozzicone di sigaretta. ”Non fumo” rispose Einstein fermatosi più che altro per la meraviglia. Il negro allora: ”E non mi pagate da bere?“. Era alto, giovane, selvaggio. Einstein cercò invano nelle tasche: ”Non so… con me non ho niente… non ho l’abitudine… spiacente proprio“. E fece per andare. ”Grazie lo stesso” disse il negro ”ma… scusate” ”Che cosa vuoi ancora?” fece Einstein. ”Ho bisogno di voi. Sono qui apposta.” ”Bisogno di me? Ma che cosa…?” Il negro disse: ”Ho bisogno di voi per una cosa segreta. E non la dirò che nell’orecchio“. I suoi denti biancheggiavano più che mai perché intanto si era fatto buio. Poi si chinò all’orecchio dell’altro: ”Sono il diavolo Iblìs” mormorò ”sono l’Angelo della Morte e devo prendere la tua anima“. Einstein arretrò di un passo. ”Ho l’impressione” la voce si era fatta dura ”ho l’impressione che tu abbia bevuto troppo.” ”Sono l’Angelo della Morte” ripeté il negro. ”Guarda.” Si avvicinò alla siepe, ne strappò un ramo e in pochi istanti le foglie cambiarono colore, si accartocciarono, poi divennero grigie. Il negro ci soffiò sopra. E tutto, foglie, rametti e gambo volò via in una polvere minuta. Einstein chinò il capo: ”Accidenti. Ci siamo allora… Ma proprio qui, stasera… sulla strada?” ”Questo è l’incarico che ho avuto.” Einstein si guardò intorno, ma non c’era anima viva. Il viale, i lampioni accesi e laggiù in fondo, all’incrocio, luci di automobili. Guardò anche il cielo; il quale era limpido, con tutte le sue stelle a posto. Venere proprio allora tramontava. Einstein disse: ”Senti, dammi tempo un mese. Proprio adesso sei venuto che sto per terminare un mio lavoro. Non ti chiedo che un mese“. ”Ciò che tu vuoi scoprire” fece il negro ”lo saprai subito di là, basta che tu mi segua.” ”Non è lo stesso. Che conta ciò che sapremo di là senza fatica? È un lavoro di notevole interesse, il mio. Ci fatico da trent’anni. E ormai mi manca poco…” Il negro sogghignò: ”Un mese, hai detto?… Ma fra un mese non cercare di nasconderti. Anche se ti trasferissi nella miniera più profonda, là io ti saprò subito trovare“. Einstein voleva ancora fargli una domanda, ma l’altro si era dileguato. Un mese è lungo se si aspetta la persona amata, è molto breve se chi deve giungere è il messaggero della morte, più corto di un respiro. Passò l’intero mese e di sera, riuscito a restar solo, Einstein si portò sul luogo convenuto. C’era la colonnetta di benzina e c’era la panca con il negro, solo che adesso sopra la tuta aveva un vecchio cappotto militare: faceva freddo, infatti. ”Sono qui” disse Einstein, toccandogli una spalla con la mano. ”E quel lavoro? Terminato?” ”Non è finito” disse lo scienziato mestamente. ”Lasciami ancora un mese! Mi basta, giuro. Stavolta sono sicuro di riuscire. Credimi: ci ho dato dentro giorno e notte ma non ho fatto in tempo. Però mi manca poco.” Il negro, senza voltarsi, alzò le spalle: ”Tutti uguali voi uomini Non siete mai contenti. Vi inginocchiate per avere una proroga. E poi c’è sempre qualche pretesto buono…“. ”Ma è una cosa difficile, quella a cui lavoro. Mai nessuno…” ”Oh, conosco, conosco” fece l’Angelo della Morte. ”Stai cercando la chiave dell’universo, vero?” Tacquero. C’era nebbia, notte già da inverno, disagio, voglia di restare in casa. ”E allora?” chiese Einstein. ”Allora va… Ma un mese passa presto.” Passò sveltissimo. Mai quattro settimane furono divorate con tanta avidità dal tempo. E soffiò un vento gelido quella sera di dicembre, facendo scricchiolare sull’asfalto le ultime raminghe foglie: all’aria tremolava, di sotto al basco, la bianca criniera del sapiente. C’era sempre la colonnetta di benzina, e accanto c’era il negro con un passamontagna in testa, accoccolato come se dormisse. Einstein gli si fece vicino, timidamente gli toccò una spalla. ”Eccomi qui. ” Il negro si stringeva nel cappotto, batteva i denti per il freddo. ”Sei tu?” ”Sì, sono io.” ”Finito, allora?” ”Sì grazie a Dio, ho finito.” ”Terminato il grande match? Hai trovato quello che cercavi? Hai schiodato l’universo?” Einstein tossicchiò: ”Sì” disse scherzosamente ”in certo modo l’universo adesso è in ordine“. ”Allora vieni? Sei ben disposto al viaggio?” ”Eh, certo. Questo era nei patti.”

D‘un botto il negro balzò in piedi e fece una risata classica da negro. Poi diede, con l’indice teso della destra, un colpo sullo stomaco di Einstein, che quasi perse l’equilibrio. ”Va, va, vecchia canaglia… Torna a casa e corri, se non vuoi prenderti una congestione polmonare… Di te, per ora, non me ne importa niente.” ”Mi lasci?… E allora, perché tutte quelle storie?” ”Importava che tu finissi il tuo lavoro. Nient’altro. E ci sono riuscito… Dio sa, se non ti mettevo quella paura addosso, quanto l’avresti tirata ancora in lungo.” ”Il mio lavoro? E che te ne importava?” Il negro rise: ”A me niente… Ma sono i capi, laggiù, i demoni grossi. Dicono che già le tue prime scoperte gli erano state di estrema utilità… Tu non ne hai colpa, ma è così. Ti piaccia o no, caro professore, l’Inferno se ne è giovato molto… Ora fa assegnamento sulle nuove…” ”Sciocchezze!” disse irritato Einstein. ”Che vuoi trovare al mondo di più innocente? Piccole formulette sono, pure astrazioni, inoffensive, disinteressate…” ”E bravo!” gridò Iblìs, dandogli un altro botto con il dito, nel mezzo dello stomaco. ”E bravo! Così, mi avrebbero spedito per niente? Si sarebbero sbagliati, secondo te?… No, no, tu hai lavorato bene. I miei, laggiù, saranno soddisfatti… Oh se tu sapessi!” ”Se io sapessi cosa?” Ma l’altro era svanito. Né si vedeva più la colonnetta di benzina. Neppure lo sgabello. Solo la notte, e il vento e lontano, laggiù, un andirivieni di automobili. A Princeton, New Jersey.

PER APPROFONDIRE:

Francesca Romana Capone, La quarta dimensione del romanzo

M. VERONESI, “Appunti su relatività e letteratura” (“Rivista di Studi Italiani”, XXXIII , n. 2, Dicembre 2015 , pp. 105-120)

Poesia del ‘900 e scienza (4): “E ora arriva Einstein con un’idea”

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Lancillotto e il ponte della spada

Chretien de Troyes, Lancelot ou le Chevalier à la charrette  (1170-1180)

Miniatura di Evrard d’Espinques da ‘Lancelot du Lac’, Bibliothèque nationale de France, Français 115, f. 367v, c. 1470

“La dedica del romanzo ci fa sapere che Chrétien lo compose per Maria di Champagne, che in esso «il comando della contessa ebbe maggior peso del talento e della fatica» che il poeta vi mise, e che «la materia e il senso furono dono generoso della contessa», sì che Chrétien stesso «si occupò solo di darne la forma, e non vi pose molto di più che l’impegno e l’intento».
Chrétien declina dunque apertamente ogni responsabilità per quel che riguarda la materia della sua opera (il soggetto) e il senso (le idee, i sentimenti, la concezione psicologica e morale su cui è edificata la narrazione); sembra quindi naturale conseguenza la riluttanza a portarla avanti, a rifinirla e, infine, a completarla. Egli infatti lasciò a un altro champenois, il chierico Godefroi de Leigni, il compito di concludere la storia. […] Non sappiamo se Lancillotto sia divenuto l’amante di Ginevra in testi precedenti a quello di Chrétien, ma, a quanto risulta dalle opere pervenuteci, sembra che questa unione sia stata suggerita al poeta dalla protettrice Maria o sia frutto dell’inventiva di Chrétien stesso.

Ginevra era personaggio noto di un antico mito celtico che, nelle sue forme gallese e irlandese, narrava della moglie di Artù rapita da un misterioso forestiero. Lancillotto, già nominato da Chrétien nel Cligès e nell’Erec et Enide, appartiene anch’egli a una tradizione che lo presenta figlio adottivo di una fata di un lago, che lo protegge e veglia su di lui nel corso della sua intera vita. Oltre che a questi elementi del ciclo arturiano, Chrétien attinge per il suo Lancelot ad altri, quali le lenzuola macchiate di sangue nel letto di Ginevra, imitazione di un episodio della leggenda di Tristano e Isotta.
Nel Lancelot non sembrano tanto importanti le fonti, quanto l’atmosfera nella quale il poeta ha immerso la narrazione. Un’atmosfera irreale, che fa apparire il romanzo una “visione” vaga e sfumata in cui personaggi e scene sono librati nell’estasi e nel sogno. Gli episodi si snodano senza contorni precisi, e se ci appare che l’ironia sia il filo conduttore di tutta l’opera, pure non riusciamo a sottrarci alla malia di questo amore estatico che Chrétien, riteniamo, condannava, ma che sapeva dipingere con conturbante adesione”.

