Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo! La via, cinque anni fa.
L’eternità s’è sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l’altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare più lontano della più lontana stella del cielo.
Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926
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Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: ‘mai più!’. Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923***
ITALO SVEVO, Soggiorno Londinese, 1926:
[…] In quei giorni capita da me l’unico medico psicanalista di Trieste e mio ottimo amico il Dr. Weiss e, inquieto, guardandomi negli occhi, domanda se il medico psicanalista di Trieste di cui m’ero burlato nel mio romanzo fosse lui. Risultò subito che non poteva essere lui perché durante la guerra egli la psicanalisi a Trieste non l’aveva praticata. Rasserenato accettò il mio libro con tanto di dedica, promise di studiarlo e di farne una relazione in una rivista psicanalitica di Vienna. Per qualche giorno mangiai e dormii meglio. Ero vicino al successo perché la mia opera sarebbe stata discussa in una rivista mondiale. Invece quando lo rividi il Dr. Weiss mi disse che non poteva parlare del mio libro, perché con la psicanalisi non aveva nulla a che vedere. In allora mi dolse perché sarebbe stato un bel successo se il Freud m’avesse telegrafato: «Grazie di aver introdotto nell’estetica italiana la psicanalisi»… Ora non mi duole più. Noi romanzieri usiamo baloccarci con grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle: le falsifichiamo ma le umanizziamo. Il superuomo quando arrivò in Italia non era precisamente quello di Nietzsche. Attuato in Italia in prosa, in poesia ma anche in azione, non so se Nietzsche lo riconoscerebbe per suo e oramai sarebbe tanto peggio per lui se ne rifiutasse la paternità.
Ma vorrei chiarire ancora meglio la mia idea mettendola terra a terra, voglio dire applicandola ad una teoria ch’è molto più lontana da noi di quella del superuomo che non fu neppure a mio sapere sfiorata dall’arte e che pur tuttavia prima o poi ci si avvicinerà in colori e fantasie. La teoria della relatività per il momento non può essere intesa che da chi sa navigare traverso le formule della matematica. L’artista, voglio dire l’artista letterato, e l’illetterato, dopo qualche vano tentativo di avvicinarsi, la mette in un cantuccio di dove essa lo turba e l’inquieta, un nuovo fondamento di scetticismo, una parte misteriosa del mondo, senza della quale non si sa più pensare. E’ là, non dimenticata ma velata, e ad ogni istante accarezzata dal pensiero dell’artista. Un giorno uno di essi, un artista ch’era arrivato all’arte traverso la biologia, va da Einstein e gli dice: “Io ho trovato il modo di spiegare al volgo la relatività senza imporgli lo studio della matematica”. E incoraggiato dall’Einstein, disse la sua idea: “Ammettendo che si possa costruire un uomo il cui cuore pulsi anziché 72 volte il minuto, soltanto una volta ogni dieci minuti, è certo che quest’uomo tanto lento vedrà passare il sole da un orizzonte all’altro con la rapidità di un fuoco d’artificio”. L’Einstein disse: “L’idea è bellissima ma non ha niente a che fare con la mia relatività”. Intanto l’aveva trovata bella ed è già qualche cosa. Io, che non conosco la matematica e perciò la vera relatività, non sono sicuro che non ci sia in quell’idea più relatività di quanto l’Einstein supponga. Il destino vuole che l’artista venga ispirato dal filosofo ch’egli non perfettamente intende, e che il filosofo non intenda lo stesso artista ch’egli ispirò. È nota l’avventura del Wagner con lo Schopenhauer. Gli inviò sua musica con proteste di gratitudine a chi egli considerava suo maestro. Ma lo Schopenhauer gli scrisse ch’egli riteneva che la musica del Rossini fosse quella che si acconciasse meglio alla sua filosofia. Egli intanto per suo conto non voleva che quella. Oggidì tutta la falange degli Schopenhaueriani sono di altro parere.