Gabriella Agrati e Maria Letizia Magin, Introduzione a Chrétien de Troyes, I romanzi cortesi, Milano, Mondadori, 2013

Credits: Roberto-Crosio.net

L’episodio del ponte della spada. CLICCA QUI per leggere il testo.

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“L’essilio che m’è dato, onor me tegno”

Barthélémy Toguo, Road to exile, 2008

Barthélémy Toguo, “Road to exile”, 2008

Ha, banishment! Be merciful, say “death,”
For exile hath more terror in his look,
Much more than death. Do not say “banishment.”

William Shakespeare, Romeo and Juliet

L’esilio nel mondo antico

Come sembra agli antichi le muse imposero le più belle e insigni opere servendosi dell’esilio. L’ateniese Tucidide scrisse la guerra del Peloponneso e degli ateniesi presso la foresta delle miniere in Tracia, Senofonte a Scillunte Elea, Filisteo in Epiro e Timeo di Tauromene ad Atene, Androzione l’ateniese a Megera e il giulidiese Bacchilide nel Peloponneso. Tutti costoro ed altri anche se erano esiliati della patria non cambiarono idea, né si abbatterono, ma trassero profitto della bellezza dei luoghi considerando l’esilio come una risorsa contro la cattiva sorte; per il quale sono ricordati dovunque dopo che sono morti e di loro che sono esiliati anche se in disaccordo non si può tralasciare neppure un’opera, perciò è persino ridicolo chi ritiene che si riceva infamia con l’esilio. PLUTARCO, Sull’esilio

Giorgio Agamben, Politica dell’esilio, in “Derive Approdi  N. 16, Labirinto, Napoli, 1998, pp. 25-27.

Gli storici del diritto discutono tuttora se l’esilio – nella sua figura originaria, in Grecia e a Roma – debba essere considerato come l’esercizio di un diritto o come una situazione penale. In quanto si presenta, nel mondo classico, come la facoltà accordata a un cittadino di sottrarsi con la fuga a una pena, l’esilio sembra irriducibile alle due grandi categorie in cui si può dividere la sfera del diritto dal punto di vista delle situazioni soggettive: i diritti e le pene. Così Cicerone può scrivere: «Exilium non supplicium est, sed perfugium porturque supplicii», «L’esilio non è una pena, ma un rifugio e una via di scampo rispetto alle pene». L’esilio non è diritto, né pena, ma rifugio. LEGGI TUTTO…

VERGILIUS, Bucolicon carmen, I

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena:
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.

OVIDIO, Tristia, I 3
Quando mi si presenta la visione tristissima di quella notte
in cui vissi le ultime mie ore in Roma,
quando ripenso alla notte in cui lasciai tante cose a me care,
tuttora dai miei occhi scendono le lacrime.
Si affacciava ormai il giorno, in cui Cesare mi aveva ordinato
di partire dagli estremi confini dell’Ausonia.
Non ebbi tempo né volontà di preparare le cose più utili:
a lungo l’animo aveva languito immerso nel torpore;
non mi curai dei servi, né di scegliere i compagni,
né delle vesti adatte o delle cose che giovano a un profugo.
Ero stordito non diversamente da chi, colpito dal fulmine
di Giove, è rimasto in vita e non sa lui stesso di essere vivo.
Quando tuttavia lo stesso dolore dissipò questa nube
dell’anima, e finalmente i miei sensi si ripresero,
prossimo a partire, parlo per l’ultima volta agli afflitti amici,
dei quali solo due vi erano, dei molti che avevo poco prima.
Piangevo e la sposa amorosa, in un pianto più amaro, mi teneva
abbracciato e una pioggia continua cadeva per le guance innocenti.

William Turner (1775-1851), Ovidio bandito da Roma, 1838

William Turner (1775-1851), Ovidio bandito da Roma, 1838

SENECA, Consolatio ad Helviam matrem, 4-10 (passim)
Vediamo cos’è l’esilio. Chiaramente è un cambiamento di luogo. E perché non sembri che io voglia diminuirne l’importanza e sottrargli ciò che ha in sé di svantaggioso, dirò che questo cambiamento di luogo comporta dei disagi: povertà, infamia, disprezzo. ….
(5) Che cosa si può trovare di più squallido e, ovunque ti volgi, di più dirupato di questo scoglio [la Corsica]?  […]
Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra […]. Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l’altra. Questo, però, è certo: che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell’uomo. In un mondo così grande ogni giorno qualcosa cambia: si gettano le fondamenta di nuove città, nascono popolazioni con nuovi nomi, via via che si estinguono quelle che c’erano prima o si incorporano con altre più forti. Ma tutti questi spostamenti di popoli che cosa sono se non esili in massa?  […]
(7) Appunto in un esule [Enea] ha il suo fondatore l’impero romano, in un profugo che, dopo la conquista della sua patria, portandosi dietro poche reliquie e spinto dalla necessità e dalla paura del vincitore a cercare terre lontane, giunse in Italia. E, in seguito, questo popolo quante colonie non ha fondato in ogni provincia! Dovunque ha vinto il Romano si stabilisce. […] (10) Insomma tu non troverai una terra che sia ancora oggi abitata dalla popolazione indigena. Tutte si sono mescolate e incrociate; gli uni si sono succeduti agli altri; questi desiderano ciò che gli altri disprezzano; l’uno è cacciato via da dove aveva cacciato, a sua volta, un altro. Così vuole il destino: che nessuna cosa resti sempre in uno stesso luogo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; la distanza che separa l’uomo da Dio è sempre la stessa. […] Purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui sono insaziabili, purché mi sia consentito di guardare il sole e la luna, purché io possa fissare gli altri astri e studiarne il sorgere e il tramontare, le loro distanze e le cause del loro moto, ora più veloce ora più lento, e ammirare le tante stelle che brillano nella notte, […] purché io possa contemplare tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del cielo, purché l’animo mio che tende alle cose a lui affini sia sempre rivolto al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?

Dante e l’esilio. CLICCA QUI per approfondimenti.

Dal De vulgari eloquentia, I, VI, 3:

“Noi però a cui è patria il mondo intero, come ai pesci il mare, sebbene abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno da bimbi, prima di mettere i denti, e che a tal segno amiamo Firenze, da subire ingiustamente l’esilio, conformiamo il nostro giudizio più alla ragione che all’apparenza sensibile. E anche se, volendo essere inclini al nostro piacere e alla propensione dei nostri sensi, dovremo dire che non esiste in terra luogo più ameno di Firenze, sfogliando tuttavia i volumi dei poeti e degli scrittori in genere, nelle cui pagine si descrive il mondo nel suo complesso e nelle sue varie zone, e ragionando dentro di noi sull’ubicazione delle diverse zone della terra, in relazione all’uno e all’altro polo e al circolo dell’equatore, capiamo ponderatamente e riteniamo fermamente che esistono regioni e città più insigni e più gradevoli della Toscana e di Firenze, di cui siamo oriundi e cittadini.”

Non est haec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam tale Florentia introitur, numquam Florentia introibo. Quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium ymo ignominiosium populo florentineque civitati me reddam? Quippe nec panis deficiet.

Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un’altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, l’accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.   Dall’Epistola XII all’Amico fiorentino

L’esilio e i moderni

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Shirin Neshat, Untitled, from the series Rapture, 1999. Gelatin silver print. Yale University Art Gallery, Gift of Susan and Arthur Fleischer, Jr., B.A. 1953, LL.B. 1958. © Shirin Neshat. Courtesy Gladstone Gallery, New York and Brussels

C. BAUDELAIRE, Il cigno, da Les Fleurs du mal, 1857-1861

A Victor Hugo

Andromaca penso a voi! Quel piccolo fiume,
Triste e povero specchio dove un tempo risplendé
L’ immensa maestà dei vostri dolori di vedova,
Quel mendace Simoenta che dei vostri pianti s’accrebbe,

Ha fecondato all’istante la mia memoria fertile,
Mentre passavo per il nuovo Carousel.
La vecchia Parigi non è più (la forma di una città
Cambia più in fretta, ahimè, del cuore di un uomo!);

Soltanto in spirito tutto questo campo di baracche vedo,
Questo cumulo di capitelli e colonne smozzicati,
Le erbe, i grandi blocchi inverditi dall’acqua delle pozze,
E riflettenti sulle vetrine il brillio delle cianfrusaglie.

Laggiù una volta c’era un serraglio;
Là ho visto, un mattino, nel momento in cui sotto i cieli
Freddi e chiari il Lavoro si desta, e in cui i netturbini
Levano un uragano scuro nell’aria calma,

Un cigno scappato dalla sua gabbia,
E, coi suoi piedi palmati, sfregando il secco selciato,
Sul suolo ruvido trascinando le bianche piume.
Presso un ruscello senz’ acqua la bestia aprendo il becco

Immergeva nervoso l’ali nella polvere,
E diceva, il cuore pieno del suo bel lago natale:
“Acqua, quando infine pioverai? quando tuonerai, fulmine?”.
Vedo quel misero, strano e fatale mito,

Verso il cielo talvolta, come l’uomo di Ovidio,
Verso il cielo ironico e crudelmente blu,
Sul collo convulso tendere l’avida testa,
Come se indirizzasse rimproveri a dio!

II

Parigi cambia! ma nulla nella mia malinconia
S’è mosso! palazzi nuovi, impalcature, blocchi,
Vecchi quartieri, tutto per me diventa allegoria,
E i miei cari ricordi sono più pesanti delle rocce.

Così dinanzi a questo Louvre un’immagine mi opprime:
Penso al mio grande cigno, con i suoi gesti da folle,
Come gli esiliati, ridicolo e sublime,
E corroso da un desiderio senza tregua! e quindi a voi,

Andromaca, dalle braccia di un grande sposo caduta,
Come un vile capo di bestiame, sotto la mano del superbo Pirro,
Presso una tomba vuota in estasi curvata;
Di Ettore vedova, ahimè! e sposa di Elèno!

Penso alla negra, smagrita e tisica,
Che scalpiccia nel fango, e cerca, l’occhio stravolto,
Della bellissima Africa le noci di cocco svaniti
Dietro l’ immenso muro della nebbia;

A chiunque ha perso ciò che non si trova
Più, Più! a quelli che si saziano di pianti
E suggono il dolore come una buona lupa!
Ai magri orfanelli che appassiscono come fiori!

Così nella foresta dove il mio spirto s’esilia
Un vecchio Ricordo suona a perdifiato il suo corno!
Penso ai marinai dimenticati in un’isola,
Ai prigionieri, ai vinti! … e a molti altri ancora!

PER APPROFONDIRE CLICCA QUI.

Amy Foster, di Joseph Conrad, “costituisce probabilmente la più inesorabile rappresentazione dell’esilio mai scritta”.

Yet amongst all the adventurers shipwrecked in all the wild parts of the world there is not one, it seems to me, that ever had to suffer a fate so simply tragic as the man I am speaking of, the most innocent of adventurers cast out by the sea in the bight of this bay, almost within sight from this very window.

E’ assai dura per un uomo ritrovarsi straniero e sperduto, inerme, non compreso, e di origine misteriosa, in qualche angolo oscuro della ter­ra. Eppure, fra tutti gli avventurieri naufragati in qualsiasi regione sel­vaggia del mondo, non ce ne è stato uno, ritengo, che abbia mai do­vuto subire un destino così tragico nella sua semplicità quanto l’uomo di cui sto parlando, il più innocente degli avventurieri gettato dal ma­re… J. Conrad, Amy Foster, 1901

“Shipwrecked in the bay?” I said.

“Yes; he was a castaway. A poor emigrant from Central Europe bound to America and washed ashore here in a storm. And for him, who knew nothing of the earth, England was an undiscovered country. It was some time before he learned its name; and for all I know he might have expected to find wild beasts or wild men here, when, crawling in the dark over the sea-wall, he rolled down the other side into a dyke, where it was another miracle he didn’t get drowned. But he struggled instinctively like an animal under a net, and this blind struggle threw him out into a field. He must have been, indeed, of a tougher fiber than he looked to withstand without expiring such buffetings, the violence of his exertions, and so much fear. Later on, in his broken English that resembled curiously the speech of a young child, he told me himself that he put his trust in God, believing he was no longer in this world…. LEGGI il racconto in lungua inglese.

Il trailer del film Swept from the Sea (1997), tratto dal racconto di J. Conrad:

Tra il 1936 e il 1937 Bertold Brecht – dal 1933 esule dalla Germania nazista – compose questi versi, dedicati ai poeti esiliati di ogni tempo (B. Brecht, Poesie e canzoni, traduzione a cura di Ruth Leiser e Franco Fortini, Torino 1981, pp. 139-140):

GIUSEPPE UNGARETTI, La pietà [1928], in Sentimento del tempo, 1933

Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare
e finalmente giungere,
pietà, dove si ascolta
l’uomo che è solo con sé.

Non ho che superbia e bontà.

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.

Ma per essi sto in pena.

Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente
per cadere in servitù di parole?

Regno sopra fantasmi.

BERTOLD BRECHT, Sulla denominazione emigrante (Über die Bezeichnung Emigranten), 1937

Falso quel nome assegnatoci sempre trovai:
emigrante.
Significa esule, si sa. Ma noi
esuli non eravamo per libera scelta,
scegliendo altro paese. […]
Noi fuggivamo scacciati, banditi.
Né è una nuova patria, esilio è la terra
che ci accoglie.
[…]

Bertold Brecht, Visita ai poeti in esilio (Besuch bei den verbannten Dichter), 1937

Quando in sogno egli entrò nella capanna
dei poeti in esilio, che è prossima a quella
dove i maestri in esilio dimorano – litigi e risate
ne udiva venire – a lui sulla soglia si fece
Ovidio e, a mezza voce, gli disse:
«Meglio che tu non ti sieda, ancora. Non sei ancora morto.
Chi sa se non ritorni in patria, forse? E senza che altro si muti
fuor che tu stesso». Ma, con uno sguardo di conforto,
si avvicinò Po Chu-I e sorridendo gli disse: «Meritamente
fu colpito, chi nominò l’ingiustizia anche solo una volta».
E il suo amico Tu Fu disse, tranquillo: «Capisci, l’esilio
non è il luogo adatto a dimenticar la superbia». Ma piú terrestre,
e tutto stracci, Villon entrò in mezzo chiedendo: «La casa
dove stai, quante porte ha?» E Dante lo prese
da parte, per la manica, e gli mormorò: «Quei tuoi versi,
amico, son brulicanti di errori: considera dunque
che tutto è contro di te!» E Voltaire, piú lontano, chiamando:
«Bada al soldo, o ti affamano!»
«E mettici qualche burletta! », gridò Heine. «Ma è inutile! »
brontolò Shakespeare: «Quando Re Giacomo venne
anch’io non potei scriver piú». «E se arrivi al processo,
per avvocato prenditi un cialtrone! », raccomandava Euripide,
«perché conosce i buchi nella rete della Legge». Le risa
duravano ancora quando, dall’angolo piú tenebroso,
venne una voce: «O tu, li sanno a mente
quei tuoi versi? E quelli che li sanno
si salveranno dai persecutori?» «Quelli
sono i dimenticati», disse, a bassa voce, Dante:
«non solo i corpi a loro, anche l’opere furon distrutte».
Cessarono le risa. Nessuno osava guardare laggiú.
Il nuovo venuto era impallidito.

Iosif Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, Adelphi, 1988

[…] se c’e qualcosa di buono nell’esilio e che insegna l’umiltà. Si può perfino arrivare a dire che quella dell’esilio e la più alta lezione di umiltà, la lezione definitiva. Ed e tanto più preziosa per uno scrittore in quanto gli apre la più ampia prospettiva possibile. “And thou art far in humanity”, come disse Keats: “E tu ti sei ben addentrato nell’umanità”. Essere sperduti in mezzo al genere umano, nella folla – folla? –, tra miliardi di individui; diventare un ago in quel proverbiale pagliaio –ma un ago che qualcuno va cercando –, questo e l’esilio, in sostanza. Ammaina la tua vanità, dice l’esilio, non sei che un granello di sabbia nel deserto. Non ti confrontare con gli altri uomini di penna, ma con l’infinita umana: la quale e amara e triste più o meno quanto quella non umana. E questo che deve suggerirti le parole, non già la tua invidia, non già la tua ambizione.
[…] Potrei sbagliare, ma direi che la condizione che chiamiamo esilio richieda e aspetti una spiegazione più approfondita; direi che questa condizione, famosa per la sofferenza che comporta, dovrebbe essere conosciuta anche per la sua infinitezza anestetizzante, per la smemoratezza che infonde, per il suo distacco, per la sua indifferenza, e perché apre terrificanti panorami umani e disumani per i quali non abbiamo altro metro tranne noi stessi. Dobbiamo rendere più facile il cammino al prossimo uomo, se non possiamo renderglielo più sicuro. E l’unico modo per renderglielo più facile, perché lui ne sia meno spaventato, consiste nel dargli tutta la misura di questa esperienza – nei limiti in cui noi stessi riusciamo ad abbracciarla.

Wall Of The Week: gli ultimissimi lavori di Fintan Magee – COTTON MAG

Fintan Magee, The Exile, Amman, Jordan

Alcuni passi sul tema dell’esilio tratti dal saggio di E.W.SAID, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi [Reflection on Exile and Other Essays], Feltrinelli, 2008 si possono leggere QUI.

L’esilio è singolarmente stimolante da pensare ma terribile da speri­mentare. È l’insanabile frattura scavata tra un essere umano e un luogo na­tio, tra il sé e la sua vera casa: la sua intima tristezza non può mai essere sormontata. E se è vero che la letteratura e la storia riferiscono di eroici, romantici, gloriosi, perfino trionfanti episodi in una vita da esule, questi non sono altro che sforzi diretti a superare i dispiaceri invalidanti del­l’estraniamento. I successi dell’esilio sono permanentemente inficiati dalla perdita di qualcosa che ci si è lasciati per sempre alle spalle. Ma se il vero esilio è una condizione di perdita irrecuperabile, perché è stato trasformato così facilmente in un potente, e persino proficuo, mo­tivo della cultura moderna?

PER APPROFONDIRE:

Brodskij I., Dall’esilio, trad. it. di G. Forti e G Buttafava, Adelphi, Milano 1988

Serena Guarini, Letteratura dell’esilio nella cultura contemporanea. CLICCA QUI.

Detto immigrato: sopra questo ovest
(strano catrame, bagnato impiantito)
fumando sigaretta guardingo si trapianta
ignoto Enea, che mica lo si canta.