Questo rapporto intimo fra filosofo e artista, rapporto che somiglia al matrimonio legale perché non s’intendono fra di loro proprio come il marito e la moglie e tuttavia come il marito e la moglie producono dei bellissimi figliuoli conquista all’artista un rinnovamento o almeno gli dà il calore e il sentimento della cosa nuova come avverrebbe se fosse possibile di mutare una parte del vocabolario e darci delle parole nuove non ammuffite dalla loro antichità e dal lungo uso. In quanto al filosofo, può dirsi contento quando un potente riflettore lo metta in piena luce alla ribalta del mondo, lui che altrimenti corre il rischio di fare la vita del roditore.
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DINO BUZZATI, Appuntamento con Einstein, in Sessanta racconti, 1958
In un tardo pomeriggio dell’ottobre scorso, Alberto Einstein dopo una giornata di lavoro, passeggiava per i viali di Princeton, e quel giorno era solo, quando gli capitò una cosa straordinaria. A un tratto, e senza nessuna speciale ragione, il pensiero correndo qua e là come un cane liberato dal guinzaglio, egli concepì quello che per l’intera vita aveva sperato inutilmente. D’un subito Einstein vide intorno a sé lo spazio cosiddetto curvo, e lo poteva rimirare per diritto e per rovescio, come voi questo volume. Dicono di solito che la nostra mente non riuscirà mai a concepire la curvatura dello spazio, lunghezza larghezza spessore e in più una quarta dimensione misteriosa di cui l’esistenza è dimostrata ma è proibita al genere umano; come una muraglia che ci chiude e l’uomo, dirittamente volando a cavallo della sua mente mai sazia, sale, sale e ci sbatte contro. Né Pitagora né Platone né Dante, se oggi fossero ancora al mondo, neppure loro riuscirebbero a passare, la verità essendo più grande di noi. Altri invece dicono che sia possibile, dopo anni e anni di applicazione, con uno sforzo gigantesco del cervello. Qualche scienziato solitario – mentre intorno il mondo smaniava, mentre fumavano i treni e gli alti forni, o milioni crepavano in guerra o nel crepuscolo dei parchi cittadini gli innamorati si baciavano la bocca – qualche scienziato, con eroica prestazione mentale, tale almeno è la leggenda, arriverà a scorgere (magari per pochi istanti solo, come se si fosse sporto sopra un abisso e poi subito lo avessero tirato indietro) a vedere e contemplare lo spazio curvo, sublimità ineffabile della creazione. Ma il fenomeno avveniva nel silenzio e non ci furono feste al temerario. Non fanfare, interviste, medaglie di benemerenza perché era un trionfo assolutamente personale e lui poteva dire: ho concepito lo spazio curvo, però non aveva documenti, fotografie o altro per dimostrare che era vero. Quando però questi momenti arrivano e quasi da una sottile feritoia il pensiero con una suprema rincorsa passa di là, nell’universo a noi proibito, e ciò che prima era formula inerte, nata e cresciuta al di fuori di noi, diventa la nostra stessa vita; oh, allora di colpo si sciolgono i nostri tridimensionali affanni e ci si sente – potenza dell’uomo! – immersi e sospesi in qualche cosa di molto simile all’eterno. Tutto questo ebbe il professor Alberto Einstein, in una sera di ottobre bellissima, mentre il cielo pareva di cristallo, qua e là cominciavano a risplendere, gareggiando col pianeta Venere, i globi dell’illuminazione elettrica, e il cuore, questo strano muscolo, godeva della benevolenza di Dio! E benché egli fosse un uomo saggio, che