TIZIANO ROSSI, Gente di Corsa, Milano, Garzanti 2000

S. TATTI, Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi, Carocci 2028

BarthelemyToguo2

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Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta

Il giorno della civetta è la prima opera letteraria in cui viene esplicitamente affrontato il tema della mafia. È un romanzo breve – o un racconto lungo: Sciascia non definiva “romanzi” le sue opere narrative – composto di diciassette parti non numerate. In La Sicilia come metafora, Sciascia afferma: “Il giorno della civetta mi è stato ispirato dall’assassinio a opera della mafia, a Sciacca (nel 1947, ndr), del sindacalista comunista (Accursio, ndr) Miraglia”.

Il titolo è tratto dall’Enrico VI di Shakespeare, un cui passo fa anche da epigrafe al romanzo: “… come la civetta quando di giorno compare”. Nel dramma (Parte III, atto V, scena IV), dopo il discorso con cui la regina Margherita incoraggia i suoi uomini a combattere, nonostante le perdite e le avversità, Somerset infatti commenta: “E chi non vuole combattere per una tale speranza vada a casa e a letto e se si alza, sia oggetto di scherno e di meraviglia come la civetta quando di giorno compare”. Secondo una condivisibile interpretazione, il titolo e l’epigrafe del romanzo sarebbero un monito a coloro che non hanno il coraggio di combattere la mafia, e pensano sia comunque necessario conviverci: si ritirino dalla scena e se ne stiano a letto, al riparo da ogni rischio, e non pensino di uscire un giorno alla luce del sole, perché sarebbero oggetto di scherno e stupore, come la civetta quando appare di giorno (cfr. Velania La Mendola, “ ‘Un libro che affronta un vivo, tragico problema’. Il giorno della civetta nelle carte Einaudi” in Todomodo, Anno II, 2012, p. 139)

Il personaggio del capitano Bellodi – il cui nome di battesimo non è mai indicato – è ispirato al maggiore e poi generale dei Carabinieri Renato Candida, alla cui memoria Sciascia dedicò un commosso ricordo su La Stampa dell’11 novembre 1988, un mese dopo la scomparsa dell’ufficiale.

In un articolo comparso sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982, dal titolo redazionale “Mafia: così è (anche se non vi pare”), Sciascia scrisse tra l’altro: “Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un esperto di mafia o, come oggi si usa dire, un ‘mafiologo’. Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte…”.

Euclide Lo Giudice, dal sito amicisciascia.it

Book trailer HUB Scuola

Cult Book: il video

Bruno Pischedda,  La civetta vide lontano,  “Il sole 24 ore”, Domenica, 13 novembre 2011

Il giorno della civetta sta come testimone atipico entro un gruppo d’opere che nel quinquennio 1958-1962 hanno scosso il panorama editoriale nostrano, mostrando come una buona qualità espressiva possa coniugarsi senz’altro con successi di pubblico altrettanto cospicui: Il gattopardo, La ragazza di Bube, Il giardino dei Finzi-Contini. Ai bestseller di Tomasi, Cassola e Bassani, Sciascia aggiungeva però una quota inedita di passione civica, e soprattutto un più ardito intarsio di motivi letterari, un fraseggiare su matrici plurime e talora incomposte che riverbera sino a oggi il carattere nettamente sperimentale del progetto.
Una coincidenza cronologica di diversa natura andrebbe intanto segnalata. Nel settembre del 1961 esce il n. 4 del periodico «Menabò», in cui Vittorini addita all’attenzione di narratori e poeti il nesso ormai imprescindibile tra industria e letteratura. Pochi mesi prima, nel marzo, Sciascia aveva mandato in libreria il suo romanzo a tema mafioso, quasi a dire che non ci sarebbe stata alcuna vera modernizzazione italiana trascurando le condizioni in cui versava il Meridione e la Sicilia in particolare. D’altronde non è il Nord fordista a proporsi nelle pagine sciasciane come valida alternativa di civiltà; ma la specifica mediazione etico-politica, culturale ed economica fornita dalle cittadine emiliane.
Nella triangolazione geografica inscenata dal Giorno della civetta, Sicilia-Roma-Parma, è quest’ultima a ristorare il capitano Bellodi degli smacchi subiti, a rinnovarne l’impegno. Da qui origina il suo senso dello Stato (la scelta partigiana, il concetto altissimo della legge), e insieme l’amore inestinto per le umane lettere. Legge e cita forse un po’ troppo, il giovane inquirente, tanto da lasciar trapelare l’autore che l’ha concepito. E tuttavia è in lui che il volume trova vera consistenza: o meglio nel punto di vista straniato di cui è latore, capace di dar conto della vicenda siciliana proprio perché restituisce le fattezze di una Sicilia “incredibile”.

Alla lezione vittoriniana il nostro romanzo si affida eccome, ma in altro modo. L’esteso sondaggio psicologico di cui gode Parrinieddu-Dibella, il confidente dei Carabinieri, sarebbe inconcepibile senza Uomini e no. La fitta corona di metafore che lo adorna squisitamente attinge sì a una variegata consuetudine di prosa d’arte; però con uno slancio lirico ed esistenzialista di cui solo il siracusano era maestro. È come se del conterraneo Sciascia cerchi di ripristinare le maniere antiche, proprio mentre questi più se ne sente distante e più si sta sforzando di oltrepassarle. Lo stesso ricercare etno-sociologico, che tanto incide nel resoconto, trova un antecedente immediato nelle pagine del «Politecnico».

Il debito che il narratore di Racalmuto contrae con Vittorini, e più in generale con la “couche” neorealista, è ancora largamente da mettere in chiaro. E a riguardo ci si aspettano contributi importanti da una nuova rivista di studi internazionali come «Todomodo», ideata da Francesco Izzo e condotta dall’Associazione Amici di Leonardo Sciascia (l’editore è Olschki, e il primo numero sarà disponibile a giorni). Ma altrettanto opportuno è riavviare il discorso circa le fonti antimafiose alle quali il nostro autore attingeva: dalle inchieste ottocentesche di Franchetti, Villari e Bonfadini sino alle risultanze fornitegli dall’ufficiale dell’Arma Renato Candida. Già se ne è occupato con puntualità Massimo Onofri (Tutti a cena da don Mariano, Bompiani 1995); lasciando tuttavia sullo sfondo le varianti stilistiche e tipologiche che ne sarebbero derivate.

Fenomeni come usura, omertà, brigantaggio, contrabbando, racket, truffe edilizie nutrono in varia misura le opere del verismo storico. E Il giorno della civetta li riprende, per così dire, in seconda battuta, con un sovrappiù di scandalo. Talora dando corso a procedure di tipo sottilmente parodico: dietro alla sentenziosità memorabile del capo mafioso don Mariano Arena («gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi» eccetera) è difficile non intravedere il sapienzialismo proverbioso di padron `Ntoni Malavoglia. Nondimeno l’architettura narrativa con cui abbiamo a che fare, nel suo spiccato sistema chiaroscurale, ha robusti elementi di contatto con un’altra tradizione, analogamente frequentata da Sciascia: quella del romanzo popolare d’appendice. Binomi ben definiti come onore/disonore, giustizia/sopruso, buoni/cattivi si riflettono direttamente nella doppia coppia costituita da Bellodi-Dibella e Bellodi-don Mariano. Proprio da qui sorsero a suo tempo le polemiche più aspre: giacché Sciascia, nell’intento di sfumare problematicamente antitesi tanto secche, vi introduce un senso di superiore compartecipazione.

Un moto di estremo riguardo chiarissimo e comprensibile dinnanzi al povero Dibella, la cui morte annunciata suscita nel capitano «una risposta di pietà, di religione». Assai più insidioso nel caso di don Mariano, spregiudicato assassino, che tuttavia egli paragona a «una massa irredenta di energia umana», di «solitudine», di «tragica volontà» (dove l’aggettivo “irredenta” rinvia nuovamente a un codice religioso). È ben vero che ingredienti tanto datati, e tanto faticosamente rifusi, convivono accanto a soluzioni stilistiche di latitudine contemporanea: una certa “imagerie” di taglio metafisico (il labirinto, il pozzo al fondo del quale giace la verità, il chiàrchiaro: landa desolata dove Dio «ha gettato la spugna»). O ancora un particolare anonimato, a cui Sciascia ricorre per timore della censura, e tale da richiamare le funzioni della drammaturgia espressionista: l’Eccellenza, il Deputato, il Procuratore della Repubblica.

Ma soprattutto sono da registrare due soluzioni che meglio proiettano il romanzo nell’orizzonte di un novecentismo maturo: lo schema giallistico e il montaggio di derivazione cinematografica. Grazie al primo accorgimento, Il giorno della civetta dà luogo a una trama ben connessa quantunque priva di suspense: essenzialmente regolata sull’alternanza dinamica tra descrizioni paesistico-psicologiche e interrogatori. A merito del secondo, nella sua speditezza incrociata, va la più coraggiosa e pionieristica denuncia della collusione tra mafia e politica, tra capi bastone e referenti parlamentari. Ne esce a conti fatti un’opera letteratissima, composita, eppure pamphlettistica, se non apertamente didascalica.

Vagliando a scopi redazionali Il giorno della civetta, Calvino aveva coniato la formula forse più felice: «racconto documentario». E lo stesso Sciascia, nelle corrispondenze con gli editori, nelle interviste, si mostrava perfettamente conscio del lavoro compiuto: «esemplificazione narrativa», diceva, addirittura «essemplo», ricorrendo per parte laica alle attitudini predicatorie di Bernardino da Siena. La mafia antica, di origine rurale, stava per approdare alle città, ai centri del potere democratico, e occorreva darne un riflesso romanzesco quanto mai aggiornato. Era il tempo, per lo scrittore di Racalmuto, in cui la realtà faceva da base inoppugnabile a qualunque letteratura; poi i rapporti di precedenza e di supremazia veridica si sarebbero lentamente invertiti.

Guida alla lettura e all’interpretazione, da H. Grosser, Il canone letterario, Principato, 2011

Il FILM diretto da Damiano Damiani, 1968

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La lingua del potere non vuole domande

Gianrico Carofiglio, “La Repubblica”, 30 giugno 2020

Nel discorso politico l’onere della prova non si richiede mai. E così ogni affermazione risulta valida. Anche se è una fake news

Le fallacie sono infrazioni alle regole di corretta costruzione dei discorsi – a volte involontarie, a volte deliberate e truffaldine – che impediscono alle discussioni di progredire in modo utile. Il dibattito politico è particolarmente denso di queste infrazioni il cui scopo è di sconfiggere slealmente l’interlocutore e di ingannare il pubblico.

Particolarmente diffusa, particolarmente insidiosa, particolarmente dannosa per la qualità della discussione democratica è la fallacia detta di violazione dell’onere della prova. Essa, lungi dal riguardare il solo ambito del giudiziario,  costituisce la trasgressione di una regola generale delle discussioni corrette: l’obbligo, per chi asserisce qualcosa, di provare la propria asserzione qualora richiesto. Nel mondo dell’azione politica i criteri per decidere se l’onere della prova sia stato assolto sono, è ovvio, meno stringenti di quelli giudiziari, ma il dovere di argomentare e provare le proprie affermazioni ha comunque carattere universale. Ha a che fare, né più e né meno, con la visibilità (dell’esercizio) del potere, la sua giustificabilità e, in definitiva, la sua legittimazione democratica.

Analizziamo dunque questa fallacia, i danni che essa produce, le possibili tecniche per neutralizzarla. In questa prospettiva va subito enunciata una premessa fondamentale: la semplice impossibilità di confutare un’argomentazione non rende quest’ultima vera. Se affermo che nel lago di Loch Ness esiste un mostro e il mio interlocutore mi risponde che dico sciocchezze, che l’esistenza della creatura non è stata mai accertata da chicchessia e che, nel caso, dovrei fornire delle prove, non posso replicare chiedendo a lui di dimostrare che il mostro non esiste. Questa, in sintesi estrema, è la fallacia dell’inversione dell’onere della prova: si formula un’affermazione controversa e del tutto sprovvista di elementi a sostegno, diversi da semplici congetture; si cerca di scaricare sull’interlocutore il dovere di provare la sua posizione, chiedendogli di fornire un’evidenza negativa, quasi sempre impossibile.

Per rendere più chiari il rilievo della questione e il suo carattere non meramente accademico, facciamo qualche esempio più concreto di una controversia sull’esistenza di un animale mitologico. Il 5 febbraio 2003, l’allora segretario di Stato Usa Colin Powell tenne un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sull’asserita disponibilità da parte del regime di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa; in particolare di enormi riserve di antrace. Tale discorso fu la premessa per l’azione militare poco dopo condotta contro l’Iraq, accusato, fra l’altro, di non aver fornito prove dell’assenza di quelle armi e dunque sottoposto a una drammatica inversione dell’onere della prova. Nei mesi e negli anni successivi si scoprì che le informazioni e le interpretazioni proposte da Powell al Consiglio di sicurezza erano semplicemente false, cosa che, in seguito, lui stesso fu costretto ad ammettere. Nel frattempo però la guerra era stata scatenata e avrebbe prodotto un’enorme numero di morti fra i militari, americani e iracheni, e fra la popolazione civile.

La vicenda delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene è un caso eclatante e paradigmatico di violazione dell’onere della prova, ma non è necessario andare così lontano nel tempo e nello spazio per trovare altri esempi di questa pericolosa fallacia.

Qualche anno fa il segretario della Lega espresse la convinzione che somministrare dieci vaccini fosse una pratica medica spesso pericolosa e comunque inutile, e che occorresse consentire l’ingresso a scuola anche ai bambini non vaccinati, pur esistendo sul punto un espresso divieto di legge. La comunità scientifica reagì subito indignata di fronte a simili pericolose sciocchezze e in particolare un noto studioso chiese a Salvini di fornire le evidenze scientifiche su cui basava l’affermazione di inutilità se non di pericolosità dei dieci vaccini. In altri termini richiese al leader leghista di adempiere all’onere della prova, cosa che, inutile dirlo, l’interessato si guardò bene dal fare.

Ma come difendersi da questa fallacia? Come neutralizzare la sua subdola e micidiale suggestione?

Non è questa la sede per una trattazione esaustiva dalle tecniche (spesso assai complesse) di difesa contro la manipolazione retorica. È però possibile indicare qualche spunto di metodo: per contrastare ogni tentativo di inversione probatoria bisogna, prima di tutto, rivolgere all’interlocutore due semplici domande: a) quale sia esattamente la sua affermazione (per sfuggire ai tentativi di manipolazione che derivano dall’uso di proposizioni vaghe, modificabili in base all’evoluzione del dibattito); b) su quali dati di fatto, diversi da mere congetture o pure fantasie, si basi la suddetta affermazione.

Queste domande sono le premesse per ogni strategia di contrasto alle asserzioni non provate, e più in generale per una pratica di igiene civile del discorso. A ben vedere la qualità della vita democratica dipende dal numero, dalla qualità, dall’efficacia delle domande che interpellano l’esercizio del potere e lo sottopongono a scrutini inattesi.

Scrive Viktor Klemperer ne La lingua del terzo Reich che «il punto interrogativo è forse l’interpunzione più importante» perché la lingua del potere è una lingua pericolosa, gelida e insofferente all’interrogazione.

Le società, le culture, i sistemi politici caratterizzati dall’evitamento dell’incertezza, in cui le persone sentono il bisogno di codici di comportamento e di pensiero non flessibili, sono poco capaci di progredire, di sviluppare più libertà e più intelligenza.

Le domande non convenzionali e le opinioni devianti non sono gradite, producono ansia, vengono stigmatizzate. Al contrario le società capaci di accettare la proficua incertezza che deriva da una sistematica interrogazione al potere nelle sue diverse forme, sono quelle capaci di evolvere, di affrontare le crisi inattese, di rimuovere i pregiudizi che   impediscono il progresso, di abbattere i muri che limitano il pensiero collettivo. La tolleranza dell’errore e la disponibilità ad ammetterlo, oltre che la tolleranza dell’incertezza, sono requisiti fondamentali di personalità e società sane e di democrazie vitali.

Quella che potremmo chiamare l’arte del dubitare domandando è lo strumento più efficace del pensiero critico e civile per contrastare tutte le forme e le pratiche di esercizio opaco, quando non deliberatamente occulto, del potere. Imparare a concepire domande intelligenti e non convenzionali è una buona azione democratica.

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Michelangelo in musica: l’interpretazione di Vinicio Capossela

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Michelangelo Buonarroti, Rime, a c. di P. Zaja, Milano, Rizzoli BUR, 2010

Fuggite, amanti, Amor, fuggite ’l foco;
l’incendio è aspro e la piaga è mortale,
c’oltr’a l’impeto primo più non vale
né forza né ragion né mutar loco.
Fuggite, or che l’esemplo non è poco
d’un fiero braccio e d’un acuto strale;
leggete in me, qual sarà ’l vostro male,
qual sarà l’impio e dispietato gioco.
Fuggite, e non tardate, al primo sguardo:
ch’i’ pensa’ d’ogni tempo avere accordo;
or sento, e voi vedete, com’io ardo.

Sonetto incompleto (manca la terzina finale). È scritto a matita su un foglio con vari schizzi, alcuni per le tombe medicee. Secondo Frey, cui rimanda Girardi, è del 1524.

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L’italiano è diventato una lingua straniera

Melania Mazzucco, “La Repubblica”, 30 luglio 2019

I padri della nazione erano convinti che solo la scolarizzazione avrebbe portato lo sviluppo economico. Ma oggi nessuno lo pensa più

Una decina di anni fa sono stata invitata in un liceo romano a parlare dei classici. Non ricordo se avevo scelto Ovidio o Petronio, ma non è importante. L’incontro – accuratamente preparato dagli insegnanti – fu vivace, la partecipazione degli studenti incoraggiante. Ma è solo alla fine, quando la prossemica si scompiglia e gli studenti si avvicinano all’autore per rivolgergli una domanda che si vergognerebbero di porre ad alta voce davanti ai compagni, che le battute del copione saltano e il dialogo diventa autentico. La sedicenne si china in avanti e mi chiede di firmarle la copia di un mio romanzo, premettendo che è per la madre. Bisbiglia che glielo ha fatto leggere, e le è piaciuto. Però ha dovuto tenere vicino il vocabolario, come quando studia inglese. Perché la metà delle parole non le capiva. Sto firmando la dedica, ma mi interrompo, stupita. La guardo. Quel liceo è frequentato dai figli della borghesia – dirigenti, politici, alti funzionari, avvocati. Non si tratta quindi di svantaggio sociale, carenze formative, marginalità. E nemmeno di distrazione digitale (gli smartphone cominciano appena a diventare dispositivi essenziali). Che genere di parole? chiedo (il romanzo in questione è ambientato ai giorni nostri, a Roma, non mi pare contenga parole “difficili”). Boh, non gliene viene in mente nessuna. Lo sfoglio insieme a lei, incuriosita. Ad apertura di pagina ne trova tre. Epiteto, scherno, ribadire. La lingua italiana è diventata una lingua straniera.