non si preoccupava della gloria, tuttavia in quei momenti si considerò fuori del gregge come un miserabile tra i miserabili che si accorge di avere le tasche piene d’oro. Il sentimento dell’orgoglio si impadronì quindi di lui. Ma proprio allora, quasi a punizione, con la stessa rapidità con cui era venuta, quella misteriosa verità disparve. Contemporaneamente Einstein si accorse di trovarsi in un posto mai prima veduto. Egli camminava cioè in un lungo viale costeggiato tutto da siepi, senza case né ville né baracche. C’era soltanto una colonnetta di benzina a strisce gialle e nere, sormontata dalla testa di vetro accesa. E vicino, su un panchetto di legno, un negro in attesa dei clienti. Costui portava un paio di calzonigrembiule e in testa un berretto rosso da baseball. Einstein lo aveva appena sorpassato, che il negro si alzò, fece alcuni passi verso di lui e: ”Signore!” disse. Così in piedi, risultava altissimo, più bello che brutto, di fattezze africane, formidabile; e nella vastità azzurra del vespero il suo sorriso bianco risplendeva. ”Signore” disse il negro ”avete fuoco?” e mostrava un mozzicone di sigaretta. ”Non fumo” rispose Einstein fermatosi più che altro per la meraviglia. Il negro allora: ”E non mi pagate da bere?“. Era alto, giovane, selvaggio. Einstein cercò invano nelle tasche: ”Non so… con me non ho niente… non ho l’abitudine… spiacente proprio“. E fece per andare. ”Grazie lo stesso” disse il negro ”ma… scusate” ”Che cosa vuoi ancora?” fece Einstein. ”Ho bisogno di voi. Sono qui apposta.” ”Bisogno di me? Ma che cosa…?” Il negro disse: ”Ho bisogno di voi per una cosa segreta. E non la dirò che nell’orecchio“. I suoi denti biancheggiavano più che mai perché intanto si era fatto buio. Poi si chinò all’orecchio dell’altro: ”Sono il diavolo Iblìs” mormorò ”sono l’Angelo della Morte e devo prendere la tua anima“. Einstein arretrò di un passo. ”Ho l’impressione” la voce si era fatta dura ”ho l’impressione che tu abbia bevuto troppo.” ”Sono l’Angelo della Morte” ripeté il negro. ”Guarda.” Si avvicinò alla siepe, ne strappò un ramo e in pochi istanti le foglie cambiarono colore, si accartocciarono, poi divennero grigie. Il negro ci soffiò sopra. E tutto, foglie, rametti e gambo volò via in una polvere minuta. Einstein chinò il capo: ”Accidenti. Ci siamo allora… Ma proprio qui, stasera… sulla strada?” ”Questo è l’incarico che ho avuto.” Einstein si guardò intorno, ma non c’era anima viva. Il viale, i lampioni accesi e laggiù in fondo, all’incrocio, luci di automobili. Guardò anche il cielo; il quale era limpido, con tutte le sue stelle a posto. Venere proprio allora tramontava. Einstein disse: ”Senti, dammi tempo un mese. Proprio adesso sei venuto che sto per terminare un mio lavoro. Non ti chiedo che un mese“. ”Ciò che tu vuoi scoprire” fece il negro ”lo saprai subito di là, basta che tu mi segua.” ”Non è lo stesso. Che conta ciò che sapremo di là senza fatica? È un lavoro di notevole interesse, il mio. Ci fatico da trent’anni. E ormai mi manca poco…” Il negro sogghignò: ”Un mese, hai detto?… Ma fra un mese non cercare di nasconderti. Anche se ti trasferissi nella miniera più profonda, là io ti saprò subito trovare“. Einstein voleva ancora fargli una domanda, ma l’altro si era dileguato. Un mese è lungo se si aspetta la persona amata, è molto breve se chi deve giungere è il messaggero della morte, più corto di un respiro. Passò l’intero mese e di sera, riuscito a restar solo, Einstein si portò sul luogo convenuto. C’era la colonnetta di benzina e c’era la panca con il negro, solo che adesso sopra la tuta aveva un vecchio cappotto militare: faceva freddo, infatti. ”Sono qui” disse Einstein, toccandogli una spalla con la mano. ”E quel lavoro? Terminato?” ”Non è finito” disse lo scienziato mestamente. ”Lasciami ancora un mese! Mi basta, giuro. Stavolta sono sicuro di riuscire. Credimi: ci ho dato dentro giorno e notte ma non ho fatto in tempo. Però mi manca poco.” Il negro, senza voltarsi, alzò le spalle: ”Tutti uguali voi uomini Non siete mai contenti. Vi inginocchiate per avere una proroga. E poi c’è sempre qualche pretesto buono…“. ”Ma è una cosa difficile, quella a cui lavoro. Mai nessuno…” ”Oh, conosco, conosco” fece l’Angelo della Morte. ”Stai cercando la chiave dell’universo, vero?” Tacquero. C’era nebbia, notte già da inverno, disagio, voglia di restare in casa. ”E allora?” chiese Einstein. ”Allora va… Ma un mese passa presto.” Passò sveltissimo. Mai quattro settimane furono divorate con tanta avidità dal tempo. E soffiò un vento gelido quella sera di dicembre, facendo scricchiolare sull’asfalto le ultime raminghe foglie: all’aria tremolava, di sotto al basco, la bianca criniera del sapiente. C’era sempre la colonnetta di benzina, e accanto c’era il negro con un passamontagna in testa, accoccolato come se dormisse. Einstein gli si fece vicino, timidamente gli toccò una spalla. ”Eccomi qui. ” Il negro si stringeva nel cappotto, batteva i denti per il freddo. ”Sei tu?” ”Sì, sono io.” ”Finito, allora?” ”Sì grazie a Dio, ho finito.” ”Terminato il grande match? Hai trovato quello che cercavi? Hai schiodato l’universo?” Einstein tossicchiò: ”Sì” disse scherzosamente ”in certo modo l’universo adesso è in ordine“. ”Allora vieni? Sei ben disposto al viaggio?” ”Eh, certo. Questo era nei patti.”
D‘un botto il negro balzò in piedi e fece una risata classica da negro. Poi diede, con l’indice teso della destra, un colpo sullo stomaco di Einstein, che quasi perse l’equilibrio. ”Va, va, vecchia canaglia… Torna a casa e corri, se non vuoi prenderti una congestione polmonare… Di te, per ora, non me ne importa niente.” ”Mi lasci?… E allora, perché tutte quelle storie?” ”Importava che tu finissi il tuo lavoro. Nient’altro. E ci sono riuscito… Dio sa, se non ti mettevo quella paura addosso, quanto l’avresti tirata ancora in lungo.” ”Il mio lavoro? E che te ne importava?” Il negro rise: ”A me niente… Ma sono i capi, laggiù, i demoni grossi. Dicono che già le tue prime scoperte gli erano state di estrema utilità… Tu non ne hai colpa, ma è così. Ti piaccia o no, caro professore, l’Inferno se ne è giovato molto… Ora fa assegnamento sulle nuove…” ”Sciocchezze!” disse irritato Einstein. ”Che vuoi trovare al mondo di più innocente? Piccole formulette sono, pure astrazioni, inoffensive, disinteressate…” ”E bravo!” gridò Iblìs, dandogli un altro botto con il dito, nel mezzo dello stomaco. ”E bravo! Così, mi avrebbero spedito per niente? Si sarebbero sbagliati, secondo te?… No, no, tu hai lavorato bene. I miei, laggiù, saranno soddisfatti… Oh se tu sapessi!” ”Se io sapessi cosa?” Ma l’altro era svanito. Né si vedeva più la colonnetta di benzina. Neppure lo sgabello. Solo la notte, e il vento e lontano, laggiù, un andirivieni di automobili. A Princeton, New Jersey.
PER APPROFONDIRE:
Francesca Romana Capone, La quarta dimensione del romanzo
Poesia del ‘900 e scienza (4): “E ora arriva Einstein con un’idea”