Per questo i risultati dei famigerati test Invalsi mi sono sembrati perfino discreti. Da più di vent’anni frequento le scuole italiane di ogni grado (dalle primarie agli istituti tecnici, allo scientifico) e livello – didattico, culturale, sociale e architettonico: dai casermoni fatiscenti nelle periferie della mia città agli edifici modernissimi nelle province del Veneto. Mi sono seduta in aule abitate da alunni di venti nazionalità diverse e altre nelle quali i cognomi del registro erano tutti noti. Sono quindi una testimone e non una protagonista di questo psicodramma nazionale. Ho la fortuna di vivere ore quasi spensierate coi ragazzi e di non doverli costringere a seguire il programma o interrogarli. L’esperienza personale mi ha edotta sul delirio burocratico, il precariato, le carenze di organico e di risorse, le parole belle e vuote delle carte dei diritti e le sciagurate riforme, ma non mi permetto di esprimere sentenze o vaticini. Ne registro però le conseguenze, anno dopo anno e ormai generazione dopo generazione.

Quando una struttura implode, l’edificio resta in piedi, e può sembrare perfino solido, ma le pareti sono destinate a franare, le fondamenta sono squassate, e ciò che resta è un simulacro. La scuola di oggi ha qualcosa di spettrale, anacronistico e in qualche modo commovente. Un simulacro identico a ciò che fu, nel quale si agitano, con abnegazione e dedizione al martirio, insegnanti di coscienza netta e buona volontà. Circondati però da macerie, fanti nella trincea abbandonati o sabotati dai loro comandi. Il destino dei ragazzi è affidato prima alla casta d’origine della famiglia, come tutti i commentatori hanno già notato, e quindi al caso. Un insegnante valido può infondere in loro una scintilla – di conoscenza, quanto meno – altrimenti saranno stati solo anni di parcheggio. Ma i ragazzi stessi cominciano a non poter più cogliere nemmeno quell’opportunità. La peggiore catastrofe infatti non è che l’italiano sia per loro una lingua straniera (lo è sempre stata), e che la matematica resti un privilegio geografico: è che nessuno – né i ragazzi né i loro genitori – crede più che la scuola serva a qualcosa.

L’Italia è stata una nazione giovane, spinta dalla forza lavoro dei suoi abitanti, poveri e incatenati all’ignoranza: nel 1861, al momento dell’Unità, il 74% della popolazione era analfabeta. I padri della nazione erano convinti che solo la scolarizzazione avrebbe portato sviluppo economico: i dati che decennio dopo decennio confermavano la diminuzione di quella percentuale che ci infamava tra le nazioni civili d’Europa hanno accompagnato l’effettiva modernizzazione del Paese. Ma dietro quei dati statistici c’era una speranza reale. Il mio bisnonno analfabeta spronava il figlio a studiare (benché poi dovette farlo emigrare dopo la seconda elementare) perché sapeva che se avesse saputo leggere e scrivere avrebbe avuto una vita migliore della sua. Questa certezza non era un’opinione, ma un fatto che ha cambiato la storia di milioni di esclusi. Oggi l’Italia non è più una nazione giovane (nemmeno per l’età dei suoi abitanti) ed è rimasta analfabeta. Ma lo studio non offre riscatto: il diploma non certifica niente, e la laurea è solo il passaporto per l’espatrio.

Ho mantenuto i contatti con decine di quei ragazzi incrociati nei miei incontri di un solo giorno. La metà di loro sono all’estero – per studiare, insegnare o fare ricerca nelle università, ma anche impiegati in aziende, ospedali, ristoranti e alberghi. I rimasti cercano lavoro. Pochissimi hanno figli. Il tempo dello studio è finito, quello della vita non è iniziato. Saper comprendere un testo non ha cambiato in meglio la loro esistenza. Non ha permesso nemmeno loro di pretendere – come cittadini consapevoli – più diritti. (Ne abbiamo tutti sempre meno). Piccole silenziose tragedie familiari che hanno spazzato via qualunque fiducia nel futuro. E la scuola che di quel futuro è già l’immagine, non potrebbe oggi essere diversa. Penuria, incompetenza e interessi erodono gli ultimi baluardi. Ma nonostante il potere si illuda del contrario, non giova a nessuno un popolo ignaro.

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Insegnanti non scendete dalla cattedra

Massimo Recalcati, Insegnanti non scendete dalla cattedra, “Repubblica”, 24 luglio 2019

Per educare di nuovo i ragazzi all’ascolto e alla lettura la scuola dovrebbe riadottare un modello di lezione più tradizionale

Non erano necessari i risultati degli ultimi Invalsi per constatare lo stato di declino del livello di apprendimento dei nostri figli. Gli insegnanti se ne lamentano ormai da tempo: non leggono, non studiano, non partecipano, non ascoltano più. I nostri figli fanno fatica a disciplinarsi nella lenta e rigorosa applicazione allo studio. Preferiscono i pensieri twitter, la cultura dei social, lo zapping continuo, la connessione perpetua, lo scivolamento rapido da una informazione all’altra, da un’immagine all’altra. Su questo giornale poco tempo fa si impugnava la giusta causa della difesa della storia come disciplina imprescindibile per comprendere il nostro tempo e allenare il pensiero critico. Il risultato degli Invalsi ci costringe però a fare un drastico passo indietro. Prima dell’insegnamento della storia è essenziale educare i nostri figli a farsi allievi. È questo il passaggio antropologico che oggi sembra mancare. Lo statuto dell’allievo implica lo sforzo di apprendere quello che si ignora. Questo sforzo viene oggi rigettato in nome di un accesso spensierato al mondo. Tuttavia, mentre scrivo avverto che il rischio di una morale paternalista è qui in agguato. Non dovremmo invece vedere in queste forme di disaffezione allo studio una sorta di appello disperato delle nuove generazioni alla generazione degli adulti? Non bisognerebbe sempre provare a ribaltare l’arroganza puberale del rifiuto di condividere la stessa lingua in una domanda di accesso ad un’altra lingua, ad una lingua più viva della lingua morta della Scuola?

L’inciviltà del discorso del capitalista retta sulla diffusione di un godimento immediato e dissipativo sembra dominare incontrastata e rendere il tempo lungo dell’apprendimento insensato. Il punto è che l’educazione alla lettura che dovrebbe essere alla base di ogni didattica e che viene prima del giudizio sull’importanza delle discipline (compresa quella storica) pare oggi un’impresa titanica come quella, per citare una celebre metafora freudiana, della bonifica olandese delle zone paludose dello Zuiderzee. È un altro tema assi noto agli insegnanti: il rifiuto della pratica della lettura. Si tratta a mio giudizio di un sintomo decisivo. Da cosa dipende? È uno dei problemi di fondo di questa nuova generazione. La presenza sempre presente della connessione impedisce l’esperienza dell’assenza e del vuoto che invece è essenziale per la genesi del pensiero. Lo ricorda con efficacia Bion: il pensiero può sorgere solo sull’orizzonte dell’assenza della Cosa, sullo sfondo della non-Cosa. Provate a staccare un ragazzo dal suo Iphone o da un altro dei suoi svariati oggetti tecnologici? Questo distacco viene vissuto come uno svezzamento brutale che suscita una profonda angoscia di separazione e, di conseguenza, un rigetto ostinato. Eppure bisogna forzatamente imboccare questo difficile sentiero per rendere possibile l’esperienza della formazione. L’educazione alla lettura del libro è la pietra angolare di ogni Scuola. La sua morte clinica, annunciata con gioia da certi cantori della cultura digitale sospinta, trascura che senza questa educazione ogni didattica risulterebbe semplicemente impossibile. Questa educazione dovrebbe essere il gesto fondativo di una buona Scuola. Il che comporta l’emancipazione da criteri di valutazione rigidamente quantitativi nei quali ricade fatalmente anche il paradigma degli Invalsi. L’educazione alla lettura è infatti educazione alla singolarizzazione divergente del sapere. È il fondamento umanistico irrinunciabile della nostra cultura che oggi rischiamo di dimenticare attratti dalle illusioni scientiste che hanno sospinto di fatto la Scuola verso l’azienda e l’impresa snaturando la sua vocazione autenticamente formativa. L’importazione di lemmi economicistici (debiti, crediti, assessment, ecc. ) unita alla colonizzazione della lingua inglese, non sono sintomi marginali ma rivelano la nostra subordinazione ad una “neolingua” che ha smarrito ogni spessore enigmatico. Gli insegnanti dovrebbero invece difendere il carattere epico della parola. Rifiutarsi di ridurre la sua dimensione allo scambio comunicativo. L’ampiezza del mio linguaggio, come ricordava Wittgenstein, coincide infatti con l’ampiezza dell’orizzonte del mio mondo. Le parole portano con sé la Legge dell’uomo; sono luce, apertura, orizzonte, casa. Se la scuola non recupererà la forza della parola e la sua Legge, essa resterà mutilata nel suo fondamento. Impresa titanica ma decisiva in un mondo che disprezza sistematicamente questa Legge insabbiando la sua vocazione profetica. Ecco perché io sono — anacronisticamente o, se si preferisce, novecentescamente — tra quelli che credono ancora nel modello tradizionale della lectio ex-cathedra. È solo la testimonianza dell’insegnante e della sua parola che può accendere o spegnare il desiderio di sapere negli allievi. Non c’è educazione alla lettura, non c’è, dunque, educazione in senso ampio, se non c’è la parola di un maestro. Ecco un’altra semplice verità che l’iper-cognitivizzazione attuale del sapere rimuove. Bisognerebbe invece non dimenticarlo mai: «Un maestro, un maestro, il mio regno per un maestro!».

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Naufragio senza spettatore

E. Nolde, Mare in tempesta, 1940

«È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, guardare da terra il grande travaglio di altri; non perché l’altrui tormento procuri giocondo diletto, bensì perché t’allieta vedere da quali affanni sei immune».
Lucrezio, De rerum natura, Libro II 1-4, trad. di L. Canali, Bur Rizzoli

Edoardo Albinati, Naufragio senza spettatore, “Il Sole 24 Ore Domenica”, 30 Giugno 2019

Da Lucrezio a noi. Albinati riflette sul millenario tema del naufragio e di chi vi assiste: se sia giusto o ingiusto godere della propria sicurezza comparandola all’insicurezza altrui, arrivando fino a chi nega lo sbarco agli scampati

Sulla terra si fonda l’esistenza, in mare la si comprende. Innumerevoli sono le immagini connesse al naufragio, a chi lo vive in persona, a chi vi assiste (come nella famosa quanto enigmatica massima lucreziana nel secondo libro del De Rerum Natura), a chi lo vede rappresentato.
Del resto, è il naufragio stesso una rappresentazione, perfettamente conclusa in sé: non un emblema dunque o un’allegoria di qualcos’altro, bensì l’essenza e l’esperienza primaria della catastrofe. Forse paragonabile, per chi vi si trova sciaguratamente coinvolto, soltanto al terremoto: vale a dire quell’evento che scuote le fondamenta del proprio stare al mondo, scatenando e rivelando del naturale l’aspetto, per così dire, sovrannaturale e mostruoso.
Eppure il terremoto è un evento eccezionale, o quantomeno raro: il mare in tempesta, invece, uno spettacolo ordinario. Se osservato da terra, genera meditazioni più o meno sagge; se vissuto in mezzo alle muraglie d’acqua, rende manifesta come nessun’altra situazione l’imminenza della morte, o piuttosto, la sua immanenza, il suo incessante incombere su di noi.
Ma non è nemmeno quello della morte il termine più prossimo a quest’immagine. Ve n’è se possibile uno ancora più impressionante, il limine posto all’altro capo della vicenda di ogni essere umano: non la sua fine dunque, bensì il suo inizio. La nascita stessa, il venire alla luce, essere gettati sulla terra, è a tutti gli effetti un naufragio. Il naufragio iniziatico alla vita. Uno shock che ammutolisce o fa gridare aiuto. Scrive sempre Lucrezio mettendo a confronto i corpi indifesi del neonato e quelli del naufrago: «così il bambino, che la natura ha buttato sulle spiagge di luce, espellendolo con dolorose fitte dal grembo materno, proprio come un naufrago sballottato dalle onde furiose giace ignudo, incapace di parlare e bisognoso di soccorso».
Noi tutti dunque siamo naufraghi proprio in quanto venuti al mondo. E l’intero percorso dell’esistenza può essere paragonato a un viaggio per mare. Il medesimo parallelismo funziona invertendone i termini: ogni volta che ci si avventura in mare, è come se ci si avviasse a ricapitolare la precaria interezza della vita, rischiarandola proprio mentre la si mette a rischio. La luce speciale che solo i naviganti conoscono, sia col cielo sereno sia tra i lampi della tempesta, ne illumina la rotta, il passaggio, la strettoia (Francesco Petrarca ne ha descritto i pericoli, con abbondanza di dettagli marineschi, nel sonetto Passa la nave mia, che sarebbe riduttivo interpretare solo come una virtuosistica variazione sul tema dell’amante smarrito nella tempesta dei sentimenti).
Un ulteriore aspetto paradossale del viaggio per mare è che, il più delle volte, è proprio nei pressi del suo termine, quando sembra ormai prossimo a concludersi, a un soffio dalla salvezza, che esso rischia di fallire, e precipita nella sciagura i suoi protagonisti. Nulla vi è di più pericoloso che incontrare quella terraferma che si agognava di raggiungere. Il massimo dell’orrore per i naviganti è la vista della temibile scogliera che torreggia sulla nave, sempre più vicina. Le onde potranno ucciderli annegandoli o scagliandoli contro le rocce a cui intendevano aggrapparsi. Il possibile approdo si tramuta in una maledizione.
Nella versione della nostra attualità politica, il porto che potrebbe accogliere e salvare i naufraghi si rivela illusorio. Avvistare terra non è un sollievo bensì un miraggio. Alla nave con gli scampati viene negato lo sbarco. Si ritrova a galleggiare a poche miglia dalla riva, ancora tra i marosi, in una strana sospensione o rinvio del destino. Il viaggio si allunga e il rischio si riattiva. Chi stava annegando non scenderà a terra, comunque. Rispetto all’inferno dell’affogamento, ecco il purgatorio o forse il limbo del respingimento. Quelli che non sono periti tra le onde, semplicemente, cesseranno di esistere. Sia dal punto fisico sia da quello giuridico. Anche in acque cosiddette territoriali (espressione ossimorica più di ogni altra) il mare rimane “terra di nessuno”. Inabitabile, dunque. La speranza, tema di mille racconti e mille dipinti (esiste un genere pittorico a sé, frequentato dagli artisti sia per il virtuosismo tecnico che permette, sia per la densità di riferimenti simbolici), si spegne giusto a un passo dal traguardo: tenendo conto del fatto che quella via mare era solo l’ultima tappa di un viaggio cominciato, spesso, migliaia di chilometri più indietro, e mesi o addirittura anni prima, proprio come nelle narrazioni antiche degli esodi, delle ritirate e delle peregrinazioni: di eserciti, di interi popoli sconfitti o fuggiaschi, individui perseguitati, eroi condannati a compiere imprese impossibili all’altro capo del mondo.
Una maledizione mitica pesa su chi si avventura in mare come se lo stesse violando, come se il navigare stesso sia blasfemo e delittuoso, contaminante. Tracce di questo interdetto arcaico sono disseminate un po’ ovunque, dall’Iliade alle Argonautiche all’Aminta di Tasso, e oggi riaffiora, in una versione degradata e strumentale, nei discorsi di chi predica che ognuno se stia «a casa sua», e tutti rimangano «al paese loro», che là vi siano guerra o persecuzioni o siccità o carestia (o la mancanza stessa di una casa…) non importa, purché costoro non si mettano in viaggio, come dice Esiodo, «nell’assillo di una vita migliore». La speranza di una «vita migliore» (o semplicemente, di “una vita”, cioè, di conservarsi vivi) viene considerata alla stregua di una smania incomprensibile. Chi si spinge in mare, in effetti, sarà difficile fermarlo, sbarrargli la strada: nel mare non vi sono confini visibili e non si possono erigere muri e srotolare filo spinato. Se verso i popoli che abitano regioni anche lontane, ma di cui possono varcare i confini via terra, si nutrono, eventualmente, diffidenza e paura (eppure li si sente in qualche misura simili, magari pericolosamente simili…), chi invece abita al di là del mare e osa impunemente attraversarlo è visto come totalmente alieno, un mostro, la cui sfrontata pretesa di spingersi verso le nostre rive (che all’improvviso, facendo ricorso a un lessico da tempo dismesso, tornano ad essere “sacre”) non solo va respinta, va punita.
Dunque, affondare le navi degli intrusi prima che queste affondino da sole? Siccome non è lecito, e sarebbe troppo scandaloso (eppure qualcuno è arrivato seriamente a proporlo!), ecco farsi avanti una nuova modalità, quella, potremmo dire, dell’indifferenza attiva, della cecità programmata. Come se si cancellassero dallo schemino con cui si gioca alla battaglia navale, le navi in pericolo spariscono dai radar, si smaterializzano. Finisce la loro problematicità, poiché «la cosa non ci riguarda» o «riguarda altri». Venuto meno lo sguardo, viene meno anche il suo oggetto.
E dunque il «naufragio con spettatore», che ha fatto discutere per secoli i filosofi, si può semplicemente mutare in un «naufragio senza spettatore», un evento a cui è sufficiente non assistere affinché esso cessi di essere, e dunque di generare interrogativi: se sia giusto o ingiusto godere della propria sicurezza comparandola all’insicurezza altrui, se «lo spettacolo dell’altrui rovina» debba farci provare un sentimento confortante, oppure rabbia, o pietà, se il soccorso sia un obbligo, un’opzione, una frastornante seccatura, se alla agitazione delle acque corrisponda un’agitazione dello spirito di chi ha i piedi all’asciutto. Si vuole chiudere in questo modo, alla maniera di un bilancio aziendale stilato in fretta e furia, con corredo di numeri e statistiche, un tragitto di pensiero millenario.

Questo testo di Edoardo Albinati sarà pubblicato, insieme ad altri dedicati al «Naufragio con spettatore», sul numero di luglio della rivista di cultura psicoanalitica «Psiche», diretta da Maurizio Balsamo ed edita da Il Mulino.

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Classici. Perché continuano a meravigliarci

Adam Gopnik, “L’Espresso”, 2 giugno 2019

Grondano sangue. Raccontano guerre. Parlano di vizi più che di virtù. E non ci insegnano a fare le cose giuste. Proprio per questo li amiamo così tanto: è il gusto di andare incontro al pericolo

Perché leggiamo i classici? L’attacco all’idea di un «canone» della letteratura classica – non intendo soltanto i classici dell’antichità, ma anche gli attuali capolavori della letteratura occidentale – è stato vibrante e per molti versi definitivo, almeno nell’ambiente accademico americano. I classici – ci hanno detto – non rappresentano una fonte di verità, ma un muro opprimente fatto per escludere, un muro che estromette le donne e le minoranze, i colonizzati e i perseguitati, chi è ignorato e chi è trattato ingiustamente. Il «canone» della letteratura classica non è altro che una cospirazione di uomini bianchi europei per promuovere altri uomini bianchi europei, e ne facciamo benissimo a meno. Il prestigio è potere, e il potere è tutto quello che vale la pena di studiare – e avere il potere di cambiare il potere è tutto quello che vale la pena di fare.

Questo, però, nessuno lo crede veramente: quale che sia il modello prescelto di attacco al canone, per esempio, nessuno può insegnare questo principio senza riferimenti impliciti o espliciti a Marx o Foucault o Fanon. In effetti, il canone degli anti-classici è solido come lo stesso canone classico – per molti versi anche di più. D’altra parte, l’attacco ai classici nel loro complesso rimane una sfida per lo studioso, e lo è ancor di più per il lettore amatoriale che vuole sapere perché – quando qualcuno gli mette tra le mani l’Odissea, o il Paradiso perduto, o la Divina commedia – valga ancora la pena leggerli come qualcosa di più d’un reperto del passato.

Vi sono, io credo, due risposte distinte a questa sfida, caratterizzate da due diversi livelli di persuasività. La tipica risposta dello studioso di vecchio stampo è che i classici sono depositari di conoscenza e saggezza ai quali è possibile attingere ripetutamente, e che se trascuriamo la saggezza e la conoscenza che essi hanno in serbo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Leggendo Omero, Dante e gli altri, per non parlare della Bibbia, apprendiamo devozione, eroismo e nobiltà. Abbiamo bisogno dei classici perché senza di essi saremo privati della virtù.

Vi prego di perdonarmi se mi oppongo a questa asserzione. In verità, la maggior parte del tempo che dedichiamo alla lettura dei classici non è impegnata in una lettura diligente alla ricerca di nuove profondità e nuovi significati – di fronte ai quali, invece, passiamo oltre con disinvoltura. Mentre puntiamo verso gli altri piaceri che si suppone il testo abbia da offrire, passiamo oltre su tutto quello che ci sembra palesemente abominevole o esecrabile. Nel Vecchio Testamento, il libro di Ester, per quanto magnifico, è anche la storia del brutale impalamento dei persiani: gente che ci hanno insegnato a non stimare, certo, ma pur sempre esseri umani. (Provate a immaginare un impalamento! E poi rideteci sopra, trovatelo piacevole.) Proprio adesso sto leggendo in inglese moderno, nella splendida traduzione di Richard Fagles, l’Odissea di Omero: nessun libro è più classico di questo, che ne ha ispirati infiniti altri, compreso il classico dei classici del ventesimo secolo: l’Ulisse, la parodia joyceana di Omero (perché, di fatto, è di quello che si tratta).
In verità, però, anche se – un verso dopo l’altro – narrazione e invenzione ci conquistano, è comunque uno shock esser tenuti ad accettare i valori d’un mondo in cui l’eroismo militare è quasi l’unico attributo di virtù, in cui il massacro in massa di sfortunati pretendenti è considerato una vendetta legittima e in cui, sotto molti aspetti fondamentali, è soltanto la forza a dettar legge. (Gli dèi devono essere placati, ma solo perché sono potenti.) È per questo che ci sentiamo pervasi di piacere quando scorgiamo, in mezzo alle differenze, l’amore di Omero per la primaria virtù umana dell’ospitalità: il benvenuto verso chi viene da lontano è un fondamentale atto di reciprocità che tutti devono rispettare. La sua presenza, sorprendente e gradita, ci emoziona e ci commuove.

Avvicinandoci ai nostri tempi e a quella che un anglofono percepisce come la propria cultura, quando leggiamo il Paradiso perduto di Milton, ci viene chiesto di aderire ai valori spaventosi di un culto del sacrificio sostitutivo. Probabilmente quel culto – la religione cristiana – ci è familiare, ma questo non lo rende meno scioccante. Né, e qui forse rischio di offendere il mio amato pubblico italiano, possiamo leggere l’Inferno di Dante senza avere a tratti la sensazione che ci stiano offrendo una visita guidata ad Auschwitz, con quelle moltitudini che soffrono per l’eternità senza avere colpe più gravi delle nostre – eppure non siamo disposti a provare pietà, ma inclini a fare giustizia.
Non possiamo leggere i classici perché ci insegnano a fare le cose nel modo giusto, perché in realtà non lo fanno. E allora perché li leggiamo? Invece di partire dall’idea che contengano verità profonde, muoviamo da una premessa più semplice. Partiamo dal piacere. Combiniamo una prospettiva epicurea e una prospettiva darwiniana. I classici allora sono semplicemente i testi che – passati al vaglio del tempo – sono giunti a noi, e dai quali più lettori hanno tratto piacere: al punto da voler continuare a «copiarli», ripubblicarli, riprodurli, tramandarli affinché li leggano anche le generazioni future. Nel concetto di piacere non è incluso un qualche semplice concetto di virtù: il piacere è molteplice, pericoloso, autocontraddittorio. Quando leggiamo, le nostre fantasie e i nostri valori sono spesso in conflitto: devono esserlo, per poter essere interessanti. Nessuno, ad esempio, legge, o dovrebbe leggere, un fantasy che rappresenti accuratamente la vita di un maschio dodicenne, con l’eroe sprofondato nella lettura. No, quando un dodicenne s’innamora di Tolkien, non gli diamo una spada, né gli mostriamo dove sono gli Orchi. Gli diamo invece un altro libro. Il piacere della lettura non sta nel fatto che ci mostra un comportamento da imitare, ma che ci mostra altri mondi, altre possibilità, altri valori diversi dai nostri. La cosa peggiore che si possa dire di un libro è che è una lettura d’«evasione» – forse però è anche il commento migliore da fare. L’evasione è il nostro tributo più sincero alla realtà.
Noi leggiamo andando in cerca di pericolo, di meraviglia – per usare un’espressione inglese un po’ datata, “for thrills”, in cerca di brividi, di emozioni. Altrimenti dovremmo smettere di leggere. Leggiamo i classici per piacere: un piacere profondo, complesso e complicato, spesso proibito. Mentre scrivo, sulla mia scrivania ho la serie completa di James Bond, la stessa edizione tascabile dei romanzi di Ian Fleming che avevo quand’ero un ragazzino di dieci anni. Nessuno può essere stato Bond-dipendente in modo più totale di come lo ero io: dunque non sono guarito da questa passione? Sì e no. Ho superato i valori offerti da quei romanzi, ma non la dipendenza. La buona letteratura, gli autentici classici, dovrebbero avere qualcosa della pornografia, del suo aroma – dovrebbero colpirci come piaceri proibiti, più che come una fonte di istruzioni morali. Un grande classico inglese, la “Vita di Samuel Johnson” di James Boswell, è pettegolezzo e conversazione – un passato lontano ma ancora attuale. Trollope e Balzac ci offrono titoli politici – un passato lontano e superato. I classici andrebbero letti stando sotto le coperte, o in piedi in librerie male illumina- te, o nascosti fuori in giardino. Per mantenerci fedeli alla nostra effettiva esperienza di lettori, dobbiamo declassicizzare i classici. Proibiamoli, come è accaduto in tanti regimi totalitari, e loro rivivranno. Noi rientriamo in connessione con l’autenticità del nostro passato moralmente diviso solo quando ci riconnettiamo all’autenticità del nostro sé moralmente diviso. Pettegolezzo e conversazione, seduzione ed eccitamento, manovra politica e scontro fazioso – le piccole province della vita sono il vasto impero della letteratura.

Traduzione Isabella Bloom

ADAM GOPNIK leggerà questo inedito giovedì 6 giugno a Roma, sul palco del Festival Letterature di Massenzio al Foro Romano ideato e diretto da Maria Ida Gaeta. Nella stessa serata leggeranno i loro inediti Anthony Cartwright, Jordan Shapiro e Valerio Massimo Manfredi. La rassegna inizierà il 4 giugno e proseguirà tutti i martedì e giovedì fino al 3 luglio con molti protagonisti della scena letteraria. A loro il compito di leggere inediti ispirati al tema dell’edizione, “Il domani dei classici”, accompagnati da musica live. Dopo Antonio Scurati, Manuel Vilas e Andrea Satta nella serata inaugurale, il programma proseguirà l’11 giugno con Scott Spencer, Alicia Giménez Bartlett, Antonio Manzini e Roberto Alajmo. Tra i tanti ospiti, Alberto Manguel, i finalisti Strega, Carlo Lucarelli, Chris Offutt, Chiara Gamberale, Philippe Forest, Michela Marzano, Joe Lansdale, Valeria Parrella e Roberto Saviano.

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